"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII
del re indiano Ash
oka
(III secolo a.C.

 

Vita monastica e dialogo interreligioso
sotto il segno dell’escatologia


A partire dall’esperienza dei fratelli di Tibhirine


Christian Salenson

 

Martiri di TibhirineNel corso di questi ultimi decenni la vita monastica è via via divenuta sensibile alla teologia e alla spiritualità dell’incontro delle religioni. Con il suo apporto originale e prezioso essa ha anche contribuito a notevoli passi avanti. Nel XX secolo alcuni monaci furono precursori: Thomas Merton, Henri Le Saux e molti altri meno conosciuti, viventi o scomparsi, che hanno portato una loro pietra all’edificio. È in questo scenario che occorre situare l’esperienza di Tibhirine come singolare, la cui collocazione nella terra dell'islam non è l'ultima delle sue caratteristiche originali.

La chiesa ha bisogno della vita monastica per sostenere il suo impegno nel dialogo interreligioso e per elaborare progressivamente una teologia cristiana dell’incontro delle religioni, teologia questa che, ad oggi, resta ancora balbettante. Si può anche pensare che la vita monastica riceva molto e possa ricevere ancora di più in questa azione di apertura ad altri credenti e ad altre tradizioni religiose. In che cosa il dialogo interreligioso è un apporto prezioso alla vita monastica? E, in cambio, quale importanza rappresenta la vita monastica per il dialogo interreligioso?

Vorrei fornire alcuni elementi di risposta a partire dall’esperienza dei fratelli di Tibhirine. La vita monastica e l’insieme della chiesa possono arricchirsi molto con l’esperienza dei fratelli dell’Atlas. La conoscenza della loro esperienza resta limitata ma abbiamo progressivamente accesso ai loro scritti ed entriamo a poco a poco nella comprensione della loro esperienza originale.

La singolarità dell’esperienza di Tibhirine è reale ma non deve servire come pretesto per relativizzarla. La storia del dialogo interreligioso, che conosciamo ancora così poco e così male, ci insegna che si deve molto all’esperienza di precursori, sia nel corso dei secoli (Francesco d’Assisi o Pietro il Venerabile, a voler citare un monaco… per non parlare di san Bernardo!) sia in tempi recenti (l’esperienza di Kurisumala, di Monchanin, in un certo modo di Giovanni Paolo II, eccetera). Dobbiamo resistere alla tentazione di descrivere le persone come pionieri e di enfatizzare l'originalità della loro esperienza a tal punto da eliminare la necessità di recepire il loro messaggio. Non è preferibile considerare l’esperienza di Tibhirine, insieme ad altre, come segno della novità dello Spirito e come un dono prezioso fatto alla chiesa, dono che, in quanto tale, non diventa realmente un dono che quando è ricevuto?
 

Qualche elemento dell’esperienza di Tibhirine

Prima di affrontare la questione del mutuo apporto tra vita monastica e dialogo interreligioso, vorrei sottolineare alcune caratteristiche dell’esperienza di Tibhirine in modo da non scollare la riflessione dall’esperienza che la suscita.

Una situazione di dipendenza

I fratelli di Tibhirine erano stranieri in terra di Algeria. Essi si trovavano nella situazione particolare di dover rinnovare i loro documenti di residenza anche se avevano fatto voto di stabilità. La loro situazione di dipendenza era tale che la maggior parte di loro, non avendo la nazionalità algerina, potevano venire espulsi, dall’oggi al domani, dalle autorità politiche. D’altra parte, dalla decolonizzazione in poi questa comunità aveva sempre vissuto nella precarietà. Dal 1963 l’abate generale aveva deciso la chiusura del monastero, non senza motivo poiché non vi restavano che pochi monaci, cosa che nei corridoi del concilio gli attirò i fulmini di monsignor Duval, arcivescovo di Algeri. L’abate generale morì la notte successiva[1]. La precarietà era costitutiva della comunità in quanto, in ogni caso, in terra d’islam essi non avrebbero potuto essere più di dodici più uno. Questa precarietà e il loro piccolo numero non impedì di rispondere alla richiesta del vescovo del Marocco, Hubert Michon, fondando una comunità a Fès! Dopo i drammatici avvenimenti del 1996 i due sopravvissuti, frère Jean-Pierre e frère Amédée, vi furono accolti. Con loro, l’intuizione di Notre Dame de l’Atlas prosegue oggi a Midelt e questa fondazione marocchina, che, secondo i criteri umani, non era molto ragionevole, continua l’esperienza di Tibhirine. La precarietà non ha dunque impedito a questa comunità di portare frutti e per lungo tempo se si pensa al suo attuale irradiamento!

