"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Esperienza di Dio e dialogo interreligioso

 

di Paolo Trianni

(Pontificia università gregoriana - Pontificio ateneo Sant'Anselmo)




[Relazione tenuta al Convegno "Elaborare l'esperienza di Dio"
(Parma, 20-21 marzo 2009) e poi pubblicata in: D. Bertini, G. Salmeri, P. Trianni, Teologia dell'esperienza, Nuova Cultura, Roma 2010, pp. 39-62]

 
 
 
Una delle tendenze più rilevanti con cui si è aperto il Novecento teologico è stata l'esigenza di ripensare la religione e la fede come esperienza. Tale indirizzo riflette indubbiamente una sensibilità tipicamente moderna, conseguenza diretta della svolta copernicana inaugurata in filosofia dalla centralità del soggetto, che ha portato a considerare l'esperienza come una nuova fonte ed un nuovo metodo di conoscenza anche in teologia. Da questo punto di vista, sebbene il tema dell'esperienza affondi le sue radici nell'empeiria aristotelica e nell'experientia della scolastica, era inevitabile che tale esigenza si manifestasse primariamente nel mondo luterano, dove la riduzione dello spazio simbolico conseguente alla riforma ha messo in risalto la necessità di fondare la fede e la conoscenza religiosa su basi diverse da quelle tradizionali, nella fattispecie, appunto, quella dell'esperienza immediata. Non è un caso, quindi, che una figura come Friedrich Schleiermacher, la cui intuizione di fondo verteva sull'immediatezza e autonomia del sentimento dell'infinito, quasi fosse possibile una sorta di religiosità naturale, sia emersa proprio in ambiente tedesco [1]. Egli, potremmo dire, è stato il primo filosofo che ha operato il recupero dell'esperienza come categoria centrale per leggere il fenomeno religioso. L'esperienza, anche e soprattutto in conseguenza dei suoi studi, è diventata così non solo un tema teologico, ma anche una vera e propria sfida per la teologia. In Schleiermacher, e sulla sua scia anche in Dilthey ed Otto, infatti, il vissuto religioso è letto in termini di esclusiva immediatezza, svalutando così la mediazione tipica della riflessione teologica [2]. Persino nella filosofia della religione di Karl Rahner, sebbene la sua svolta antropologica muova da tale problema e si faccia carico di queste provocazioni, l'esperienza trascendentale finisce con il perdere, almeno secondo alcuni suoi critici, il riferimento alla storia e la mediazione positivo-cultuale tipica del pensiero teologico [3].
L'esperienza, così, da un lato è diventata una risorsa per la teologia, ma dall'altro anche una categoria che gli si contrappone. Del resto ciò era per certi aspetti inevitabile, dal momento che anche la metafisica è letta come una dimensione del conoscere diametralmente opposta a quella dell'esperienza [4]. Non sorprende, quindi, che l'inserimento della categoria dell'esperienza nel vivo del dibattito teologico abbia sollevato discussioni e polemiche tra coloro che ne caldeggiavano l'importanza e coloro che la osteggiavano. Tra questi ultimi, per esempio, sarebbe sufficiente ricordare K. Barth o W. Herrmann [5]. Un'opposizione teologica, del resto, era scontata nella misura in cui la dimensione empirica della fede è divenuta una nuova fonte ed un nuovo metodo di conoscenza principalmente attraverso l'interpretazione sbilanciata verso l'immediatezza data da Schleiermacher. Sulla sua scia, autori come Dilthey, Otto, Van der Leeuw, Troeltsch, hanno poi ripreso tale tematica sviluppandola sia su un piano fenomenologico che storicistico, ed aprendola - questo il maggiore elemento di novità - alle religioni non cristiane. La discussione harnackiana degli inizi del Novecento sull'essenza del cristianesimo si è così tramutata in un approfondimento sull'essenza della religione e più ancora sull'essenza dell'esperienza religiosa nelle religioni.
La questione del confronto e del dialogo tra le fedi religiose si può dunque considerare uno sviluppo interno alla teologia e alla filosofia della religione cristiana, e, da questo punto di vista, un fenomeno indipendente dalle necessità storiche che hanno poi fatto del dialogo interreligioso una delle urgenze primarie della nostra epoca.
Radicata in questa base fenomenologico-filosofica, la questione del dialogo tra le fedi religiose, e l'interconnessa ricerca sulla normatività del cristianesimo, si è così trascinata fino al concilio Vaticano II, dove la riflessione teologica dei padri conciliari ha ritenuto di aver trovato un punto di equilibrio nella cosiddetta teologia del compimento. Questa prospettiva, ampiamente preparata dall'antropologia trascendentale di Rahner, non ha però tardato a rivelare i suoi limiti, specialmente in coloro che vedevano in tale soluzione un mal celato cristocentrismo.
L'insuccesso di questa prospettiva riflette ampiamente, più in generale, il fallimento della teologia cristiana delle religioni, ed il tramonto del sogno cullato da vari autori di costruire, attraverso il rapporto ed il contributo delle religioni non cristiane, un nuova sistematica [6]. Anche il dialogo interreligioso, specialmente in questa chiave di intenzionale ripensamento e riadattamento della teologia dogmatica, è stato progressivamente riconsiderato mettendone in risalto soprattutto le difficoltà [6], fino alle recenti dichiarazione di papa Ratzinger a Marcello Pera nelle quali un dialogo interreligioso, come tale, veniva dichiarato non possibile [8].
È esattamente questa conclusione, a nostro avviso, l'argomento che permette alla categoria dell'esperienza di entrare nel vivo del dibattito sul dialogo interreligioso. Essa, infatti, per la sua natura specifica, può dare nuovo vigore alle relazioni tra le religioni. Nella presente relazione vorremmo appunto dimostrare che la dimensione esperienziale del credere, ed in particolare l'esperienza religiosa di tipo contemplativo, può rilanciare quel dialogo interreligioso che oggi, dal punto di vista dell'intesa dogmatica o della sintesi puramente concettuale, vive, come si è detto, una profonda crisi. In vari autori, infatti, è sorta in modo spontanea l'esigenza di ripensare il dialogo proprio muovendo dall'angolatura prospettica del vissuto interiore, dal momento che esso permette una lettura del fenomeno religioso ulteriore e diversa rispetto a quella esclusivamente dogmatico-concettuale. Di fatto, anche il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in vari documenti, dimostra di aver preso atto di quanto la categoria dell'esperienza non solo non possa essa essere ignorata, ma debba essere utilizzata come strumento indispensabile per dialogare in modo proficuo con le religioni non cristiane [9].
Raccogliendo questa consapevolezza, Ambrogio Bongiovanni, in un suo acuto saggio sul tema della formazione al dialogo, dedica un paragrafo proprio alla dimensione interreligiosa dell'esperienza religiosa. Egli, rifacendosi anche a Panikkar, sottolinea come siano tre i modelli esperienziali che possiamo ricavare dalle varie religioni: dualista, monista e non-dualista [10]. È proprio a partire dall'esperienza, infatti, che diviene possibile, secondo Panikkar, pensare e distinguere le varie religioni e quindi le diverse posizioni che entrano in gioco nel dialogo. Il teologo ispano-indiano, approfondendo la questione, sottolineava la complessità e la stratificazione strutturale dell'esperienza religiosa, precisando appunto come essa sia una combinazione di elementi al quanto diversi. Particolarmente significativo, a nostro avviso, è come egli collochi a base del vissuto religioso l'esperienza pura, come suo primo elemento e mattone fondamentale, salvo poi aggiungere ad esso elementi ulteriori come la memoria, l'interpretazione, la ricezione. Panikkar individua così una sorta di sintesi tra quell'apriorismo immediato che svaluta troppo la storia e quella concezione dell'esperienza religiosa che la vuole esclusivamente e rigorosamente legata alla rivelazione [11].
È importante ribadire, in ogni caso, come Panikkar abbia collocato a fondamento dell'esperienza interreligiosa l'esperienza pura, riconoscendo così alla dimensione contemplativa un primato logico ed ontologico. Già lo stesso Pontificio consiglio, del resto, come vedremo meglio, quando ha fatto riferimento al dialogo dell'esperienza religiosa si è in fondo richiamato ad essa, dal momento che è del tutto evidente che le religioni dell'Oriente siano prevalentemente monastico-contemplative e tali siano anche le numerose comunità sufi dell'islam.
Questo tipo di esperienza religiosa, però, specialmente in una chiave di dialogo fra fedi religiose culturalmente molto diverse tra loro, non ha avuto, fino ad oggi, un approfondimento specifico. In un suo pregevole volume dedicato allo zen, scriveva Thomas Merton a questo riguardo: "Uno dei più importanti aspetti del dialogo fra le religioni è stato anche uno dei meno dibattuti: è lo speciale contributo che la vita contemplativa può portare al dialogo" [12]. Il monaco trappista statunitense, al quale va riconosciuto il merito di essere stato un pioniere in questo campo, scriveva:
 
