"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Cristianesimo e buddhismo in terra d'occidente

 

di Claudio Torrero

(Karma Ngo Drub Ghiatzo)



[Testo già pubblicato in forma abbreviata in Tempi di Fraternità in due parti nel numero di aprile (pp.15-17) e maggio 2001 (pp.13-16)]

 

 

C'è una sola persona che potrebbe far sorgere l'idea di collocarla accanto a Gesù: Buddha. Quest'uomo costituisce un gran mistero. Egli se ne sta in una libertà terribile, quasi sovrumana, e nel contempo possiede una bontà potente come una forza cosmica. Forse Buddha sarà l'ultimo con cui il cristianesimo deve confrontarsi. Che cosa egli rappresenti dal punto di vista cristiano non lo ha ancora detto nessuno. Forse Cristo non ha avuto soltanto un precursore nell'Antico Testamento, Giovanni, l'ultimo dei profeti, ma ne ha avuto uno anche nel cuore dell'antica cultura, Socrate, e un terzo, che ha pronunciato l'ultima parola della conoscenza e del superamento religioso orientale, Buddha.

 

Romano Guardini

 

 

 

Questa riflessione intende essere innanzitutto la testimonianza di un cammino personale. Ho preso rifugio nel buddhismo senza abbandonare la pratica cristiana, alla quale ero pervenuto non senza difficoltà muovendo da una formazione essenzialmente filosofica. Alcuni dei contenuti qui esposti scaturiscono dagli insegnamenti di Thubten Rinchen, guida spirituale del Centro Studi Maitri Buddha di Torino. Anche la proposta di lavorare sul confronto tra buddhismo e cristianesimo, con l'idea che il primo possa contribuire a una rigenerazione del secondo, mi è stata fatta esplicitamente da lui. Io l'ho accolta con stupore dapprima e con perplessità, poi l'ho sentita sempre più rispondente al mio cammino personale, come si trattasse di una sua ricapitolazione.

Parlerò forse di cristianesimo e buddhismo non per quel che sono in se stessi, cioè nel loro significato originario, ma per come sono vissuti nel contesto della società occidentale contemporanea. La differenza non è probabilmente di poco conto, ma è un limite più che accettabile. Che l'occidente sia oggi terra di confronto tra buddhismo e cristianesimo è uno scenario tanto inedito e sorprendente da giustificare tutta l'attenzione.

 

 

 

Cristianesimo e modernità

 

 

Il rapporto tra occidente e cristianesimo costituisce uno dei nodi più delicati della filosofia moderna. Il fatto che l'uomo occidentale moderno non possa non considerarsi cristiano non esclude che cristianesimo e modernità si siano trovati per lo più in un rapporto di contrapposizione, al punto che è ormai nel senso comune connettere la genesi della modernità ai processi di secolarizzazione che hanno investito a ondate successive e sempre più in profondità la società europea.

Il problema può essere affrontato da una duplice prospettiva.

O i due fenomeni sono realmente contrapposti: e allora abbiamo due linee di pensiero tra loro ostili ma specularmente corrispondenti, da un lato l'illuminismo radicale dall'altro la teologia cattolica reazionaria, entrambi concordi nel vedere la modernità come processo di scristianizzazione; oppure la contrapposizione è solo apparente, perché la secolarizzazione ha radici inconsapevolmente cristiane, nel senso che il cristianesimo è la religione del Dio che si fa uomo, al punto da risolversi interamente in esso.

Questa seconda prospettiva, che già si trova delineata in Hegel, è stata fatta propria da settori significativi della teologia cristiana del '900, nel tentativo di recuperare un senso cristiano nella condizione dell'uomo moderno, e viene oggi riproposta dal pensiero debole, che mira invece a delineare l'orizzonte di quello svuotamento di tutti i valori trascendenti che definisce la condizione postmoderna. Quest'ultima non sarebbe che l'esito coerente, perché senza residui, dell'incarnazione cristiana.

Entrambe le prospettive si presentano insoddisfacenti.

La prima, irrigidendo il contrasto, rigetta nell'ombra gli elementi di connessione.

Perché la modernità si sviluppa specificamente dall'ambiente culturale caratterizzato dal cristianesimo? Anche se i processi di modernizzazione che oggi travolgono ogni altra istanza culturale non si presentano più da tempo nel segno dell'esportazione del vangelo di Cristo, quale ragione si ha di credere che siano guidati soltanto da meccanismi oggettivi come la tecnologia o le leggi del mercato, e che non agiscano strutture etiche profondamente radicate ancorché inconsce? Come non vedere del resto che i tentativi delle ideologie più radicali di estirpare completamente dalla coscienza europea il cristianesimo si sono infranti come per la resistenza di forze psichiche più tenaci di quanto non fosse dato pensare?

La seconda prospettiva ha la forza di ricomporre il contrasto dal punto di vista di uno sguardo superiore. Così facendo però non fornisce ragione di esso, e riduce il senso del cristianesimo al processo di emancipazione dal suo stesso involucro religioso, senza più domandarsi se tale involucro avesse a sua volta un senso ormai non più perspicuo. Riduce insomma il cristianesimo a giustificazione non più essenziale della modernità, o della postmodernità.