Di fatto la precarietà, dissimulata o meno, è la sorte di molte comunità monastiche, ma anche di molte diocesi! È curioso che essa sia raramente considerata come una forma di povertà evangelica che offre l’opportunità di una più grande autenticità, anche se le uniche due chiese dell'Apocalisse che non sono soggette a critiche sono quelle precarie. I fratelli fecero la scelta di non dedicarsi ad opere sociali, contrariamente a numerosi ordini di vita apostolica in Algeria o in Marocco[2]. Non dimentico la presenza di frère Luc il medico, ma essi non giustificarono la loro presenza con l’aiuto dato alla popolazione locale, fornendo lavoro o servizi. Vivevano con loro. Il lavoro agricolo fu organizzato in cooperativa con i vicini. Al rapporto salariato preferirono la modalità associativa. D’altronde la comunità intratteneva un legame privilegiato con la chiesa locale. Non è così frequente che monasteri abbiano un legame così forte con la vita della diocesi.

Questa vocazione ci mantiene segretamente vicinissimi ai cristiani algerini che devono coniugare vita nascosta ed evangelo, restando nella mischia[3].

Questa prossimità si esprimeva con una relazione privilegiata con il vescovo, sia che si trattasse del cardinale Duval[4] che di monsignor Tessier. È vero che l’uno e l’altro erano molto legati e molto comprensivi della vita monastica.

Queste poche osservazioni convergono. Esse dimostrano la loro situazione di dipendenza riguardo a un paese, alle autorità politiche, ai vicini e a una chiesa particolare. Essi vivono in un ambiente di gente semplice e povera. Con Fès, Tibhirine era il solo monastero dell’ordine cistercense a trovarsi in un ambiente strettamente non cristiano. Christian de Chergé fa notare che persino le fondazioni in India si trovano in un ambiente dove esiste un nocciolo cristiano. Anche per il suo rinnovamento, la comunità dipende da altri monasteri. Le vocazioni non possono provenire né dall’Algeria né dal Marocco.

Si capisce che, nell’ordine trappista, si siano posti la domanda sulla fondatezza dell’esistenza stessa di questa comunità. Un abate generale diceva anche che “l’ordine non può permettersi il lusso di un monastero nel mondo musulmano”. Christian racconta, non senza umorismo, il sogno che fece l’abate generale, dom Bernardo Olivera, di passaggio a Tibhirine: un fratello dell’ordine prendeva per il collo un fratello dell’Atlas dicendo: “Primo, tu sprechi la tua vita di fronte a questo mondo musulmano che non ti chiede nulla e si prende gioco di te mentre c’è tanto da fare altrove, tanti popoli che aspettano solo la tua testimonianza per arrivare alla vita contemplativa e venire a ingrossare le fila della tua comunità… Secondo, poverino! Il nostro ordine non sa davvero che farsene di una fondazione come la tua; è un peso morto!”, e nel sogno Bernardo rispondeva e difendeva questa fondazione! Risvegliatosi, annotò con cura la sua risposta[5].

In breve, questa situazione di stranieri, assolutamente speciale, li metteva in condizione di lasciarsi accogliere da altri. È una buona condizione per il dialogo!