Il vero ecumenismo esige infatti la comunicazione e la partecipazione, non soltanto dell'informazione sulle dottrine totalmente e irrevocabilmente divergenti, ma anche sulle intuizioni e verità religiose che possono rivelare qualcosa di comune sotto le differenze emergenti [13].
 
Dalle considerazioni di Merton possiamo appunto ricavare che il dialogo dell'esperienza religiosa, inteso come dialogo dell'esperienza contemplativa, può incarnare una sorta di terza via tra coloro che lo ritengono preliminarmente impossibile e coloro che predicano un'altresì improbabile sintesi teorico-concettuale tra i patrimoni dogmatico-scritturistici delle religioni. Questo tipo di dialogo, infatti, diviene possibile proprio perché si pone come obiettivo il semplice incontro, l'ospitalità, la condivisione, prescindendo, almeno in un primo momento, dall'analisi intellettuale delle diversità concettuali e culturali. Ovviamente, però, anche una tale forma di dialogo presenta delle particolarità e delle difficoltà di fondo, perché, non essendo immediatamente dialettico-razionale, non può dirsi in senso proprio dialogo. La contemplazione, cioè, nel suo fondamento nella theoria greca o nel dhyâna indù, trascende il piano razionale, e solleva quindi il problema di come poter comunicare il non-tematizzato, l'in-determinato, il non esprimibile categoricamente. È proprio questo il motivo per cui alcuni autori hanno sottolineato quanto sia importante e parte integrante del dialogo stesso anche la dimensione non-verbale [14].
È opportuno, a questo punto, approfondire meglio la natura stessa della contemplazione, e la sua trasversalità nelle varie fedi religiose, ricordando appunto come l'orizzonte specifico a cui essa appartiene, quello della mistica speculativa, è presente in tutte le religioni. Il verbo contemplare, nella sua accezione latina, significa "guardare a lungo con stupore e ammirazione" [15]. Esso traduce la theoria greca, che ha avuto in Plotino il suo massimo "teorizzatore", sebbene, in fondo, essa nasca già, secondo quanto si legge nel Teeteto platonico, con il primo filosofo, Talete [16].
È Plotino, tuttavia, come si accennava, il filosofo che ha dato alla theoria la massima importanza, considerandola un passaggio essenziale del reditus all'Uno e riconoscendo così ad essa valore ontogonico [17]. La contemplazione, nella sua rilettura, coincide appunto con una intuizione meta-razionale, in una facoltà superiore del nous, come descrive appunto nell'ottavo trattato della terza Enneade [18]. Tralasciando il fatto che secondo taluni studiosi questa intuizione plotiniana risalerebbe al pensiero indiano [19], la theoria e stata fatta propria dal neoplatonismo cristiano [20] ed ha influenzato direttamente anche il sufismo [21]. Nella filosofia medioevale è stata poi letta attraverso la tensione tra intellettualismo e volontarismo [22], mentre nel pensiero moderno la si può ritrovare, rielaborata in termini nuovi, nella tensione tra i due grandi interpreti eretici di Husserl, Heidegger e Lévinas [23].
Alla luce di questo breve approfondimento sulla contemplazione e sulla sua trasversalità filosofica e religiosa, si capisce come la possibilità di un'intesa e di un dialogo tra religioni tanto diverse come il cristianesimo, il buddhismo, l'induismo e l'islam, diventa plausibile quando l'oggetto specifico dell'incontro non è primariamente il dogma, ma la comune dimensione contemplativa, o quando, in generale, si dia maggiore attenzione alla prassi rispetto al concetto.
Il dialogo tra le fedi, ricentrato secondo questa prospettiva, diventa così in primo luogo scambio, ospitalità, condivisione, riconoscimento del "medesimo" e valorizzazione dell'"altro". Era naturale, sotto questo aspetto, che il mondo monastico, essendo spontaneamente contemplativo, si sentisse interpellato in prima persona nel portare avanti una tale forma di dialogo interreligioso. Il monachesimo cristiano, cioè, non ha avuto difficoltà a riconoscersi nel monachesimo vissuto nelle altre religioni e ad immedesimarsi nella loro tensione ascetica e spirituale. Sono queste, appunto, le motivazioni che hanno condotto alla nascita di un'istituzione cattolica che vive il dialogo interreligioso secondo l'angolatura prospettica dell'esperienza contemplativa: il DIM/MID [24]. Sebbene, infatti, la struttura liturgica della vita monastica cristiana sia alquanto lontana dal mondo spirituale vedantico o da quello del buddhismo antico, tutti i monachesimi, indistintamente, mettono al primo posto l'attenzione contemplativa [25].
È ovvio, comunque, considerando il suo carattere specifico, che il dialogo dell'esperienza contemplativa finisca con il richiamarsi direttamente alla mistica, la quale, come scriveva Van der Leeuw, "è internazionale ed interconfessionale; non conosce frontiere" [26]. Essa, a suo avviso, "parla il linguaggio di tutte le religioni, ma nessuna religione è essenziale per lei" [27]. Sebbene, infatti, sia un atteggiamento superficiale affermare l'identità assoluta di tutte le mistiche, si può certamente condividere con il fenomenologo belga che "la mistica è una direzione determinata, che può esistere ed è in realtà esistita, entro tutte le religioni" [28]. Il richiamo alla mistica, tuttavia, solleva inevitabilmente il suo problema tradizionale: che è quello della tensione tra mediazione ed immediatezza, e della sua successiva traducibilità verbale [29]. Ci si