Senza contare che questa prospettiva non si confronta con uno degli aspetti più eclatanti dell'epoca postmoderna, il ritorno in grande stile del religioso. Col risultato che, mentre il cristianesimo protestante e cattolico prosegue senza tentennamenti sulla strada tracciata dal suo ultimo dogma, e si secolarizza fino all'estinzione, nello spazio lasciato vuoto prende forma un tipo nuovo di religiosità, i cui riferimenti modificano quei confini spazio-temporali che siamo abituati ad attribuire al nostro orizzonte culturale.

 

 

 

Il buddhismo è occidentale

 

 

Agli occhi del senso comune la presenza del buddhismo come elemento significativo della cultura occidentale è un fatto nuovo e stupefacente. Il fascino indiscutibile che da quasi due secoli esso esercita sulle élites culturali dell'occidente è apparso finora non disgiunto dalla seduzione dell'esotico. L'attrazione esercitata dallo sguardo di Buddha pareva così intensa proprio perché proveniente da un mondo irriducibilmente altro da quello in cui si ha abituale dimora.

Con sorpresa dunque gli uomini occidentali contemporanei si avvedono che il buddhismo si è stabilito tra loro, parla la loro lingua e interpreta i loro pensieri. Non ci vorrà molto perché si sentano compresi molto più compiutamente di quanto non avvenga con il cristianesimo. Il buddhismo comunica infatti con tutto ciò che per l'uomo contemporaneo è importante, dall'arte alla scienza alla psicologia. Non sembra neppure una religione ma un'epistemologia, che viene incontro alle più raffinate esigenze della riflessione.

Man mano che le sue premesse concettuali diverranno note, le persone colte cominceranno inoltre a riconoscere un'atmosfera molto familiare. Dissolvendosi l'aura esotica, apparirà un paesaggio straordinariamente simile a quello in cui prese forma la filosofia occidentale antica.

Come quest'ultima, il buddhismo è una via che passa attraverso la chiarificazione della mente. L'idea è quella che le sofferenze degli esseri abbiano la loro radice prima nell'ignoranza, cioè in un modo scorretto di concepire la realtà. Nella conoscenza è dunque la chiave della liberazione. Quando Platone rappresentò la ricerca della sapienza come uscita dalla caverna, creò una metafora dell'esistenza il cui senso è profondamente affine a quello della ricerca dell'Illuminazione.

Chi, essendosi formato nella luce di quella metafora, incontri oggi il buddhismo, può avere dunque l'impressione di ritrovare un cammino in occidente rimasto interrotto tanto tempo fa. Sottratta a una distanza favolosa e irreale, l'India si presenta come l'altra faccia della Grecia: anziché allontanare dalle nostre radici, inaspettatamente ci rinvia ad esse.

Congiungendo l'arcaico al postmoderno, il buddhismo in occidente prefigura una sintesi culturale di gran portata, capace di connettere le scissioni dell'occidente. Tra l'altro rendendo possibile l'esperienza religiosa laddove ormai sarebbe preclusa.

Molto rapidamente si scoprirà che è del tutto naturale diventare buddhisti, mentre sempre più difficile è essere cristiani. Oggi è il volto di Cristo che si ritrae in un'ombra quasi impenetrabile. Qualcuno potrebbe dire che si ripete un copione già visto nella storia dell'occidente. Un impero svuotato della sua tradizione religiosa cerca altrove un supporto capace di sostenerlo. Ma il paragone non regge, non foss'altro perché il buddhismo non si pone in forma concorrenziale. Non è l'islam, non propone una risacralizzazione dell'ordine sociale: ignora addirittura il problema della società e parla direttamente agli individui. Come forse faceva il cristianesimo delle origini.

 

 

 

Cosa c'è al di fuori del Libro?

 

 

Il rapporto fra cristianesimo e buddhismo è questione molto delicata. Una reciproca e spontanea simpatia, la comune aspirazione alla pace e alla nonviolenza non autorizzano a pensare che il problema sia semplice. Il cristianesimo deve infatti fare i conti con una convinzione vissuta come irrinunciabile, quella nell'unicità dell'evento salvifico. Una convinzione che a ben pensare potrebbe compromettere l'intero confronto interculturale.

Per un antico Greco, come per un Indiano tutt'oggi, risulta abbastanza ovvio che le proprie divinità corrispondono a quelle degli altri popoli. Quando Roma accolse nel proprio pantheon gli dei di tutte le etnie sottomesse, non lo fece dal punto di vista dell'indifferenza e del cinismo del potere, ma da quello di una convinzione che a noi risulta non più evidente: che le diverse tradizioni sono come lingue che possono venir tradotte le une nelle altre. Nel mondo antico solo forse gli ebrei rifiutarono questo modo di vedere le cose, rigettando gli altri culti come idolatri, rivendicando l'esclusività della propria elezione di fronte all'unico Dio e affermando in questo modo un primato religioso rispetto agli altri popoli.