Il dialogo con l’islam

I fratelli avrebbero potuto vivere in ambiente musulmano senza ripercussioni sulla loro vita monastica. In un certo modo ciò avvenne a Staouëli[6], benché occorrerebbe studiare più da vicino la situazione per non fare dell’anacronismo. Se ciò avvenne non furono i soli! Molti hanno vissuto così. Pierre Claverie[7] lo disse di sé stesso:

Durante l’infanzia non ho frequentato l’ambiente musulmano. Al momento dell’indipendenza avevo la testa piena di immagini degli “arabi” in procinto di massacrare il mondo in cui ero nato[8].

Nella stessa comunità di Tibhirine i fratelli non ebbero tutti né la stessa sensibilità né la stessa apertura. Tuttavia un certo numero di condizioni furono necessarie perché questa esperienza, essenzialmente comunitaria, potesse essere vissuta.

Tra queste condizioni era necessario, poco o tanto, lasciarsi abitare dalla domanda relativa al posto delle altre religioni nel disegno di Dio, in questo caso la questione del posto dell’islam. Se ci si è già dati una risposta a questa domanda tenendo conto che in questa tradizione religiosa vi sono certamente delle cose buone ma che essa resta inferiore o non è che una preparazione evangelica, si consideri allora che quanto ha di buono une tradizione religiosa, in ogni caso l’abbiamo anche noi nella nostra. Ma tenere aperta la questione del posto di una religione nel disegno di Dio significa restare disponibili all’incontro e accettare di lasciarsi spiazzare.

Porto in me l’esistenza dell’islam come una domanda lancinante. Ho un’immensa curiosità per il posto che esso tiene nel disegno misterioso di Dio. Penso che solo la morte mi fornirà la risposta che attendo. Sono certo di decifrala, abbagliato, nella luce pasquale di colui che si presenta a me come il solo musulmano possibile perché non è che un “sì” alla volontà del Padre[9].

Ogni passo per il dialogo esige una profonda fedeltà a ciò che si è. Restando sé stessi si può essere trasformati dall’incontro e ricevere dall’altro.

Voi avete la missione di inculturare il carisma cistercense – diceva loro l’abate generale – affinchè le manifestazioni di questo monachesimo possano arricchirsi di quanto voi avrete spigolato nella cultura locale […].

Questa inculturazione può provocare una reazione di paura, quella di perdere la vostra identità monastica. Per non sperimentare questa paura o per liberarsene, la prima cosa da fare è approfondire la vostra cultura monastica[10].

È ancora necessario riconoscere la ricchezza dell’islam e la presenza dello Spirito in questa tradizione religiosa. La chiesa ha affermato chiaramente che essa “non rigetta nulla di ciò che è vero e santo” nelle altre religioni, e questo riguarda tanto “i modi di agire e di vivere” quanto “le regole e le dottrine”[11].

In una conferenza tenuta in occasione delle “giornate romane” Christian proseguiva la riflessione della chiesa e riconosceva in questi i gradini di una stessa scala mistica.

Il dono di sé all’Assoluto, la preghiera regolare, il digiuno, la condivisione dell’elemosina, la conversione del cuore, il memoriale incessante della presenza, la fiducia nella provvidenza, l’urgenza dell’ospitalità senza frontiere, il richiamo al combattimento spirituale, al pellegrinaggio interiore… In tutto questo come non riconoscere lo Spirito di santità che non si sa né da dove viene né dove va, da dove discende né per dove risale? Il suo mandato è sempre di far nascere dall’alto[12].

