Monachesimo, una risposta al cuore dell'uomo
di Cipriano Carini, osb
Il dialogo interreligioso, in modo particolare quello intermonastico, aiuta a mettere in evidenza l'essenziale delle religioni e quindi del monachesimo.
Quando alcuni decenni fa studiavamo la storia del monachesimo, cercavamo le sue radici nel Vecchio Testamento, nella cultura greca, accennavamo appena al monachesimo delle grandi religioni d'Oriente, che conoscevano sommariamente; oggi ne sappiamo qualche cosa di più. La conoscenza reciproca e anche alcune esperienze di condivisione di vita tra i diversi monachesimi, ci hanno portato a migliorare la ricerca sul fenomeno del monachesimo, a scrutare l'intimo dell'uomo per cercare di rispondere alla domanda: come mai anche in tempi così lontani, prima del cristianesimo, ed in paesi così diversi è nato e si è sviluppato il monachesimo?
Per la nascita e la storia del monachesimo cristiano storici e filosofi hanno proposto diverse interpretazioni:
fuga dei cristiani davanti alle persecuzioni per salvare la vita;
fuga di cristiani per vivere un cristianesimo radicale;
ricerca egoistica, individualista della propria salvezza [1];
sublimazione della libido nella lotta contro le tentazioni della libido [2];
incomprensione, odio del mondo, con tendenza esclusivamente escatologica, e quindi incomprensione anche dell'incarnazione del Figlio di Dio [3];
e altro [4].
Ma il confronto con gli altri monachesimi ci porta fuori dalle argomentazioni storiche della nascita del monachesimo cristiano e ci spinge a chiarire meglio la vocazione monastica nella sua essenzialità, nel suo profondo; si potrebbe dire che il monachesimo risulta essere una risposta alla ricerca dell'uomo, del cuore dell'uomo, intendendo con "cuore" non solo la sede degli affetti, ma la persona al completo, con la sua intelligenza, volontà, fantasia... Una risposta per dare un senso alla vita, un senso che non si fermi alle realizzazioni passeggere. È forse una aspirazione di ogni uomo? Ogni uomo è un poco monaco? È forse una ricerca interiore insopprimibile che nasce, cresce e vive in ogni creatura, in ogni cultura, in ogni religione? Il desiderio di uscire dalle logiche del mondo in ricerca di un essenziale, di un assoluto, di una pienezza di vita è proprio della natura umana? Si direbbe di sì e allora il monachesimo si presenta come prototipo della ricerca umana di raggiungere l'intimità con Dio, la pace interiore, la vera libertà, l'amore vero, il controllo della mente e delle sue funzioni
Teologi e studiosi delle religioni sono convinti che in ogni uomo esiste il seme del monaco. Raimon Panikkar [5] mette in evidenza come la ricerca interiore è propria della creatura umana e Corneljus Tholens spiega come l'uomo monastico è quella creatura che pur vivendo con un'attenzione cosciente a questo mondo, rimane sempre aperto alla profondità dell'essere, senza con questo dover essere inserito in una istituzione clericale o in un ordine monastico; può vivere libero da ogni istituzione, nella ricerca continua di una realizzazione superiore, di una risposta ai propri desideri, nella crescita della capacità di amare; le istituzioni infatti possono essere un aiuto, specialmente quando si vive in comunità, ma non sono un obbligo, una necessità assoluta. Ogni uomo ha in se un po' di monaco, anche se non appartiene a ordini monastici.
Ken Wilber, studioso, oltre che di religione e di filosofia, anche di sociologia e di psichiatria, riferendosi a Jung, scrive: "Questo è dunque il messaggio di Jung, ma anche di amerindi, taoisti, indù, islamici, buddhisti o cristiani: nel profondo del vostro animo vi è l'animo dell'umanità stessa. Un animo divino, trascendente, che conduce dall'assoggettamento alla liberazione, dall'incatenamento al risveglio, dal tempo all'eternità, dalla morte all'immortalità
In certo senso dobbiamo quindi 'far morire' il nostro sé falso e separato al fine di risvegliarci al nostro sé immortale e trascendente. Di qui il famoso paradosso: 'Se muori prima di morire, quando morirai, non morirai'. E il detto dei mistici, secondo il quale 'Nessuno può avere tanto da Dio quanto colui che è morto totalmente'. Possiamo forse avvicinarci a questa intuizione fondamentale dei mistici e dei saggi, e cioè all'intuizione che esiste un solo Sé immortale comune in tutti e a tutti noi, anche in un altro mondo" [6]. Il monaco è il più preparato a questo cammino di raggiungimento del profondo sé.