Quando il cristianesimo venne riconosciuto a Roma come religione di stato, per le precedenti tradizioni fu creata la categoria di paganesimo, entro cui comprendere tutto ciò che potesse venir bollato di primitivo, naturalistico e magico: tutto ciò insomma che non apparteneva alla tradizione biblica. Ancor oggi questa categoria pesa sul confronto interculturale, perché induce a pensare gli universi che non rientrano nel filone delle religioni del Libro, pur con tutte le migliori intenzioni, come la preistoria di quest'ultimo, che non è ancora giunta alla coscienza del Dio unico e personale. Il tanto deprecato integralismo islamico è in realtà figlio di quello cristiano.

Si pone dunque una domanda impegnativa. Questo carattere esclusivistico del cristianesimo appartiene al suo nucleo teologico o è stato almeno in parte determinato da ragioni di ordine politico? Ovvero: in quale misura ha pesato, a partire da Costantino e per molti secoli, il fatto che il cristianesimo sia stato assunto come fondamento e legittimazione del potere politico in occidente? Non si può pensare che sia stato l'esclusivismo del potere a proiettare la sua ombra sul piano religioso?

Piacerebbe a molti (non dico a tutti) poter rispondere con certezza. Evocando l'idea che le seduzioni e i condizionamenti del potere rappresentano quel lato oscuro da cui la chiesa di Cristo deve costantemente separarsi. Sull'evangelizzazione dei popoli grava del resto un pesante sospetto, quello di aver aperto la strada all'imperialismo culturale dell'occidente. Non si chiederebbe dunque di meglio che far penitenziale rinuncia a ogni etnocentrismo e gettare il seme di Cristo direttamente nel terreno delle altre culture.

Purtroppo le cose sono più complesse. Perché il cristianesimo si costituisce effettivamente sul riconoscimento del Messia che gli ebrei attendevano e che non hanno accolto. Cioè si basa su un evento che, pur segnando una frattura all'interno di una tradizione, ne ha dilatato la portata a livello mondiale. Attraverso Cristo il Dio degli ebrei parla a tutti gli uomini, ebrei e non ebrei. Ciò sancisce la fine dell'elezione di un popolo, ma non certo di quella di una tradizione. Se il Dio degli ebrei ora parla a tutti gli uomini, a quale scopo prestare ascolto ad altre divinità?

Una via d'uscita forse c'è, per quanto necessariamente stretta. È la via della Pentecoste. Il vangelo di Cristo può venire annunciato a tutti i popoli, e non imposto, se parla la loro lingua. Se entra in rapporto con il codice nel quale hanno comunicato la loro sapienza e la loro fede. Riconoscendolo come vero, e accettando in questo modo la relativizzazione del codice nel quale esso stesso si esprime.

È la via di Dante, il quale, non per banale eclettismo ma per scelta consapevole, collegò la tradizione classica a quella cristiana.

Se si assume l'umanesimo e il rinascimento come origine della civiltà moderna, giova ricordare che essi scaturiscono dall'unione delle due tradizioni, e che la loro successiva separazione è stata portatrice di nefaste scissioni per la coscienza europea. Si può pensare che il confronto interculturale richieda oggi la formulazione sul piano filosofico di un più ampio umanesimo, in cui le diverse tradizioni dell'umanità possano comunicare tra loro.

 

 

 

Umano e divino

 

 

Per il buddhismo accogliere il cristianesimo non è difficile. In particolare dal punto di vista del Mahayana Cristo è il Bodhisattva per eccellenza, l'essere illuminato che prende su di sé le sofferenze del mondo per riscattarle. Non c'è nulla nei vangeli che il buddhismo non possa considerare anche proprio.

La differenza che solitamente viene richiamata, la presenza o meno dell'idea di un Dio creatore quale supporto della fede, potrebbe essere meno rilevante di quanto non si pensi.

La teologia cristiana del '900, usando termini come demitologizzazione o svolta antropologica, si è già sufficientemente disposta a riconoscere un senso metaforico nei contenuti della dottrina religiosa. Il buddhismo potrebbe dunque aiutare il cristianesimo a risolvere un difficile nodo nel suo rapporto con la condizione culturale moderna: accettare apertamente che le metafore siano tali senza che ciò comporti la perdita della fede.

La difficoltà a compiere risolutamente questo passo non è dovuta a ragioni propriamente teologiche, ma filosofiche. Il punto di maggiore resistenza è costituito dalla concezione della realtà fondamentalmente riduzionistica che ha dominato la storia culturale dell'occidente.

Venuto meno l'originario contesto cosmologico entro cui il cristianesimo si era sviluppato, nel quale i cieli manifestavano visibilmente la gloria di Dio e l'esperienza si svolgeva entro un sistema onnipervasivo di analogie, in cui tutto in qualche modo era metafora, il fondamento della fede è stato garantito, oltre che da una gestione autoritaria del potere politico, dall'edificio della filosofia aristotelica. In essa ogni ambito di realtà, da Dio alla natura all'uomo, era organizzato da un sapere di tipo oggettivistico, dominato dalla potenza raziocinante dell'intelletto. Tale edificio non è tuttavia sopravvissuto a lungo, e in particolare si è scoperto destituito di valore quando un nuovo sapere oggettivistico, meno ambizioso ma più efficace, si è impadronito della natura, prendendo il posto delle antiche cosmologie. Questo nuovo sapere, la scienza moderna, ha ispirato una concezione della realtà univocamente determinata sulla base di una causalità di tipo meccanico e dunque totalmente estranea a quella complessità che è implicita nell'esperienza religiosa.