Se l’esperienza di Tibhirine è profondamente segnata da una situazione di dipendenza, essa non lo è di meno dall’impegno dei fratelli nel dialogo con l’islam. Fino ad oggi il dialogo interreligioso monastico si è soprattutto sviluppato con le religioni asiatiche, ed in particolare il buddhismo, a causa della struttura monastica, ma il fatto che nell'islam non esista una struttura comunitaria monastica non deve essere fuorviante. I legami tra la vita monastica e l’islam non sono superficiali[13]. È sufficiente osservare il posto dell’obbedienza nell’islâm (“sottomissione”) e l’obbedienza nella Regola di san Benedetto, il legame tra l’opus Dei e il salât, preghiera regolare cinque volte al giorno, senza contare il digiuno o l’ospitalità, eccetera. Il legame tra islam e vita monastica è in qualche modo così forte che il cardinale Duval ha potuto dire che la vita monastica è ciò che nell’islam è più in grado di far capire l’istinto profondo della chiesa! Da questo punto di vista, l’esperienza di Tibhirine è essenziale. Questa esperienza è un invito fatto alla vita monastica a non disertare il dialogo islamo-cristiano in quanto questa vita ha qualche cosa da dire e qualche cosa da ricevere, a nome di tutta la chiesa.

Apporto del dialogo interreligioso alla vita monastica

Il legame tra la vita monastica e il dialogo interreligioso si consoliderà se si va fino al suo fondamento. Credo utile andare fino a quest’unico fondamento per capire il senso degli scambi attuali e quanto ha reso possibile l’esperienza di Tibhirine. Faccio l’ipotesi che il dialogo interreligioso e la vita monastica abbiano uno stesso fondamento. L’uno e l’altro sono sotto il segno dell’escatologia.

Il dialogo interreligioso sotto il segno dell’escatologia

Dal momento in cui si prende sul serio un’altra religione e la si considera in modo positivo, riconoscendovi, dal punto di vista della fede cristiana, la presenza del Cristo sotto la forma dei “semi del Verbo” o dei “raggi di Luce”, si pone la domanda di conoscere quale sia il suo posto nel disegno del Padre. Frère Christian lo esprime assai bene in diversi scritti, anche nel suo testamento:

Finalmente sarà liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che, se piace a Dio, potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam così come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo[14].

La domanda non è teorica. Essa è esistenziale. Non ha una risposta immediata. Essa è oggetto di fede nell’amore del Padre per tutti i suoi figli, nel suo disegno salvifico, nel suo desiderio di essere “tutto in tutti”. Essa rinvia al disegno escatologico del Padre di riunire alla tavola del regno tutti gli uomini nella diversità delle appartenenze, delle lingue e delle culture. Il disegno escatologico del Padre è un disegno di unità che sollecita la fede del credente.

Ora, è proprio questo disegno di unità che fonda il dialogo interreligioso.

Il dialogo interreligioso trae il suo fondamento teologicamente sia nell’origine comune di tutti gli esseri umani creati all’immagine di Dio, sia nel destino comune che è la pienezza della vita in Dio, sia nell’unica presenza attiva dello Spirito divino tra gli adepti di altre tradizioni religiose[15].

Quest’unità si può comprendere in diversi modi: unità dell’umanità nella sua origine e nel suo termine, unità della salvezza, unità come opera dello Spirito[16].

Dal punto di vista della rivelazione cristiana, il disegno del Padre è l’unità di tutta l’umanità. Esso fonda il dialogo tra le religioni e lo inscrive nell’orizzonte escatologico della sua realizzazione. Questo disegno è escatologico, ma l’escatologia non si riduce a una teologia dei “fini ultimi” come lo si è fatto troppo spesso in teologia, perché Dio non è il Dio che è, che era e che sarà ma il “Dio che è, che era e che viene”. L’escatologia è pensata come “a-venire” di Dio poiché la sua venuta prende forma qui e ora, fosse anche in modo nascosto. La teologia dell’incontro delle religioni si fonda su questo disegno escatologico del Padre. Non c’è teologia dell’incontro delle religioni che non sia, in fondo, una teologia della speranza.