interroga, cioè, se sia possibile fare una tale esperienza di Dio senza il contributo di una mediazione storica e cultuale, e quale sia in tale esperienza il luogo della razionalità. È questo un punto nodale, sebbene risulti evidente che vi siano innegabili "affinità elettive" tra filosofia e mistica, e che sia necessario conservare un atteggiamento fondamentalmente dialettico tra mediazione ed immediatezza [30]. In ogni caso il dialogo tra mistiche risulta tanto più semplice quanto meno esse si manifestano religiose. Al di là degli aspetti paradossali, infatti, è del tutto ovvio che un'esperienza pura di Dio, cioè, preverbale o meta-verbale, agevoli l'incontro tra fedi religiose diverse, proprio perché la mistica speculativa trascende i confini dogmatici e culturali del dialogo interreligioso tradizionale. La mistica, in altri termini, può essere una via di uscita dalla gravidanza isterica di certi razionalismi teologico-religiosi, come per altro già si è verificato con Eckhart all'indomani della dissoluzione della scolastica operata da Ockham [31]. La mistica, in definitiva, risulta essere un modo nuovo di vivere la religione, che apre alla possibilità di vivere in modo diverso anche il dialogo interreligioso.
L'adozione di una tale prospettiva, tuttavia, necessita di una riflessione ulteriore, e alla luce delle problematicità intrinseche che la mistica speculativa solleva ‑ e più in generale di quelle che emergono dalla tradizione filosofico-spirituale della theoria, che da un lato esalta il dialogo e la possibilità d'incontro tra le religioni ma dall'altro svilisce la caratterizzazione cristiana di tale esperienza ‑, si rende necessario uno sforzo per fondare concettualmente il dialogo dell'esperienza religiosa contemplativa. Tale impegno, per esempio, è una necessità imprescindibile per le attività del DIM/MID, il cui tentativo di avvicinare la comune dimensione mistico-contemplativa dei vari monachesimi si è trovato a dover fronteggiare tutte le problematicità e le polemiche che inevitabilmente si trascina con sé una teologia aperta alla mistica e al pluralismo religioso.
A questo riguardo, per la sistemazione teorica di tale forma di dialogo interreligioso, riteniamo utile un approfondimento particolareggiato di quattro prospettive filosofico-teologiche: quella neoplatonica, quella antropologica, quella storicistica e quella fenomenologica.
Un primo ambito di studio, infatti, il cui approfondimento sarebbe utile per dare una base concettuale al dialogo dell'esperienza religiosa, è, come si diceva, il neoplatonismo. Platone, ancorché inventore della teologia [32], è il fondatore della mistica speculativa occidentale, come dimostra Repubblica VI, e questo tipo di esperienza religiosa lo riconosciamo trasversalmente presente in tutte le religioni, specialmente quelle dell'Oriente. Da questo punto di vista, basterebbe ricordare come il cristianesimo e l'islam siano arrivati a fare corpo unico con il neoplatonismo per capire quanto importante possa essere leggere il neoplatonismo in una chiave di dialogo interreligioso. Del resto non è certamente un caso che Nicola Cusano, grande rinnovatore del platonismo rinascimentale, proprio ripercorrendo uno spirito mistico che veniva dall'apofatismo neoplatonico, si sia dimostrato, nel De pace fidei (1454), un profetico anticipatore del dialogo interreligioso.
Un secondo ambito di studio da approfondire, è sicuramente l'antropologia di Karl Rahner. Il dialogo dell'esperienza religiosa, infatti, può certamente fondarsi sul concetto di esperienza trascendentale, così come l'autore stesso, per altro, ha tentato di fare [33]. Questa soluzione, come si diceva, è condizionata dai limiti della teologia del compimento, e tuttavia fornisce una base antropologica di fondo a partire dalla quale gli uomini di qualunque fede religiosa possono vedere legittimata la loro ricerca di Dio, dal momento che l'ansia del divino viene presentata come un trascendentale collocabile nell'essere ontologico più profondo di qualunque coscienza religiosa. Tale antropologia, inoltre, può facilmente coniugarsi con alcuni temi tipici della teologia naturale, che proclama la presenza immediata ed intima di Dio nell'uomo come una presenza immanente ed operativa [34]. Nella conoscenza naturale del divino, questione dibattuta anche nel concilio Vaticano I, vi sono in fondo le premesse del dialogo interreligioso, nella misura in cui viene sottolineata quella trascendentalità dell'uomo verso il divino su cui si fonda appunto l'antropologia di Rahner. Entrambe queste tematiche, quindi, non possono non esprimere una sorta di premessa legittimativa e corroborativa all'incontro dialogico tra le religioni.