Per D. Hartman la chiave per capire Dio è capire la stessa dinamica umana; Dio cambia, cresce, matura lungo la storia, così come matura l'umanità; l'antropologia di questo autore è coerente con la sua teologia e guarda alle cose del mondo non sub specie aeternitatis ma sub specie humanitatis; non rifiuta nulla all'umanità nel nome della divinità. Per Hartman, ebreo, non vi è differenza ontologia tra Israele e il resto dell'umanità. Noi potremmo dire, non vi è differenza ontologica tra il monaco e qualsiasi altro uomo. L'uomo è creato a immagine di Dio, e questo basta. È bello quindi ascoltare anche la voce dell'altro, come partner a pieno titolo di una conversazione comune, nella ricerca comune di una verità che mai si possiede per intero. Per questo autore è possibile una vita pienamente spirituale e religiosa senza basi e certezze assolute, senza dogmatismi, nell'umiltà religiosa. Come ebreo non si interessa della redenzione e trova nella creazione e nella rivelazione un buon terreno per dialogare e fare comunione. Specialmente il monaco quindi, che si dedica alla meditazione della parola rivelata, può sentirsi più degli altri sub specie humanitatis fratello di tutti gli uomini [7].
Del resto anche il concilio Vaticano II è ben cosciente della presenza di Dio, della ricerca di Dio da parte di tutti gli uomini:
"La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio; non esiste, infatti, se non perché creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo creatore" [8].
E il Catechismo della chiesa cattolica ribadisce:
"Nel corso della loro storia, e fino ai nostri giorni, gli uomini in molteplici modi hanno espresso la loro ricerca di Dio attraverso le loro credenze e i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc.). Malgrado le ambiguità che possono presentare, tali forme di espressione sono così universali che l'uomo può essere definito un essere religioso" [9].
E il modo migliore per vivere una religione è, a mio parere, la vita monastica.
Non vorrei in questa conferenza, che è quasi meditazione, insistere sulle strutture esteriori della vita monastica, ben visibili ovunque; non guardare tanto alle costruzioni, agli abiti, agli orari, alle pratiche ascetiche, alla clausura
poiché il monachesimo è stato presentato normalmente con l'antropologia dell'ascesi, della negazione di se stessi, in vista del regno dei cieli; vorrei invece far comprendere che il monachesimo non è scuola della negazione da cui imparare la mortificazione, la crocifissione, ma è scuola di realizzazione, di affermazione, di risposta al bisogno di amare e di essere amati di ogni uomo, e questo sotto duplice aspetto: amore verso il supremo e amore verso le creature.
Una verità questa che precede l'organizzazione esteriore, che merita di essere studiata in ogni monachesimo, fondandosi sui testi sacri e sulle realizzazioni mistiche che ne derivano come frutto prelibato, anche se non universale.
Mi soffermo specialmente sul monachesimo cristiano, con solo pochi accenni ad altri monachesimi. Anche prima del cristianesimo sono comparse infatti strutture di vita di tipo monastico [10], come nell'induismo, nel buddhismo, nel jainismo, nel tardo ebraismo (esseni, Qumran, terapeuti), nel taoismo, e poi anche nell'islam (sufi); non sempre si tratta di precise realtà monastiche, ma nello stesso tempo presentano elementi religiosi che autorizzano ad accostarle. Occorrerebbe uno studio delle fonti più approfondito per mettere in relazione le diverse spiritualità per un arricchimento reciproco. Certo è che
"a un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere le loro esperienze di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell'Assoluto. Questo tipo di dialogo diviene arricchimento vicendevole e cooperazione feconda nel promuovere e preservare i valori e gli ideali spirituali più alti dell'uomo. Esso conduce naturalmente a comunicarsi vicendevolmente le ragioni della propria fede e non si arresta di fronte alle differenze talvolta profonde, ma si rimette con umiltà e fiducia a Dio, che è più grande del nostro cuore (1Gv 3,20). Il cristiano [il monaco] ha così l'occasione di offrire all'altro la possibilità di sperimentare in maniera esistenziale i valori del vangelo" [11].