La comunità monastica sotto il segno dell’escatologia

Anche la vocazione monastica è incomprensibile al di fuori di questa prospettiva escatologica. La comunità monastica è, nella sua natura più profonda, una comunità della speranza. E non solo perché essa vive dell’escatologia presente. L’insieme della vita cristiana si trova sotto il segno dell’escatologia, ma la vita monastica ha per missione di mostrarlo con radicalità.

Se il monaco crede di avere una parola da dire qui, lo fa meno come costruttore efficace della città degli uomini (benchè…) che come adepto risoluto di un modo di essere al mondo che non avrebbe alcun senso al di fuori di quanto chiamiamo i fini ultimi – l’escatologia – della speranza[17].

Si noterà che Christian de Chergé non parla unicamente dei “fini ultimi” ma dei “fini ultimi della speranza”, cioè dei fini ultimi in ciò in cui essi sono presenti in modo nascosto. Sono i fini ultimi della speranza che determinano un modo di essere al mondo. Tutti percepiscono questo segno, che si creda al cielo o che non si creda. Una vita monastica non ha alcun senso al di fuori della speranza che la fonda.

La comunità monastica è segno del Regno, sacramento dell’escatologia di cui essa è anticipo e germe. Essa annuncia la Gerusalemme celeste. Essa rende manifesta la comunione dei santi. La comunità monastica non ha per vocazione solo di essere un segno di unità della chiesa visibile, essa indica la comunione dei santi che trascende le frontiere e le appartenenze religiose. La comunità consacrata è, per vocazione, segno di comunione, della comunione della chiesa, della comunione di tutto il popolo di Dio votato, in Cristo, a manifestare come un mistero in divenire, quello della comunione dei santi nel quale essa si cancellerà, come un ruscello si perde nell’oceano. La comunione dei santi è il popolo dei salvati e non solo la chiesa radunata.

Da questo mistero dell’unità deriva il fatto che tutti gli uomini e le donne che sono salvati partecipano, sia pure in maniera differente tra loro, allo stesso mistero di salvezza in Gesù Cristo per mezzo del suo Spirito. I cristiani conoscono già questa realtà grazie alla loro fede, mentre gli altri rimangono inconsapevoli del fatto che Gesù Cristo sia la fonte della loro salvezza. Il mistero della salvezza li raggiunge, in una maniera nota a Dio, tramite l’azione invisibile dello Spirito del Cristo. Dal punto di vista concreto, sarà nella pratica sincera di ciò che è buono nelle proprie tradizioni religiose e seguendo la voce della propria coscienza che i membri delle altre religioni risponderanno positivamente alla chiamata di Dio e riceveranno la salvezza in Gesù Cristo, anche se essi non lo ritengono o non lo riconoscono come il loro salvatore (cf. Ad gentes 3.9.11)[18].

C’è quindi una connessione tra una teologia dell’incontro delle religioni che ha il suo centro di gravità nell’unità del disegno del Padre e la sua realizzazione escatologica, e una comunità monastica che non avrebbe alcun senso al di fuori dei fini ultimi della speranza. Questa è la ragione per la quale il dialogo interreligioso, che può assumere forme diverse, è un’opportunità offerta a una comunità monastica in quanto essa apre agli altri credenti e, tramite loro, al disegno misterioso del Padre. L’apertura alle altre tradizioni religiose le fa vivere e le ricorda incessantemente la sua vocazione monastica nell’orizzonte escatologico della comunione dei santi. Poiché con la chiesa nel suo insieme la comunità monastica crede nell’unicità della mediazione salvifica del Cristo, essa si spoglia dell’illusione di credersi in possesso del Cristo e scopre che il Cristo è sempre più grande “poiché la chiesa è – per così dire - ancora in una condizione di infanzia, il Cristo in cui crede è smisuratamente più grande di quanto essa si immagini”. Al tempo stesso la comunità monastica lo rende evidente. Essa dimostra l’unità del genere umano nel cuore di Dio e nella salvezza in Gesù Cristo che supera largamente quanto si possa concepire. Essa sacramentalizza questo mistero di unità.