Un terzo ambito di ricerca, dal cui orizzonte di fondo può emergere una riflessione utile a fondare il dialogo dell'esperienza religiosa, è lo storicismo. Questo indirizzo di studio, all'inizio del Novecento, ha trovato un protagonista in Adolf von Harnack, il quale, sostenendo che l'essenza del cristianesimo è altra rispetto alle forme storiche in cui esso si determina, ha introdotto un principio di relatività verso l'apparato dogmatico del cristianesimo [35]. Analizzata da un punto di vista funzionale al dialogo interreligioso, la prospettiva harnackiana sta a significare che il cristianesimo può incontrarsi con qualunque cultura, perché nessuna gli appartiene o gli è intrinseca. Ciò che è interessante rilevare, però, è come già nel compagno alla scuola di Gottinga, Ernst Troeltsch, l'indagine verso l'essenza del cristianesimo si sia rapidamente concentrata verso l'analisi dell'essenza delle religioni, attenzione, questa, che da un lato ha permesso di mettere in luce le similarità tra le fedi religiose, e dall'altro lo ha condotto alla ricerca di argomenti che potessero giustificare la normatività dello stesso cristianesimo [36]. Di assoluta importanza, in ogni caso, è il metodo da lui seguito per raggiungere questo obiettivo. Secondo Troelsch, infatti, bisognava procedere con il metodo storico e non quello dogmatico, perché "proprio del metodo dogmatico è appunto puntare sul petto la pistola dell'aut-aut" [37]. Altro aspetto importante da rilevare, inoltre, è la sua concezione del cristianesimo: per lui, infatti, distinguendosi dal compagno, erano essenziali al cristianesimo anche le culture con le quali esso si è incrociato nel suo sviluppo storico [38]. Da questo punto di vista Troeltsch è stato un profeta della "totalità" del cristianesimo quanto lo fu Loisy. Quest'ultimo, infatti, aveva una nozione evolutiva della fede cristiana, leggendola come una realtà vitale che necessariamente cresce e si sviluppa attraverso il contato con le diverse culture ed espressioni religiose [39]. L'abate francese, considerando quella dell'evoluzione religiosa una dinamica imprescindibile, canonizzava così la storia, avviandosi verso una risoluzione filosofico-religiosa in cui le formule dogmatiche sono ormai totalmente svalutate in rapporto ad un'esperienza mistica transconfessionale [40]. Un altro autore, che da un lato si può legare alla reazione ad Harnack e dall'altro alla riflessione filosofica sull'esperienza religiosa, è Dilthey. La sua elaborazione concettuale, infatti, raccoglie il pensiero di Schleiermacher sul vissuto religioso rileggendolo però alla luce dello storicismo. Egli, a partire dalla categoria dell'esperienza, ha cercato appunto, attraverso un metodo comparativo, l'essenza comune delle religioni [41]. Sebbene ciò possa apparire una semplificazione, si può quindi dire, in sintesi, che la ricerca storicistica ha inteso dimostrare la relatività delle diversità storiche tra le religioni ed ha altresì messo in risalto gli aspetti comuni del loro modo di vivere ed elaborare l'esperienza di Dio.
Un ulteriore contributo utile a migliorare la sistemazione teorica del dialogo dell'esperienza religiosa, può venire dalla fenomenologia. Husserl, con il suo metodo dell'epoché e della riduzione eidetica, metteva tra parentesi tutte le apparenze e le differenze per arrivare ad una certezza universale [42]. Una volta applicato ai fenomeni religiosi, esso permetteva appunto di ricercare l'essenza ed il fondo comune delle varie espressioni religiose. Tale metodo, infatti, ha ben presto interessato gli studiosi di religione, e non è un caso che la fenomenologia, proprio con Otto o Van der Leeuw, abbia ottenuto alcuni dei suoi risultati più interessanti. In entrambi questi autori, in particolare, c'è stato un attento studio della mistica quale fenomeno eidetico, e, almeno in Otto, la distinzione tra razionalismo e religione più profonda è un vero punto di partenza programmatico [43]. Nel suo specifico linguaggio teologico, Dio è appunto il sacro, il totalmente altro, il numinoso razionalmente inaccessibile. La sua ricerca fenomenologia, da questo punto di vista, si può leggere come un'ulteriore giustificazione dell'intuizione meta-razionale e dell'esperienza religiosa di tipo contemplativo. Del resto la contemplazione può oggettivamente essere letta come una riduzione eidetica, come una messa tra parentesi (epoché) delle forme religiose troppo mentali o condizionate dalla cultura e dalle aspettative umane. Sotto questo aspetto l'esperienza religiosa contemplativa va a descrivere una spiritualità adulta, nella quale il credente, come scriveva Eckhart nelle sue prediche, intuisce che il valore della fede riposa in primo luogo nel non volere [44].
Si può affermare, in conclusione, che la categoria dell'esperienza, nel corso del Novecento, ha guadagnato una posizione di rilievo non solo come strumento e fonte per la conoscenza teologica, ma anche come modo di vivere il dialogo interreligioso. Attraverso di essa, la questione dei rapporti e delle relazioni tra le varie fedi religiose può essere letta in modo diverso rispetto al dialogo interreligioso tradizionale impostato sui paradigmi della teologia delle religioni, evitando, pur senza risolvere completamente, i problemi ed i limiti pregiudiziali in cui esso si imbatte.
Il dialogo dell'esperienza religiosa contemplativa su cui ci siamo soffermati, infatti, trovando le sue radici remote nella mistica speculativa, da un lato è trasversalmente presente in tutte le religioni, e dall'altro, essendo meta-razionale, è anche meta-culturale. Se l'impronta culturale delle religioni, cioè, rappresenta un limite spesso insormontabile nell'incontro interreligioso ‑ ma ovviamente per altri aspetti anche una ricchezza ‑, la mistica speculativa suggerisce invece una relativizzazione, o meglio una purificazione preliminare della fenomenologia religiosa di superficie, in modo da accedere ad una dimensione più profonda ed autentica del credere. Al tempo stesso, però, la dimensione storica e culturale della religione non deve essere letta antiteticamente a quella mistica. Si è cercato di dimostrare, da questo punto di vista, che l'antropologia trascendentale, la mistica neoplatonica, lo storicismo, la fenomenologia, possono aiutare a conservare un fondamentale atteggiamento dialettico tra queste due dimensioni, e a fondare teoricamente un dialogo dell'esperienza interreligiosa, sulle cui questioni problematiche, comunque, la riflessione teologica è chiamata a ritornare incessantemente.