Ogni monachesimo ha una sua spiritualità che insegna a cercare Dio e a vivere insieme. Ecco alcune brevi riflessioni sui monachesimi più famosi.
Il jainismo è una religione a nucleo monastico e presenta il monaco quale ideale supremo e modello perfetto di vita religiosa. Insegna la non violenza, con rispetto radicale per la vita, insegna l'amore per tutte le creature e la conquista della vita eterna mediante i meriti acquisiti. Gli esseri viventi hanno in potenza le qualità divine: visione infinita, conoscenza infinita, beatitudine infinita, potere infinito.
"Fedeli ai loro cinque voti astensione da ogni violenza e aggressività, da ogni menzogna, da ogni appropriazione di cose che non siano concesse in dono, da ogni pratica sessuale e da ogni attaccamento possessivo conducono vita di grande austerità, dedicandosi al lavoro, allo studio delle sacre dottrine e a quell'incessante peregrinare da un luogo sacro all'altro (sempre a piedi) che vuole essere simbolo di un ininterrotto cammino interiore verso la meta suprema" [12].
Il taoismo, religione ancestrale autoctona, vive la sua perfezione nel monachesimo anche oggi, con una sua dottrina e pratiche ascetiche particolari. Richiede la rottura completa con il mondo, sull'esempio del fondatore Laozi; richiede anche un legame forte, spirituale, profondo con il trasmettitore (padre spirituale) della spiritualità monastica, oltre a un amore immenso per la preghiera liturgica.
L'induismo si presenta diviso in diversi "ordini monastici" (come i benedettini), ma la regola che accomuna tutti è la rinuncia (sannyasa) a tutto, perfino al nome (da dimenticare!), alla condizione sociale, alla parentela. Vi sono i monaci che rinunciano perché conoscono la bellezza dell'Atman (realizzazione dello spirito), quelli che rinunciano perché lo cercano, quelli che rinunciano perché fuggono dalla durezza della vita. La vera rinuncia è quella che proviene dalla sete interiore dell'Assoluto; tutti i monaci venivano chiamati "i rinuncianti". Le gradazioni di rinuncia possono essere diverse ma tutte devono portare a quella libertà interiore che è liberazione anche dai riti, dalle regole, dalle strutture. Vengono proposti quattro stadi (asrama) della vita, e l'ultimo richiede l'allontanamento dalla vita normale per dedicarsi da soli o insieme ad altri alla sola contemplazione di Dio. La rinuncia non è vista in senso negativo, come coercizione; proviene dalla convinzione che esiste una vita più grane e profonda, per raggiungere la quale è gioioso abbandonare i condizionamenti terreni. La sconfinata libertà dell'Atman non fa pesare le rinunce a cui si va incontro.
Il monachesimo buddhista ha una grande flessibilità e adattabilità alle culture e si è trasformato, secondo le nazioni e i continenti dove ha preso dimora, Europa compresa. Nato sull'insegnamento del Buddha, non è legato di per sé alla ricerca di una qualche salvezza o liberazione, ma è come una scuola che vuole insegnare a vivere nella serenità, con una certa tendenza escatologica. Grande importanza viene data alla vita interiore o mentale, alla meditazione, per liberare la mente e il cuore da attaccamenti, da avversione (odio) e ignoranza. Una delle antiche scuole del buddhismo (theravada) insegnava che per salvarsi occorre diventare monaco, casomai dopo ripetute reincarnazioni. Buddha ad ogni modo viene ritenuto il "re dei medici", capace con la sua dottrina di offrire la salute spirituale a tutta l'umanità.