Quest'ultima si è trovata confinata nell'ambito della dimensione umana. Il programma di una parte della filosofia moderna, in particolare tutti gli idealismi, consiste dunque nel tentativo di dilatare in vario modo tale dimensione al di là dei limiti della natura meccanicistica. Non senza il sospetto di qualche più grave problema filosofico.

Detto con le parole della filosofia di Heidegger, il destino stesso dell'occidente è stato condizionato dall'aver originariamente, a cominciare da Platone e poi con Aristotele, concepito l'Essere come Ente, cioè in termini univocamente definibili e controllabili. La teologia cristiana si è trovata ampiamente coinvolta in questa concezione, perché Dio è stato concepito come l'Ente superiore a ogni altro, in funzione di garante supremo della realtà, del quale però, in quanto Ente, è possibile un sapere, e quindi un controllo, come di ogni altro Ente. La crisi teologica della modernità, sintetizzata nell'annuncio di Nietzsche della morte di Dio, ha qui la sua radice, poiché quell'Ente cui il sapere e il controllo sono in ultima istanza riferiti, cioè l'Uomo, avoca a sé ogni funzione di garanzia sulla realtà e la esercita attraverso i mezzi da lui elaborati. Nell'epoca della tecnica dispiegata la tradizionale metafisica oggettivistica si rovescia dunque in una metafisica della soggettività, dove la struttura della realtà viene ricondotta all'attività ordinatrice e manipolatrice dell'uomo, a sua volta inteso come pura Volontà di Potenza. Questo è il significato filosofico del regno dell'uomo che prende il posto di quello di Dio.

Se il problema è dunque il senso dell'Essere quale viene pensato dalla filosofia occidentale, bisogna andare oltre questa tradizione, nella ricerca della rivelazione di un nuovo senso dell'Essere. È qui che l'incontro col buddhismo diventa altamente significativo sul piano filosofico. Lo stesso Heidegger fu molto vicino a intendere l'Essere come Vacuità.

Ma c'era vicino anche Nietzsche, per il quale propriamente la morte di Dio rappresenta la fine della convinzione che le cose abbiano un senso univoco. Quella convinzione era parsa un argine contro il nichilismo, e tuttavia l'aveva occultamente alimentato. Ora che l'argine s'è rotto non resta che farsi travolgere dal nichilismo, oppure compiere il salto decisivo al di là di esso. Accettando che il mondo vero è diventato favola, ovvero la realtà si è dissolta in un sistema di metafore.

Il buddhismo non ha alcuna difficoltà ad affermare che gli dei sono produzioni della Mente. Può farlo perché la Mente è a sua volta vuota di realtà intrinseca, e i termini che la designano, come la luminosità, hanno essi stessi natura metaforica.

Da questo punto di vista il buddhismo potrebbe essere l'approdo dello sforzo titanico della teologia cristiana del '900.

Quando Barth afferma che le religioni sono opera umana, e proietta la fede cristiana al di là di esse, e ancor più Bonhoeffer dichiara che si tratta di vivere al cospetto di Dio in un Mondo in cui il termine Dio non ha più alcun significato, evidentemente esprimono una natura paradossale dell'esperienza religiosa abbastanza prossima a quella buddhista.

Senz'altro in accordo con le esigenze dell'uomo contemporaneo, per il quale la spiritualità deve effettivamente aprirsi al di là e non al di qua dell'intelligenza.

 

 

 

Visione buddhista della croce

 

 

Non solo il buddhismo non si pone in termini concorrenziali rispetto al cristianesimo, ma può effettivamente contribuire a una sua rigenerazione.

Il buddhismo d'occidente da un lato è erede della morte di Dio, dall'altro viene incontro all'aspettativa di una reinterpretazione del messaggio cristiano e non può che svilupparsi entro questo solco.

I due aspetti sono solo apparentemente in contrasto. Il fatto è che il cristianesimo è tanto profondamente radicato nell'occidente quanto inconsapevole di esserlo. Forse i cristiani in quanto tali non sanno ormai chi sono, e può essere che dall'incontro col buddhismo si attendano una rivelazione del senso della loro fede.

Agli occhi del buddhismo il Cristo dei vangeli rappresenta nel modo più elevato l'aspetto infinitamente compassionevole di un essere illuminato. Quella che è la vocazione fondamentale di un cristiano, l'imitatio Christi, coincide perfettamente con la via buddhista. Si potrebbe dire che meta del cammino buddhista è diventare come Cristo. Nel cristianesimo infatti la compassione è condotta a un punto che non trova riscontro in altre religioni: Dio stesso offre in sacrificio il Figlio per il riscatto dell'umanità. Ciò costituisce per il buddhismo ragione sufficiente di interesse e amore.

Dal punto di vista del buddhismo tibetano il simbolo cristiano per eccellenza, il Cristo crocifisso, è l'immagine di una divinità irata, cioè nel suo aspetto terribile.