L'esperienza trascendentale di Rahner, in particolare, può rappresentare il modus cristiano di vivere il dialogo dell'esperienza religiosa. Essa, infatti, si fonda su un'antropologia che pone il fondamento cristiano nell'apriori, nel trascendentale, appunto, quale essenza ontologica dell'uomo. La riflessione del gesuita tedesco, in altri termini, è una dimostrazione di come la teologia, per rispondere alle sfide del pluralismo religioso e dell'idealismo monistico, abbia trovato una soluzione nel collocarsi a monte dell'esperienza stessa. Sulla scia di Teilhard de Chardin, infatti, che aveva inteso dimostrare l'essere "in Cristo" della creazione tutta, Rahner vede nel trascendentale cristologico la condizione della stessa possibilità dell'esperire religioso. In questo modo egli si è così idealmente riconnesso con una tradizionale interpretazione cristologica del vissuto mistico interiore che va dai padri greci alla generazione del Verbo eckhartiana. Tale chiave di lettura, inoltre, è presente anche in taluni teologi impegnati nella missione monastica in India, come Henri Le Saux, Jules Monchanin e Bede Griffiths, che, sia pure in termini leggermente diversi, hanno ugualmente letto la propria esperienza spirituale nei sentieri mistici dell'India attraverso questo preliminare orizzonte ontologico in virtù del quale fare esperienza del proprio Sé più profondo implicava necessariamente fare esperienza di Cristo, al di là di qualunque mediazione storica. La teologia dell'esperienza formulata da Rahner, quindi, merita forse l'accusa di essere atematica e di svilire troppo il Positivo e le mediazioni storico-cultuali, tuttavia chi propone questo tipo di interpretazione svilisce l'importanza che nel suo pensiero riveste il trascendentale cristologico, così come trascura il fatto che il suo obiettivo di fondo fu esattamente il reagire e il cercare di dare una risposta a quelle teorie dell'esperienza religiosa completamente immediate ed immanenti che erano state formulate da Schleiermacher in poi.
È importante ribadire, in ogni caso, che il fine del dialogo interreligioso, ivi compreso quello del dialogo dell'esperienza religiosa contemplativa, non ha come fine quello di fondare una religione universale o un sistema unico di pensiero. A questo riguardo, infatti, possiamo sottolineare, come, da un punto di vista teologico, il problema di fondo rimanga quello del modello di cristianesimo che si intende assumere. Se il Vangelo, cioè, sia indipendente ed altro rispetto alle culture storiche, ivi comprese quella giudaica e greco-latina, o se, all'opposto, proprio l'incontro con le varie religioni e culture sia funzionale e necessario alla manifestazione della sua verità più autentica. Tra le due posizioni, però, c'è anche quella di considerare normativa la caratterizzazione che il cristianesimo ha ricevuto attraverso la cultura greca e romana, ed è questa, ovviamente, la posizione che rende il confronto religioso più concettuale e maggiormente complesso.
La questione che pone il dialogo, con la sua apertura all'altro, al diverso, è appunto se tale incontro produce una "falsificazione" o non piuttosto un "accrescimento veritativo". Se i "rivestimenti" che la fede può ricevere dalla contaminazione con una cultura religiosa a lei inizialmente estranea, cioè, sia una distorsione o non sia altrettanto "essenziale" quanto l'essenza del messaggio rivelativo originario.
Il dialogo, in ogni caso, è una realtà distinta da quella della missione. Esso, pena la caduta del suo stesso valore morale, esclude sia un atteggiamento di superiorità sia un secondo fine, qual è per esempio il tentare di convincere l'altro. A differenza del missionario, colui che dialoga può non porsi il problema dell'unicità e della normatività della sua religione, ed assumere come imperativo programmatico il semplice incontro. Fondare il dialogo dell'esperienza religiosa sulla contemplazione, come si diceva, è importante proprio perché se metta in luce un "fondo" comune insegna anche che tutte le religioni hanno bisogno di un processo di purificazione e di "relativizzazione". Ciò, come abbiamo visto, lo insegna lo storicismo, lo insegna la mistica, e, sul piano filosofico, la fenomenologia. Volendo, inoltre, dare un approfondimento ulteriore a questa questione, sbaglia chi associa con troppa disinvoltura il dialogo interreligioso al relativismo, perché in verità è necessario distinguere nettamente la categoria della relatività dal relativismo. Il primo termine, infatti, dimostra semplicemente come ogni realtà umana e religiosa sia condizionata e non possa non esserlo, il relativismo, invece, coincide con quell'atteggiamento che assume tale pretesto per svalutare e defraudare di significatività. Al contrario, la coscienza della relatività dovrebbe piuttosto diventare la premessa stessa del dialogo, nel senso che attraverso di essa diviene possibile eliminare preliminarmente ogni pretesa fondamentalista ed assolutista, aiutando così a vivere in modo positivo e costruttivo il pluralismo religioso.