La religione islamica di per sé non ha monachesimo, ma nello stesso tempo presenta nelle comunità sufi un genere di vita che si accosta al monachesimo e alla sua spiritualità. La via da percorrere per la ricerca di Dio parte dalla via purgativa: distaccarsi da ogni affetto per le creature per essere completamente liberi per Dio; si tratta di una vera e propria conversione, di un profondo cambiamento interiore; segue la via illuminativa, più frutto della grazia di Dio che dello sforzo umano, si manifesta nell'abbandono fiducioso nelle mani di Dio, il "migliore dei fiduciari"; una fede piena di gioia poiché tutto viene accolto come voluto da Dio per il bene della propria anima; ne sgorga la lode, il ringraziamento, la riconoscenza; Dio è diventato l'unico punto di riferimento e il ricordo permanente di Lui è l'arma per vincere tutte le difficoltà. Alla fine si giunge alla via unitiva che fa desiderare di stare sempre con Dio, l'unico amato per il quale il sufi brucia di amore [13].
Ricerca e amore dell'assoluto
Siamo abituati a pensare al monachesimo e alla sua storia con immagini di asceti barbuti, magri, seminudi, abitanti nel deserto o nelle grotte, e pensiamo subito alle ristrettezze gastronomiche e logistiche della loro vita, senza riflettere a sufficienza sul motivo che li ha spinti a scegliere questo stile di vita. Siamo più attratti dai modi che dai motivi. E nel nostro Occidente siamo poi propensi a usare le argomentazioni culturali per spiegare il fenomeno monastico, con tesi diverse, che prendono lo spunto specialmente dalla storia o dall'analisi psichica dei personaggi, invece che guardare il cuore, l'amore che li ha spinti a questa scelta e con cui sono vissuti.
Anche se in questa relazione non è possibile approfondire i vari monachesimi e metterne in evidenza il loro contenuto, vorrei però far riflettere su un principio: coloro che hanno scelto la vita monastica, sono stati spinti dal desiderio di dare una risposta alle ricerche del proprio cuore, intendendolo sempre in senso biblico, comprendente cioè la persona intera, affetti compresi. Lo possiamo vedere in san Benedetto.
Da tenere presente che per noi cristiani la vocazione parte da una chiamata di Dio a cui corrisponde la risposta dell'uomo; diversa è l'interpretazione della vocazione da parte delle altre religioni, anche se talvolta viene equiparata.
San Benedetto è il prototipo del monachesimo occidentale e ci restringiamo al suo insegnamento. Non ha scritto una regola molto esigente; lo confessa lui stesso: "Intende procurare di avere in qualche modo una certa purezza di costumi e un inizio di vita monastica, mentre per chi ha fretta di raggiungere la perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri, la cui osservanza conduce alla vetta della perfezione,
di fronte a cui noi siamo pigri, imperfetti e negligenti, abbiamo di che arrossire di vergogna,
si tratta di una regola per principianti" (RB 73,1-2.7-8).
Tutto quello che richiede nella Regola è mezzo e strumento per liberarsi da possibili amori di se stesso e della terra per potersi dedicare completamente al grande amore: "Nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB 4,21; 72,11), e questo cammino verso la pienezza dell'amore lo propone da condividere insieme agli altri. Si tratta quindi di amore! e questo è collegato al desiderio, alla passione, alla continua ricerca. La parola "cuore" è una parola chiave della Regola di Benedetto: ricorre 31 volte. Già all'inizio del prologo il santo legislatore invita il discepolo ad "aprire docile l'orecchio del cuore" (RB, Prol. 1), "respingere lontano dallo sguardo del cuore il diavolo con le sue suggestioni" (RB, Prol. 28), poiché "il servizio sotto la santa obbedienza ai divini comandamenti richiede la prontezza dei corpi e dei cuori" (RB, Prol. 40).
Tutta la vita monastica all'inizio può sembrare stretta e faticosa, ma poi avanzando nel cammino di conversione e di fede "si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti" (RB , Prol. 48-49). Del resto anche la continua conversione richiede di "ascoltare, di tutto cuore, le sante letture" (RB 4,55), come pure la preghiera non è valida per la quantità delle parole ma nel "mettere in sintonia il nostro cuore con la nostra voce" (RB 19,7), poiché da Dio non saremo esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alle lacrime" (RB 20,3); davanti al Signore, se desideriamo pregare da soli, l'importante è stare "con lacrime e intenso fervore del cuore" (RB 52,4). Una regola antecedente, che certamente san Benedetto conosceva, presentava la vita monastica sotto il titolo di "atti della milizia del cuore", con il proposito di educare alla spiritualità dell'amore, del cuore. Se il cristianesimo ha un unico comandamento, l'amore, il monaco deve essere esemplare in questo comandamento, riguardante prima di tutto Dio, Cristo.