A dispetto di una convinzione abbastanza diffusa che vede nel buddhismo la singolarità di una religione atea, si trova in esso un filone tantrico nel quale assume grande importanza la visualizzazione delle divinità. Lo scopo è di assorbire le energie che alle varie divinità sono connesse.

Queste ultime si presentano dunque generalmente sotto due aspetti, quello benevolo e quello irato. Vale a dire ciascuna divinità, oltre che manifestarsi nella forma radiosa di una perfetta realizzazione, può anche apparire sotto un aspetto mostruoso e terrificante. Ad esempio Manjushri, il Buddha della saggezza, ha la sua forma irata in Yamantaka, il distruttore della morte, una figura orribile e bestiale.

La ragione di questa duplicità non è facile da afferrare. Bisogna tuttavia escludere un significato demoniaco, poiché nel buddhismo non vi sono personificazioni del male. L'idea è piuttosto quella che tutte le forze, anche quelle più oscure, possono essere utilizzate nella ricerca dell'Illuminazione. Le divinità irate rappresentano dunque energie profonde, il cui controllo può conferire un'estrema decisione lungo il sentiero dell'abbandono delle illusioni mondane.

Il Crocifisso è una divinità irata perché rappresenta il dono di sé nella forma più terribile e disumana, attraverso la sofferenza e la morte e ancor più l'angoscia dell'abbandono. La spaventosa luminosità che emana da questa figura è la condizione perché si manifesti la luce radiosa della resurrezione. Ciò a cui i cristiani sono chiamati è dunque contenuto in questo simbolo: morire con Cristo al mondo per risorgere in Lui. Quindi crocifiggere se stessi, dimenticare e donare senza condizione la propria persona.

Se al posto di cercare le ragioni per cui gli uomini agiscono, materiali o ideali che siano, si concentrasse l'attenzione sul modo in cui lo fanno, apparirebbe con evidenza che la vicenda dell'occidente medioevale e moderno è dominata da questo simbolo. Da esso si è sprigionata una religiosità il cui senso più profondo è il dono di sé. Ciò ha comportato conseguenze di non poco conto sulla fisionomia di una civiltà. Non sarebbe stato possibile all'occidente dimenticare le sue radici e affrontare il carico di sofferenza da cui la modernità si è generata se l'oblio di sé non fosse stato scritto nel suo codice genetico. Se ogni altra virtù non fosse stata subordinata a questo particolare tipo di forza personale, che nulla teme di affrontare perché ha fatto la sua dimora nel dolore.

Da questo punto di vista le contraddizioni dello spirito moderno, il senso umanitario e insieme la spietatezza, l'aspirazione a giustizia e fratellanza e il più crudo utilitarismo, si compongono in una struttura mentale il cui nucleo è la capacità di sostenere le contraddizioni. Una civiltà che è stata capace di sognare come nessun'altra e insieme di accettare il più desolato disincanto, di profondere tutte le sue risorse in un attivismo in cui dominio e servizio coesistono indistricabilmente. In cui lo stesso dono di sé diventa indistinguibile dall'alienazione. Anche la secolarizzazione si origina da questo stesso ceppo. Al senso profondo del cristianesimo ripugna infatti difendere se stesso, aspira a obliarsi, a essere seme che muore per dare frutto. Per questa ragione spesso i cristiani più coerenti sono stati gli eretici, gli scomunicati e gli atei: perché solo chi non teme di perdersi otterrà salvezza.

Anche l'incontro con il buddhismo potrebbe inserirsi in questa tendenza del cristianesimo a farsi altro da sé. Ma non soltanto.

 

 

 

Sapienza rimossa

 

 

Alle radici dell'occidente c'è una scissione mai del tutto sanata, che può spiegare certi gravi conflitti recenti e in particolare alcuni aspetti della moderna rivolta contro il cristianesimo.

Quando quest'ultimo si impose, non solo tacquero le voci degli dei antichi, ma un velo cadde su quella libera ricerca e quell'insegnamento di vita che recava il nome di filosofia, cioè amore della sapienza. La sapienza infatti non era più da cercare poiché si era completamente manifestata nell'evento nel quale la vicenda dell'universo trovava la sua cifra. Restava da prenderne atto e da svilupparne tutte le implicazioni. Si era ormai spalancato il regno di Dio.

Di quella stessa sapienza che l'evento cristiano rivelava si persero tuttavia a poco a poco le tracce, per opera del cristianesimo stesso. Al punto che oggi affermazioni pur di grande rilevanza teologica, come quella che Cristo è il Logos, ovvero la Sapienza in base a cui il mondo è stato costituito, appaiono del tutto incomprensibili.

Le ragioni per cui ciò è avvenuto sono complesse. È facile tuttavia osservare che il rifiuto a riconoscere nell'esperienza religiosa un livello cognitivo divenne crescente quando il cristianesimo assunse nelle sue mani la guida spirituale e politica dell'occidente. Contemporaneamente crebbe d'importanza il simbolo della croce. Come se tra i due termini vi fosse una profonda incompatibilità.