Paolo Trianni

 

NOTE

 
[1] Scrive Schleiermacher: "Essa [la religione] non brama di determinare e di spiegare l'Universo nella sua natura come fa la metafisica; non ambisce, come la morale, a svilupparlo e a perfezionarlo in forza della libertà e del divino arbitrio dell'uomo. La sua essenza non è né pensare né agire, ma intuizione e sentimento" (F. Schleiermacher, Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che disprezzano la religione, Queriniana, Brescia 1989, p. 73). L'esperienza religiosa, secondo l'autore, era causata dall'uomo in forza della sua stessa natura, e quindi era altro rispetto alle teologia di scuola.
[2] Rudolf Otto, in realtà, pur muovendo da Schleiermacher, ha finito per distinguersene significativamente. Egli, infatti, non ha accettato la presunta universalità ed immediatezza nella percezione del sacro da lui affermata, recuperando, al contempo, una sorta di apriori storico.
[3] Il pensiero di Karl Rahner si propose di fare da ponte tra la metafisica tomista e l'immanenza moderna. Egli, a tal fine recuperò da un lato il trascendentale kantiano, già assunto in teologia da Joseph Maréchal, e dall'altro la conversio ad phantasma di Tommaso. L'esperienza trascendentale da lui sviluppata nelle opere più mature e la sua concezione dell'uomo come "uditore della parola" nascono appunto da questo tentativo di sintesi già abbozzato in Geist in Welt. Egli, rispondendo anche alle provocazioni che venivano dalla filosofia della religione schleiermacheriana, ha quindi tentato di trovare un punto di equilibrio, una sintesi tra immediatezza e mediazione, tra immanenza e rivelazione. Le critiche principali mosse alla esperienza trascendentale rahneriana riguardano appunto la riuscita di tale sintesi, che, in base alle letture dei vari critici, sarebbe sbilanciata verso un termine o verso l'altro. Secondo Bertuletti, per esempio, il concetto di trascendentale riuscirebbe a fornire una categoria capace di spiegare all'uomo secolarizzato l'intrinseca apertura del suo essere verso Dio, ma perderebbe il carattere storico-fattuale della rivelazione cristiana (cf. A. Bertuletti, "Il concetto di esperienza", in G. Colombo (ed.), L'evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988, p. 158). È questa una posizione molto vicina a quella di R. Schaeffler che, in termini del tutto simili, accusa Rahner di svuotare la storia e ridurla ad aspetto accidentale. Fabbro, invece, all'opposto, accusa il gesuita tedesco di aver fatto un'opzione sbilanciata verso l'immanenza moderna (cf. C. Fabbro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, p. 34).
[4] In un articolo dedicato al rapporto tra esperienza e mistica, Abbagnano sottolinea la loro distinzione fondamentale, rimarcando come l'esperienza sia contrassegnata da un carattere di precarietà, indeterminazione ed incertezza, mentre la metafisica ha per oggetto l'essere nei suoi tratti immutabili e necessari, da cui, appunto, si deve dedurre che la metafisica è metaempirica (cf. N. Abbagnano, Esperienza e metafisica, UTET, Torino 2001, pp. 127-134).
[5] La teologia dialettica di K. Barth, in virtù dei suoi principi costitutivi, si è ovviamente opposta allo psicologismo dell'esperienza, mentre W. Hermann ha affrontato la questione sul piano prettamente etico, muovendo dalla contrapposizione tra natura e storia e dal fallimento della morale per affermare un tipo di esperienza religiosa (cristiana) attraverso la quale l'uomo diviene capace di sperimentare una condizione esistenziale nuova.
[6] Hans Kung, sulla scia di Paul Tillich, auspicava una nuova teologia sistematica nella quale la verità cristiana trovasse un'articolazione attraverso il costante confronto con le religioni non cristiane (cf. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, p. 577).
[7] Per l'autorevolezza e la chiarezza, è possibile citare un testo dedicato da Joseph Ratzinger alle problematiche del dialogo interreligioso, nel quale si sottolinea che è improprio parlare di ellenizzazione, perché di fatto i padri della Chiesa, nella fissazione dei dogmi fondamentali della fede a Nicea e Calcedonia, avrebbero tratto le loro categorie dalla Bibbia, sia pur rileggendole attraverso il pensiero greco, e proprio a motivo di ciò tale linguaggio è da considerare normativo (cf. J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 94-97). Il futuro papa scriveva appunto che "il relativismo è divenuto il problema centrale per la fede nella nostra epoca" (ibid., p. 121), e porta appunto l'esempio di J. Hick, che, dopo il contatto con le religioni dell'India, è passato dal cristocentrismo ad un geocentrismo in cui il Gesù storico non è più quel Logos assoluto dal quale la fede cristiana non si può allontanare (cf. ibid., p. 126).
[8] Cf. la Lettera introduttiva di Benedetto XVI in M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori, Milano 2008.
[9] Nel documento pubblicato nel 1984 a cura del Segretariato per i non cristiani dal titolo: L'atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione, si elencano quattro forme di dialogo: quello della vita, dell'azione, dello scambio teologico e dell'esperienza religiosa (cf. Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Dialogo interreligioso nell'insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica dal Concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II (1963-2005),a cura di F. Gioia, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1438-1454. Un secondo documento del dicastero nel quale si dà sviluppo ulteriore a queste prospettive è: Il dialogo e l'annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e sull'annuncio di Gesù Cristo (cf. ibid., pp. 1492-1537).
[10] A. Bongiovanni, Il dialogo interreligioso. Orientamenti per la formazione, EMI, Bologna 2008, p. 109.