Gli esempi migliori di questa passione, di questo amore per Dio sono i contemplativi [14], e tra questi meritano un posto particolare le donne, come santa Gertrude e santa Ildegarde.
L'amore di Dio viene vissuto nella preghiera che è fonte e sostegno della vita, e la preghiera raggiunge il cuore.
"La preghiera non sarà pienamente umana finché non avrà incluso in sé anche la dimensione affettiva della persona, il suo cuore. La preghiera, in quanto prima realizzazione del comandamento della carità, deve canalizzare al massimo le energie del cuore. Gesù stesso, rispondendo a chi gli chiedeva di riconoscere la legge fondamentale dell'Antico Testamento rispose senza tergiversare: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore
". La preghiera, da qualunque zona provenga, tende a pervadere l'intera persona; in caso contrario corre il rischio di rimanere sterile e insignificante. Ciò potrebbe accadere alla preghiera vocale
, ma anche una preghiera puramente intellettuale che non accendesse la fiamma dell'amore, ma che si limitasse alle labbra e alla mente sarebbe incompleta e correrebbe il rischio di non maturare la persona verso la piena comunione con Dio, che si ottiene soltanto con l'amore trasformante" [15].
L'organizzazione della giornata, ritmata dalla preghiera della liturgia delle ore, riconduce sempre il ricercatore di Dio a tornare all'amore a cui sta dedicando la vita e che con facilità si dimentica, poiché non è visibile e sensibile come le creature che ci circondano. Alla mentalità odierna la liturgia delle ore può sembrare una rottura per la possibilità di costruire reddito economico, ma per il monaco che ha interesse primario per Dio la liturgia delle ore è la gioia di tornare a stare con il proprio amore, anche al posto di coloro che invece sono dediti principalmente al lavoro. Il monaco "deve soprattutto capire come, nonostante le esigenze dell'abbandono del mondo
la sua consacrazione religiosa lo rende presente agli uomini e al mondo in modo più profondo nel cuore di Cristo" [16]. Il monaco infatti "è unito a tutti perché unito a Cristo. Unito a tutti perché egli porta in cuore l'adorazione, il ringraziamento, la lode, le angosce e le sofferenze dei suoi contemporanei. Unito a tutti perchè Dio lo chiama in un luogo dove rivela all'uomo i suoi segreti. Non soltanto presente nel mondo, ma anche al cuore della chiesa" [17].
La giornata di san Benedetto non è organizzata per il reddito, per il lavoro, per l'autorealizzazione, per compiere servizi ben precisi nella chiesa o nella società, ma per cercare Dio, per stare con Dio; e poiché la debolezza e la fragilità tende a condurci all'attenzione verso noi stessi e le cose che ci circondano, ecco allora la rottura della liturgia delle ore. E si aggiunge, a ore ben determinate, anche un lungo tempo dedicato alla lectio divina, poiché la preghiera liturgica comune corre il pericolo di scorrere come l'acqua sulla pietra, diventando formale, esteriore, senza lo sforzo interiore per l'attenzione di mente e cuore, con più attenzione a tenere ritmi e toni che a scrutare il senso delle scritture. Ma la lectio divina invece richiede l'intervento personale dell'intelligenza (lectio, meditatio) e del cuore (oratio, contemplatio), e quando illumina la nostra mente e la nostra sensibilità, ci porta a gustare anche la Parola che incontriamo nella celebrazione eucaristica, a salmodiare con energia e passione, a desiderare di stare nella casa del Signore.
Gli altri istituti religiosi, sia nella scelta vocazionale che nell'ordinamento della giornata, possono e devono fare discernimento delle persone che si accostano, per scrutarne le capacità necessarie per svolgere determinati impegni, come può essere l'insegnamento o la cura degli infermi, la catechesi o le attività professionali della nostra società, le opere di carità e di promozione umana. L'ordine benedettino invece ha fatto e può fare di tutto, ma non è specializzato in niente, sia come comunità che come persone singole; situazione difficile da accettare se non si crede nel valore della preghiera, se non si ha la passione per la ricerca di Dio come il tutto del proprio cuore, della propria vita; richiede una vocazione spoglia, pura, solo per Dio. Tutte le religioni hanno un Dio, il monaco vive solo per Dio.