Evidentemente ciò appare più nettamente quando segni della pluralità religiosa interferiscono con la vita della comunità. Ciò avvenne per Tibhirine, che abitava la casa dell’islam, ascoltava regolarmente il richiamo alla preghiera del muezzin, incontrava regolarmente la confraternita sufi degli alawiti, viveva nel quotidiano con dei vicini musulmani. Ma questo può essere anche vissuto nei monasteri in molti altri modi, in forme più o meno radicali ma altrettanto significative.

Il mistero dell’unità

La comunità monastica vive questo mistero di unità al suo interno. Quanto dice frère Christian del destino comune dei padri bianchi di Tizi-Ouzou[19] vale anche per una comunità monastica:

Coloro che Dio aveva unito in una stessa consacrazione di vita non sono stati separati dalla morte. Il segno che ci lasciano resta espressivo del senso ultimo di ogni comunità religiosa che è di anticipare la comunione dei santi, e lo è ancor di più perché siamo sensibili alla diversità delle origini, dei temperamenti e anche delle età dei nostri quattro fratelli[20].

Eppure questo mistero di unità si perde immediatamente non appena si propone l'unità a scapito della differenza. Ciò che fa la sacramentalità della comunità non è la sua unità nella differenza. Più la differenza è accettata, più è grande, amata, più questa comunità è segno di unità. Ora, il dialogo interreligioso obbliga appunto a prendere in considerazione, in modo radicale, il fatto della differenza. La differenza religiosa ha qualcosa di tanto radicale e fondante quanto la differenza uomo/donna.

E se la differenza prendesse il suo senso nella rivelazione che Dio fa di ciò che egli è? Niente potrà impedire, allora, di riceverla come la stessa fede, cioè come un dono di Dio[21].

In questa prospettiva

si darebbe allora alle differenze tra cristiani e musulmani una funzione quasi sacramentale situandoli alle dipendenze di una realtà più vasta e più segreta, questa unione di cui ognuno porta in sé la nostalgia…[22].

La differenza è pensata come sacramento dell’unità, un’unità più vasta di quella che possiamo oggi concepire. Se la differenza è un “quasi sacramento”, essa si offre anche ai credenti come una via per “non rinchiudersi nella sua differenza”. Essa ci obbliga ad abbandonare “il paesaggio famigliare delle nostre certezze e il linguaggio in cui noi le esprimevamo”[23] per “convergere insieme verso la stessa dimora”. Questa differenza non esprime né realtà diverse né un Dio diverso. Essa è la differenza attraverso la quale si esprime l’Unico. “Vedere le cose differenti non significa che non si vedano le stesse cose”. E questo non vale solo per la percezione del mistero da parte degli uni e degli altri ma vale anche per la rivelazione che Dio dà di sé stesso.

Quando Dio si dice altrimenti, non si dice altro ma totalmente Altro, vale a dire altrimenti da tutti gli altri[24].

Così il mistero dell’unicità divina si manifesta attraverso la differenza. Essa strappa gli uni e gli altri alla

tentazione costante di ridurre la comunità che l’Eterno riunisce a quelle che i nostri templi fatti da mano d’uomo giungono a raggruppare in qualche modo ebrei, cristiani o musulmani. Dovremo sempre entrare in un disegno più vasto che incessantemente fa saltare le povere frontiere dei nostri esclusivismi affrettati e delle nostre intransigenze, perché davvero “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” [1Tm 2,4][25].

Attraverso la differenza si manifesta l’unità, ma essa si manifesta come un’unità differita e differenziata al medesimo tempo. Differita perché essa non è completamente manifesta, differenziata perché questa unità unica è espressa diversamente dagli uni e dagli altri. La fede in questa unità nella differenza tra credenti è ciò che fonda la speranza.