[11] In questa riflessione di Panikkar vediamo sintetizziate in una prospettiva unica influenze diverse: da un lato la religiosità naturale di Schleiermacher, l'antropologia trascendentale di Rahner, l'apriorismo storico di Otto, la mistica vedântica indiana e quella renano-fiamminga (riletta anche attraverso Heidegger), e dall'altro la teologia dialettica. L'autore, quasi a voler raccogliere questa complessità, che già aveva distinto i diversi momenti dell'esperienza religiosa con una formula di sua invenzione: E=e.m.i.r., cioè esperienza pura, memoria, interpretazione, ricezione; in un suo recente testo ha aggiunto altri due elementi: l=linguaggio e a=attualizzazione, modificando la formula in E=e.l.m.i.r.a. (cf. R. Panikkar, L'esperienza della vita. La mistica, Jaca Book, Milano 2005).
[12] T. Merton, Mistici e maestri zen, Garzanti, Milano 1999, p. 175.
[13] Ibid., p. 176.
[14] A. Bongiovanni, richiamando anche una nutrita letteratura specialistica, si sofferma appunto sulla comunicazione non-verbale, puntualizzando come la comunicazione personale non possa ridursi alla partecipazione ad un mondo meramente eidetico (cf. A. Bongiovanni, Il dialogo interreligioso, p. 90).
[15] L'etimologia latina del termine si compone di due parole: cum e templum. Il primo dei due termini, cum, indica simultaneità, contemporaneità, comunanza; il secondo, templum, indica lo spazio celeste o il tempio consacrato ad una divinità. La parola sta appunto a significare la capacità di abitare questo spazio divino. L'etimologia greca, temnein, invece, sembra rinviare alla radice sanscrita tam che indica il senso dello distanza, distacco, un taglio.
[16] Cf. Platone, Teeteto, 173D-174B.
[17] Cf. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana. Plotino ed il neoplatonismo pagano, vol. VIII, Bompiani, Milano 2004, p. 196.
[18] Cf. Plotino, Enneadi III,8,1.
[19] Tra i molti studiosi di filosofia comparata che si sono occupati del tema segnaliamo: M. Piantelli, "L'India e Plotino", in Annuario Filosofico VI (1990), pp. 163-192.
[20] Tra i padri è Gregorio di Nissa colui che ha rielaborato la theoria neoplatonica in chiave cristiana, sia pure operando delle modifiche sostanziali. Se in Plotino, infatti, il fare e la prassi sono un indebolimento della contemplazione (theoria) in Gregorio di Nissa l'esito mistico (exitus) non è un abbandono definitivo della logica, né l'esito liturgico un abbandono definitivo della dogmatica (cf. M. Zupi, Incanto e incantesimo del dire, Pontificio Ateneo Sant'Anselmo, Roma 2007, p. 692).
[21] Cf. R. Nicholson, Sufismo e mistica islamica, Fratelli Melita Editori, Genova 1988. L'autore si distingue appunto per l'insistita chiave di lettura neoplatonica del sufismo.
[22] La contemplazione, nel periodo medioevale, indicava, in generale, una forma superiore di conoscenza caratterizzata dalla semplicità dell'atto. Di conseguenza era ritenuta realizzarsi in un atto di semplice intuizione della verità (simplex intuitus veritatis) o di riposo tranquillo sull'oggetto conosciuto: contuitus, fruitio, possessio veritatis. Ad essa ebbero un differente approccio l'intellettualismo, il quale, di derivazione tomista, leggeva la contemplazione come un'azione dell'intelletto che genera l'amore; ed il volontarismo, rappresentato da Bonaventura e Duns Scoto, che invece considerava la contemplazione come amore e frutto di amore.
[23] Lévinas e Heidegger sono due autori le cui riflessioni non riguardano le religioni, ma piuttosto la domanda da cui esse originano. Entrambi cercano la trascendenza ma la individuano in ambiti contrapposti: nel volto dell'ente il primo, nell'essere che è necessariamente al di là delle determinazioni il secondo. Da queste due prospettive emergono due mistiche contrapposte e, se vogliamo, due teorie delle religioni antitetiche. Lévinas sottolinea un primato dell'ente sull'essere, e quindi dell'etica, in virtù del quale si può dire che ogni uno è un tutto. Heidegger sottolinea invece un primato dell'essere sull'ente, e quindi dell'ontologia, in virtù del quale si può dire che tutto è uno. Il primo, cioè, cercava l'"altro" e la differenza, là dove il secondo, invece, cercava il "medesimo", lo "stesso". Come si accennava, quindi, a queste due prospettive possiamo veder corrispondere due modi opposti di concepire le religioni: pluralista e dialogico il primo, orientato verso un'unicità religiosa che è al di là della religione stessa, verso un "ultimo Dio", il secondo, come ebbe a scrivere in una delle sue considerazioni maggiormente influenzate da Eckhart.
[24] Questa istituzione cattolica era originariamente legata all'Alleanza inter-monastica, che era nata a Roma nel 1959 per aiutare la missione monastica. Da essa, nel 1993, in Austria, a Gottweig, è appunto nato come ente autonomo il Dialogo Interreligioso Monastico, sulla scia dell'esigenza di distinguere il dialogo dalla missione. Originariamente composte da due commissioni: quella europea (DIM) e quella americana (MID), oggi le due sottocommissioni fanno corpo unico e compongono il DIM/MID.
[25] La principale scuola filosofica indiana, il Vedânta, si denomina anche Uttara-mîmâsâ, ad indicare cioè un superamento della dualità del rito. Da questo punto di vista il distacco con la religione cristiana potrebbe sembrare irriducibile, tuttavia vi sono riflessioni teologiche che vedono nel rituale un carattere simbolico ludico, un'attività pura che si avvicina al valore che diamo alla parola contemplazione (cf. A. N. Terrin, "Esperienza di Dio e ritualità. Prospettiva antropologico-funzionalista e tesi fenomenologica", in Liturgia soglia dell'esperienza di Dio?, Messaggero, Padova 1982, pp. 130-131). Cf. anche Id., 2Mistiche del post-moderno: tra rifugio nel sé e la riscoperta dell'«olon»", in G. Bonaccorso (ed.), Mistica e ritualità: mondi inconciliabili?, Messaggero-Abbazia di S. Giustina, Padova 1999, pp. 84-142.
[26] G. Van Der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, p. 383.
[27] Ibid., p. 391.
[28] Ibid., p. 394.