In realtà per vari secoli la civiltà cristiana fu anche a certi livelli una civiltà sapienziale, in cui i vecchi simboli potevano tradursi nei nuovi: per tutto il medioevo e fino al rinascimento. Quando però si giunse alla condanna di Giordano Bruno apparve chiaro che la chiesa si era definitivamente separata dalla filosofia, e che quest'ultima, risorta in nuove forme, avrebbe ispirato la rivolta anticristiana.

È possibile che l'incontro con il buddhismo rappresenti oggi per il cristianesimo l'opportunità di reintegrare un livello dell'esperienza religiosa che non è originariamente estraneo ma di cui non ha più memoria.

Da questo punto di vista le differenze culturali possono diventare, anziché un ostacolo, una risorsa. Più lontano ci spingiamo nello spazio e nel tempo, maggiori diventano le possibilità di comprensione.

Nel buddhismo troviamo che saggezza e compassione sono le due virtù supreme e vanno perseguite nel loro nesso inseparabile. Senza compassione la saggezza è sterile (precisamente come dice san Paolo), ma altrettanto manchevole è la compassione senza saggezza. Può dar luogo a una disposizione al dono di sé che ignora quale sia la struttura a cui si deve in primo luogo rinunciare, cioè l'io. Il frutto è una possibile confusione degli scopi, di cui il cristianesimo è stato spesso accusato. Può dar luogo in generale a una coscienza scissa, incapace di trovare quella pace a cui aspira perché continuamente proiettata al di fuori di sé.

Ciò non si riferisce all'atmosfera dei vangeli, nella quale si respira la stessa pienezza dei discorsi del Buddha (quella pienezza il cui senso profondo è paradossalmente la Vacuità), ma a come il cristianesimo si è configurato nella sua radicale connessione con l'occidente. Per questo noi oggi, che da quella connessione deriviamo, abbiamo bisogno del buddhismo. Perché ci conduce al di là delle nostre radici e al tempo stesso nel loro senso più profondo.

 

 

 

La prova del dolore

 

 

La conoscenza insegnata dal buddhismo ha un diretto riscontro esistenziale perché investe il rapporto tra la condizione umana e l'ordine cosmico. Essa riconosce che tale rapporto è caratterizzato dal dolore, ma con ciò stesso dischiude la via della liberazione. Analizzando infatti la natura del dolore si scopre alla sua radice l'attaccamento, e questo a sua volta scaturisce da un errore cognitivo, dall'incomprensione dell'impermanenza delle cose. Ciò che fa soffrire è non riuscire a trattenere quello che continuamente sfugge. Come verrà detto nel Mahayana, si tratta di riconoscere che le cose sono vuote di natura intrinseca, cioè non esistono in modo indipendente ma solo in relazione alle condizioni che le determinano.

Questo modo di pensare appare molto lontano dal cristianesimo. Non solo del tutto diverso è lo sfondo culturale da cui emerge, quello della tradizione indiana, nella quale il dolore è la condizione cosmica di tutti gli esseri che vivono nel samsara, ovvero nel ciclo delle rinascite; ma ancor di più può apparire estranea l'immagine di una religione che si presenta come guarigione dal dolore. Cosa ci può essere di simile a quell'estrema e sconfinata accettazione del dolore che è rappresentata dalla croce di Cristo?

Occorre però dirimere un equivoco.

In tutti i contesti religiosi, e in genere nell'etica universale dei popoli, il dolore è insieme la negatività dalla quale si cerca di uscire, la malattia di cui si chiede la guarigione, ma anche ciò il cui attraversamento ha un significato di purificazione personale. I due aspetti non sono in realtà in contrasto, e del resto un insegnamento della vita è che ci si libera di quello che si ha avuto la forza e la saggezza di accettare.

Quando si parla di dolore se ne parla in realtà a due diversi livelli di significato.

Al primo livello troviamo quel dolore di cui chiunque è costretto ad ammettere che la vita è intrisa: la sofferenza che prima o poi ciascuno incontra, che scava nel corpo e nello spirito, l'amaro calice che tutti cerchiamo come si può di allontanare. Il secondo livello di significato è questa inaccettazione del dolore, che produce un dolore ulteriore.

È a questo secondo livello che in realtà si riferisce l'insegnamento profondo di tutte le religioni e di tutte le saggezze, senza nulla promettere riguardo al primo. Potrebbero anche esservi ricadute, ma attenderle come dovute sarebbe superstizione. Il fatto che Gesù sia morto fra atroci tormenti e che anche il Buddha abbia molto sofferto nel lasciare il suo corpo dovrebbero essere un chiaro messaggio per tutti.

Sotto questo aspetto l'insegnamento buddhista giunge a proporre una rettifica nell'orientamento della cultura occidentale. La rivolta anticristiana degli ultimi due secoli ha infatti generato un atteggiamento dominato dalla convinzione di poter allontanare definitivamente il dolore dalla vita. A partire dall'illuminismo si è diffusa l'idea che il progresso tecnico-scientifico e le riforme sociali avrebbero liberato l'uomo dal carico di sofferenza che da sempre lo travaglia. Naturalmente questa attesa è andata delusa. Benessere economico e sicurezza sociale possono recare sollievo alla condizione umana ma non cambiarla. Averlo creduto è stato fonte di nuovi disagi. Forse nessuna epoca come questa moderna si è nutrita di superstizione.