Nella realtà attuale della comunione degli “eletti”, noi pensiamo – gli uni e gli altri - di poter raggiungere con lo stesso cuore questi fratelli e queste sorelle un tempo “musulmani” o “cristiani” che condividono di fatto la stessa gioia di Dio dopo aver vissuto, fin nella loro morte, un’autentica fedeltà a delle norme di fede differenti[26].

Il dialogo interreligioso raggiunge la vita monastica in uno dei suoi fondamenti, quello di essere una comunità escatologica tesa tutta intera verso l’avvento del Regno, verso la comunione dei santi che essa è chiamata a mostrare sacramentalmente, vale a dire mostrando l’aldilà del presente e vivendo già ora di questo mistero. Essa lo vive essendo essa stessa una comunità riunita nel Cristo e riunita da Dio in una profusione di differenze, perché la gioia segreta dello Spirito “sarà sempre quella di stabilire la comunione e di ristabilire le somiglianze, giocando sulle differenze”[27]. Il dialogo interreligioso, esercitato attivamente in seno a una comunità, la strappa al suo esclusivismo e le ricorda con forza il suo orizzonte escatologico.

Il contributo della vita monastica

Qual è il contributo della vita monastica al dialogo interreligioso? La vita monastica può apportare al dialogo interreligioso precisamente ciò che essa ne riceve. Succede spesso così nella missione: si può dare all’altro ciò che da lui si riceve!

La vita monastica fa della dimensione spirituale la dimensione essenziale del dialogo. Il dialogo non si costruisce primariamente nei convegni, né in ambito sociale, e neppure nella costruzione della pace, in quanto il rischio oggi è grande di strumentalizzare il dialogo interreligioso al servizio di finalità politiche. Troppo spesso si presenta il dialogo tra le religioni come se fosse il mezzo di costruire la pace. Il fine del dialogo tra le religioni non è la pace. La pace non è un fine, essa è un frutto. Non è una conquista ma un dono che ci è fatto e che non può essere accolto che nella fede e nella speranza. Ciò di cui si ha bisogno oggi è una vera teologia dell’incontro delle religioni, di cui il centro di gravità si trova in un’autentica spiritualità dell’incontro.

Non mancheremo di far notare i rischi della teologia dell’incontro delle religioni, in particolare quello del relativismo. Alcune correnti qualificate di teologie pluraliste o soteriologiche sono accusate di relativizzare la rivelazione cristiana. Il rischio esiste e occorrerebbe interrogarsi sulle ragioni che fan sì che certe teologie delle religioni scivolino verso questo relativismo. Ma c’è un altro rischio, quello di accontentarsi di enunciare le affermazioni della rivelazione cristiana senza trarne le conseguenze. Affermare che il Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini è una affermazione irrinunciabile della fede cristiana. Questo enunciato della fede interroga e impegna, nel momento in cui lo si enuncia, a riconoscere e ad accogliere il volto del Cristo presente nelle altre tradizioni religiose.

Infatti solo una teologia dell’incontro delle religioni che sia teologia della speranza è in grado di proteggere la teologia delle religioni da un doppio rischio, quello del relativismo, spesso denunciato dal magistero e quello, non meno frequente, della chiusura sugli enunciati di fede. La teologia dell’incontro delle religioni, per non soccombere né alle derive del relativismo né a quelle del dogmatismo, ha bisogno di questo radicamento nella speranza. L’escatologia è al tempo stesso il punto di gravità della vita monastica e di una teologia dell’incontro delle religioni. Ogni monaco diventa quindi il segno di questa speranza e un attore privilegiato del dialogo interreligioso, anche se non incontra credenti di altre religioni, così come Teresa di Lisieux non ha svolto alcuna attività missionaria.