[29] Per chiarire la tensione tra dicibile ed indicibile è utile riprendere una illuminante distinzione di Aldo Natale Terrin, originariamente diltheyiana, tra spiegazione e comprensione (cf. A. N. Terrin, Spiegare o comprendere la religione? Le scienze della religione a confronto, Messaggero-Abbazia di Santa Giustina, Padova 1983). Rielaborando questi termini, potremmo dire che le teologie, e con esse il dialogo interreligioso puramente concettuale, attengono alla "spiegazione", l'esperienza, invece, obbedisce al principio della "com-prensione".
[30] È questa la tesi di Salmann, il quale, dando ampio spazio ad Anselmo come autore che sta appunto sul crinale di una concezione speculativa del pensare, sostiene che tra filosofia e mistica vi è un'affinità elettiva nella misura in cui c'è un fondo comune tra esperienza e mistica, da cui "intrecci ed incroci che andrebbero riconosciuti e portati alla luce: dal (neo-) platonismo fino all'idealismo e a Heidegger e Wittgenstein, da Agostino fino a M. Eckhart, Cusano e Fénelon" (E. Salmann, "Presenza e critica. Sulle affinità elettive tra filosofia e mistica", in A. Molinaro ed E. Salmann (edd.), Filosofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1997, p. 35).
[31] Tra le molte chiavi di letture con cui è possibile avvicinare il pensiero di Eckhart, una può essere quella di leggere il ricorso alla mistica speculativa come una reazione al fallimento della scolastica e del suo progetto di giustificare razionalmente la fede. Essa, cioè, sarebbe un tentativo per fondare il credo religioso su una base esperienziale ed unitiva.
[32] Cf. Platone, Repubblica 379a.
[33] Rahner ha formulato la sua celebre dottrina del "cristianesimo anonimo" in una conferenza in Baviera nel 1961 dal titolo "Il cristianesimo e le religioni non cristiane". È nel Corso fondamentale sulla fede, tuttavia, che egli ha cercato di presentare in modo definitivo il suo tentativo la presenza trascendentale di Cristo nelle religioni non cristiane (cf. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 400-411).
[34] Cf. S. Biolo, La presenza di Dio, Editrice Pontificia Gregoriana, Roma 1995, p. 223.
[35] Scriveva Harnack: "L'evangelo non è entrato nel mondo come una religione statuaria e perciò non può possedere una sua forma di manifestazione classica e permanente in alcuna delle formazioni intellettuali e sociali in cui si espresse, nemmeno in quelle iniziali" (A. Harnack, L'essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 2003, p. 188).
[36] Troeltsch, che distingueva tra religioni della legge (ebraismo e islamismo) e religioni della redenzione (bramanesimo, buddhismo e cristianesimo), propose una propria terza via per dimostrare la normatività del cristianesimo. Se la via vecchia dell'apologetica ortodosso-soprannaturlistica sottolineava l'origine soprannaturale ed i miracoli e quella moderna sottolineavano la dimensione storico-evolutiva del cristianesimo, nel quale, secondo quanto avevano scritto Lessing, Kant, Herder ma anche Hegel e Schleiermacher, si realizza compiutamente l'essenza della religione, egli individua invece una strada teleologica. Troelstsch, infatti, fondandosi sul concetto di fine (ziel) affermava che la superiorità del cristianesimo consiste nella sua intrinseca struttura personalistica, avendo come fine, appunto, quello della partecipazione alla personalità di Dio: "Tutte le altre forme religiose, in quanto ignorano l'esito al personalismo, stanno dietro o di fianco a noi. Ciò basta per darci quel senso di assolutezza di cui abbiamo bisogno e che è il solo che a noi sia dato conseguire" (E. Troeltsch, L'assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, Morano, Napoli 1968, p. 146).
[37] Ibid., p. 21.
[38] Secondo Troeltsch nell'essenza del cristianesimo convergono, di necessità, l'ebraismo, la predicazione di Gesù, la mistica di Paolo, l'idealismo del platonismo e dello stoicismo, la cultura medioevale, l'individualismo germanico e finanche il protestantesimo (cf. ibid., p. 121).
[39] Scriveva Loisy paragonando lo sviluppo della fede cristiana a quello di un albero: "Perché si dovrebbe ritenere che l'essenza dell'albero sia contenuta in una particella del seme dal quale è sorto, e perché non si sarebbe anche effettivamente e più perfettamente realizzata nell'albero che nel suo seme?" (A. Loisy, Il vangelo e la chiesa, Ubaldini, Roma 1976, p. 76).
[40] Cf. "Editoriale" di P. C. Bori, in A. Harnack, L'essenza del cristianesimo, p. 45.
[41] Scriveva Dilthey: "L'esperienza resta sempre soggettiva: solo l'intelligenza delle creazioni religiose basata sull'esperienza retrospettiva rende possibile una conoscenza oggettiva della religione. È per questo che il procedimento metodico per la determinazione dell'essenza della religione deve attenersi alle sue creazioni. La religione invero esiste in forme svariate, ciascuna delle quali rappresenta un insieme concreto particolare. Ognuna di queste religioni ha una storia, e tutte queste creazioni storiche possono essere sottoposte al metodo comparativo, in modo da cogliere l'essenza della religione ad esse comune" (W. Dilthey, Ermeneutica e religione, a cura di G. Morra, Rusconi, Milano 1992, p. 142).
[42] Il procedimento dell'epoché e la riduzione eidetica sono appunto i due passi fondamentali del metodo di Husserl per arrivare al fenomeno che è al di là del fenomeno e che può essere colto soltanto ponendosi verso di esso come spettatori disinteressati. Si capisce come il rispetto di questo rigore metodologico imponesse di guardare alla religione e alle differenze religiose da una prospettiva ben diversa da quella teologica. Se tale metodo può essere per certi aspetti un limite, da un altro punto di vista è l'unico che possa comparare oggettivamente le diverse esperienze di Dio vissute nelle varie religioni.
[43] Cf. R. Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1976, p. 16.
[44] È questo uno dei contenuti fondamentali dei Discorsi del discernimento (Reden der Unterscheidung 1), dove appunto il non volere, conseguente alla più totale rinuncia di sé, è la prima condizione affinché Dio si manifesti nell'anima con la sua volontà (cf. M. Eckhart, La nascita eterna, a cura di G. Faggin, Neri Pozza, Vicenza 1996, p. 80).
  

 

 

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