 

 

 

Il dolore della storia

 

 

Qualcuno potrebbe osservare che al centro del cristianesimo non è il problema del dolore ma quello del male. Quello che in tutte le religioni è lo stato di impurità da cui le pratiche rituali salvaguardano acquista caratteri più propriamente morali. È una condizione corrotta della volontà, lo stato di peccato da cui l'umanità attende la salvezza e di cui il dolore è conseguenza.

Non è un caso che questa condizione si rappresenti come schiavitù: non lo è perché, nell'orizzonte culturale da cui il cristianesimo emerge, quello della tradizione ebraica, più che dal piano cosmico le metafore sono tratte da quello dei rapporti sociali. È un diverso orientamento dell'attenzione, le cui conseguenze sono di grande portata.

Molto significativo è che il popolo ebraico abbia considerato proprio evento fondante la liberazione dalla schiavitù d'Egitto. Si può pensare che questo evento abbia un significato complesso, in parte immediatamente intuibile in parte no.

L'Egitto rappresenta il sistema di potere della società arcaica, un sistema rigidamente gerarchizzato ed esclusivo dove l'ordine sociale si fonda su quello religioso e quest'ultimo consiste in un apparato di simboli e di miti attraverso cui la condizione umana riceve il suo radicamento cosmico. Forse non diversamente dall'India; con la differenza che nell'area occidentale i movimenti dei popoli e il sovrapporsi delle dominazioni rendono i rapporti più crudi e conflittuali.

Diciamo dunque che il popolo ebraico, avendo vissuto la discriminazione di questo tipo di società e stabilito la sua identità nel rifiuto di essa, si trova a dover abbandonare anche l'esperienza religiosa che vi era connessa, aprendo così una via del tutto nuova in cui la modernità può ancora riconoscere le sue radici. È la via della storia e del disincantamento, cioè di un nuovo tipo di esperienza umana in cui il mondo, privato di ogni sacralità, è la nuda scena su cui si svolgono gli eventi di una profezia.

Questa profezia, che ha al centro la promessa di un regno umano di giustizia, ha agito come un fermento nella crisi dei grandi sistemi arcaici dell'antichità occidentale, in cui masse via via più estese di uomini, strappate da ogni radicamento, erano gettate in una condizione di totale insensatezza. E quando l'ultimo e più crudele di quei sistemi, l'impero romano, crolla, viene meno l'involucro entro cui è avvenuta una metamorfosi: dal seme di Israele è nato un albero in cui la civiltà occidentale troverà solido fondamento.

In tempi duri e sconvolgenti la forza del cristianesimo è stata di chiamare gli uomini nel mezzo del naufragio e di ricostituire per loro un senso dell'essere. E per uomini ben diversi da quelli che in India avevano cercato l'Illuminazione, la cui angoscia era di scomparire nei gorghi degli eventi, nessuna sapienza valeva la certezza di non essere stati abbandonati, che gli ultimi sono i primi nell'attenzione di Dio.

Quando oggi si pensa alla promessa fatta ad Abramo, ti farò padre di una moltitudine di nazioni, non si può non pensare alla sua realizzazione.

Quale che sia il contenzioso che ancora divide ebraismo, cristianesimo e islam, le religioni che discendono dal ceppo biblico si sono estese su tutta la terra, sommergendo ogni altro tipo di esperienza religiosa. Da questo stesso ceppo, e in particolare dall'ebraismo e dal cristianesimo, si sono inoltre generate le ideologie laiche della modernità, che hanno ulteriormente sviluppato la rivoluzione sociale che era già implicita nell'Esodo. Quando oggi i teologi cristiani parlano di storia della salvezza non fanno che ricondurre la moderna concezione del progresso umano alla sua matrice originaria.

Ma proprio quando tutto ciò è visibile nel suo dispiegamento, un velo di tristezza sembra scendere inaspettato.

Questo cammino emancipativo che siamo abituati a chiamare storia ha creato nuovi cumuli di dolore, e altro dolore l'ha creato la desacralizzazione del mondo. Senza contare che dal seno delle religioni bibliche pare generarsi una società semplicemente non più religiosa. Come se il disincanto fosse un china inarrestabile, il cui esito ultimo è il nichilismo.

Viene da ripensare le premesse originarie.

 

 

 

Ritorno all'Eden

 

 

Nella tradizione biblica il peccato, e quindi l'origine del dolore, è spiegato con un mito. Esso non appartiene alla costituzione originaria del mondo ma vi è entrato attraverso una colpa commessa dai primi uomini. La vicenda è nota, essi trasgredirono a un divieto di Dio. Per questo il giardino incantato in cui erano stati collocati di colpo si trasformò nella durezza della terra da lavorare con fatica, ed essi stessi conobbero il dolore e la morte. Conobbero insomma quella condizione descritta dalle parole del Buddha, nascere è dolore, malattia è dolore, morire è dolore.

Se intendiamo che l'aspetto essenziale del peccato consiste nella disobbedienza, per cui viene stravolto il rapporto Creatore-creatura, ne deriva che l'emancipazione dalla schiavitù coincide con il ritrovamento di un'obbedienza originaria, a cui ogni gerarchia sociale deve sottomettersi.