[Originale francese: “Vie monastique et dialogue interreligieux sous le signe de l’eschatologie. À partir de l’expérience des frères de Tibhirine”, in Collectanea Cisterciensia 68/2 (2006), pp. 105-116. Traduzione di Luisa Andreis]


[1] Il monastero non aveva allora che quattro monaci. Nel 1964 le abbazie di Timadeuc e di Aiguebelle mandarono ognuna quattro monaci.

[2] All’indomani dell’indipendenza la comunità aveva intrapreso azioni tipo una scuola elementare, ma vi rinunciarono presto.

[3] “Questionario in preparazione al sinodo 1994 sulla vita consacrata”, in Frère Ch. de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell’odio, Qiqajon, Magnano 2010, p. 96.

[4] Il cardinale Duval morì il 30 maggio 1996, alcuni giorni dopo l’assassinio dei fratelli. Il suo feretro fu posto insieme a quello dei fratelli durante la cerimonia funebre a Notre Dame d’Afrique, domenica 2 giugno.

[5] Cf. Frère Ch. de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell’odio, p. 109.

[6] Staouëli, monastero trappista fondato nel 1843. Nel 1937, dopo molte peripezie, il monastero si insediò a Tibhirine.

[7] Pierre Claverie, vescovo di Orano, assassinato con il suo autista il 1° agosto 1996.

[8] P. Claverie, Lettere dall’Algeria, Paoline, Milano 1998, pp. 23-24.

[9] Ch. de Chergé, “L’échelle mystique du dialogue. Journées romaines de 1989”, in Islamochristiana 23 (1997), p. 6.

[10] B. Olivera, cit. in Frère Ch. de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell’odio, p. 100.

[11] Concilio Vaticano II, Nostra aetate 2.

[12] Ch. de Chergé, “L’échelle mystique du dialogue”, p. 11.

[13] Cf. Id., “Dialogo intermonastico e islam (1995)”, in L’invincibile speranza, a cura di B. Chenu, Glossa, Milano 2018, pp. 157-163.

[14] Ch. de Chergé, “Testamento”, in L’invincibile speranza, p. 172.

[15] Commissione teologica internazionale, Il cristianesimo e le religioni, in Il regno – attualità 3 (1997), pp. 75-89.

[16] È possibile riferirsi anche al testo di Dialogo e annuncio 28: “Al primo punto è situato il fatto che l’intera umanità forma una sola famiglia, poiché tutti gli uomini e le donne hanno un’origine comune, essendo stati creati a immagine di Dio. Parallelamente, tutti sono chiamati allo stesso destino comune, vale a dire la pienezza della vita in Dio. Inoltre, vi è un solo piano di salvezza per l’umanità, con il suo centro in Gesù Cristo, il quale nella sua incarnazione ‘si è unito in un certo qual modo ad ogni persona’ (Redemptor hominis 13; cf. Gaudium et spes 22,2). Infine, è necessario menzionare l’attiva presenza dello Spirito santo nella vita religiosa dei membri delle altre tradizioni religiose. Da tutti questi elementi il papa arriva a definire il ‘mistero dell’unità’, che è stato manifestato chiaramente ad Assisi, ‘nonostante le differenze tra le confessioni religiose’”.

[17] Ch. de Chergé, “L’échelle mystique du dialogue”, p. 3.

[18] Pontificio consiglio per dialogo interreligioso – Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Dialogo e annuncio 29.

[19] I quattro padri bianchi di Tizi-Ouzou furono assassinati il 27 dicembre 1994.

[20] Ch. de Chergé, Dieu pour tout jour. Chapitres de père Christian de Chergé à la communauté de Tibhirine (1986-1996), Abbaye N.D. d’Aiguebelle, Montjoyer [2004], p. 429 (capitolo del 18 febbraio 1995).

[21] L’invincibile speranza, p. 81.

[22] Ibid., p. 82.

[23] Ibid., p. 85.

[24] Ibid., p. 93.

[25] Ibid., p. 109.

[26] Ibid., p. 122.

[27] Ibid., p. 173.

 

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