Questo tipo di lettura può apparire abbastanza ovvio per l'ebraismo, svolgendo una funzione di legittimazione dell'alleanza. Poiché gli uomini si sono abbandonati alla disobbedienza, Dio ha chiamato a Sé un popolo che sia per tutti gli altri un esempio di fedeltà, riconciliando così l'umanità con lui. Lo è anche per l'islam, che si definisce come religione universale della sottomissione di tutti i popoli all'unico Dio. La frattura che separa oggi la civiltà occidentale post-cristiana dall'islam si deve al fatto che quest'ultimo, in nome dell'obbedienza agli immutabili principi divini, si presenta come argine al disordine morale dell'occidente.

Per quanto questa lettura sia stata anche cristiana, e abbia alimentato una tetra concezione della malvagità umana e della necessità di un potere politico inflessibile, ci sono ragioni per pensare invece che essa non appartenga al suo nucleo originario, al Gesù dei vangeli. Per una profonda affinità con quest'ultimo il buddhismo potrebbe contribuire a far emergere una diversa interpretazione.

Guardando attentamente, osserviamo con chiarezza che il contenuto della colpa riguarda la conoscenza. La scena del peccato si svolge infatti intorno a un simbolo ben preciso: l'albero della conoscenza del bene e del male.

Cosa significa allora che Dio aveva vietato di cibarsi dei frutti di quell'albero, affermando che ne sarebbe altrimenti derivata la morte? E cosa significa la promessa del serpente, sarete come Dio, conoscitori del bene e del male? Forse che Dio voleva mantenere gli uomini nell'inconsapevolezza? In questo caso il serpente aveva ragione: come sostiene Hegel, l'uomo emerge come tale solo attraverso quella colpa.

Ma la condizione originaria in cui gli uomini sono collocati, rappresentata dalla metafora dell'Eden, non può essere mancanza di conoscenza, poiché ciò sarebbe in contrasto con quel senso del vivere nella luce di Dio e nell'armonia con la creazione che è espresso dalla metafora; piuttosto un diverso rapporto con essa.

Il serpente ha mentito, perché gli uomini avevano la conoscenza senza sapere né desiderare di possederla. Se è consentito usare termini buddhisti, la loro mente non era dualistica, ma come uno specchio rifletteva la vera natura delle cose. In termini cristiani la conoscenza era un dono, perché vivevano nella grazia di Dio.

Da entrambe le prospettive la colpa consiste nell'uso appropriativo della conoscenza, per cui gli uomini, utilizzandola per i loro scopi, rinunciano alla sua originaria essenza.

L'aver ceduto a quella seduzione, che è poi la seduzione del potere, comporta una rottura dell'armonia con gli ordinamenti cosmici e da ciò scaturisce il dolore. I cieli si allontanano, la terra diventa estranea, gli uomini conoscono la durezza di doversi costantemente appropriare di ciò che prima era donato.

La redenzione dell'umanità che nella croce e nella resurrezione è rappresentata si collega direttamente con il nodo del peccato originale ed è lo scioglimento di quel nodo. Questo scioglimento non può essere inteso né come ritorno all'obbedienza, perché sarebbe in contrasto con il carattere scandaloso e paradossale del vangelo e della figura del Cristo, né come uscita dalla schiavitù, in quanto Gesù rifiutò di farsi protagonista di un'emancipazione sociale.

È importante osservare che la dimensione temporale determinante nei vangeli non è il futuro ma il presente, e che le metafore che designano il regno di Dio mettono in luce il cammino personale, come il tesoro per cui vale la pena di vendere tutto, o il rapporto comunitario, come l'essere tralci di un'unica vite.

Nei vangeli non c'è più storia. Se Gesù è colui che si attendeva, essa è compiuta: il regno di Dio si dischiude quando si accetta questo compimento.

Anche quell'unico precetto cristiano, l'amore, ha pienamente senso in questa luce. Solo se tutto è compiuto posso rimuovere le ostilità. Perché, come direbbe il buddhismo, non ho più attaccamento. Il cristianesimo rappresenta questa condizione con una forza simbolica straordinaria: con il dono del proprio corpo.

In che senso dunque l'evento cristiano è lo scioglimento del nodo del peccato?

Quello che la cultura ebraica ha voluto indicare come colpa originaria dell'umanità lo possiamo concepire come un estraniarsi dal mondo a cui si appartiene al fine di dominarlo. Ciò conduce ad un grave disordine nella relazione tra l'uomo e il mondo, che si riproduce nel rapporto tra gli uomini: quel disordine che continuamente genera dolore.

Ogni tentativo di riottenere ciò da cui ci si è esclusi è condannato al fallimento perché condotto con le stesse modalità che hanno determinato l'esclusione. Quindi ogni liberazione è attesa invano se non quella che affronta il problema alla radice, annullando insieme l'attesa e ciò che è all'origine dell'attesa.

Nel buddhismo tutto ciò è contenuto in un insegnamento. Nel cristianesimo è rappresentato in un evento.

 

Claudio Torrero

(Karma Ngo Drub Ghiatzo)

 

 

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