Per san Benedetto alla frase "nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB 4,21; 72,8), corrisponde l'altra: "Niente anteporre all'opera di Dio" (RB 43,3), che deve essere visibile già nel postulante da scrutare da parte del formatore per vedere "se è pronto all'Ufficio divino" (RB 58,7). Diversa è quindi anche la selezione delle vocazioni, dato che si tratta di formare una famiglia cristiana autentica dove possono convivere persone di vario spessore intellettuale, psichico, spirituale, e non solo professionisti. Come il cristianesimo è composto da tutti gli uomini, anche il monachesimo, come cristianesimo integrale, è disponibile a comunità composte da tutte le varietà umane. L'unica richiesta al postulante è: "Se cerca veramente Dio" (RB 58,7). Per questo la preghiera occupa il posto principale della giornata; anche la chiesa allora va curata con attenzione, così come il canto e la celebrazione intera, poiché "noi crediamo che Dio è presente ovunque e che in ogni luogo gli occhi del Signore scrutano i buoni e i malvagi, tuttavia dobbiamo credere questo, senza alcun dubbio, soprattutto quando partecipiamo all'Ufficio divino" (RB 19,1-2).
La cosiddetta "preghiera del cuore" sgorga dall'intimità del monaco e coinvolge la mente, le labbra, il corpo
e ha dato origine a quella impostazione globale della spiritualità nell'Oriente monastico cristiano, tema di questo convegno. La ripetizione all'infinito di "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore", o altra frase simile, mette in relazione l'uomo peccatore con Gesù Salvatore, avvia verso la contemplazione.
Sempre secondo la Regola di Benedetto vi sono poi alcuni comportamenti da mantenere se si vuole davvero incontrare Dio e stare con Lui.
Il silenzio, per esempio, è essenziale per rimanere con Dio. Il santo legislatore gli dedica un capitolo intero (c. 6) e lo richiede specialmente per il tempo dopo compieta (c. 42); il silenzio è anche dimostrazione di umiltà (cf. RB 4,53-54) e non consiste solo nell'astenersi dal troppo parlare (cf. RB 4,52) o dal trattenersi da parole cattive (cf. RB 4,51); è un mezzo per evitare le distrazioni, per cui occorre "non dire parole inutili che portano al ridere, non amare il ridere frequente e smodato" (cf. RB 4,53-54), e addirittura il sapersi trattenere anche da cose buone (cf. RB 6,1). Occorre avere "amore del silenzio" (titolo del c. 6), saper coltivare il silenzio (cf. RB 42,1), sapendo che "morte e vita sono in potere della lingua" (RB 6,5) e il "saggio si riconosce dalle poche parole" (RB 7,61). La vita monastica richiede sempre il silenzio, da aumentare piuttosto che tralasciare, così come viene richiesto per il periodo quaresimale (cf. RB 49,7). È il silenzio infatti che permette di "ascoltare" la parola di Dio.
Anche la clausura è intesa come mezzo per non distrarsi da Dio. È delimitazione degli ambienti entro i quali si svolge interamente la vita dei fratelli, è salvaguardia della vita contemplativa, dell'unione con Dio, della preghiera; l'andare fuori "non è utile alle anime dei monaci" (RB 66,7), e se è necessario uscire lo si faccia pure, ma "non è bene far conoscere quello che si è visto, poiché potrebbe fare del male ai fratelli" (RB 67,4); san Benedetto non proibisce in modo assoluto di uscire dal monastero; può essere necessario per il lavoro o per altro (dedica tre capitoli: 50, 51 e 67 alle uscite del monaco dal monastero) ma anche nel viaggio il monaco rimane monaco, ed è quindi bene pregare prima che se ne vada e anche al suo ritorno, con un rito particolare, perché l'uscita non distolga dalla propria vocazione di ricercatore di Dio; per questo è bene che nel monastero vi siano tutti i mezzi di sussistenza: "l'acqua, il mulino, l'orto, i laboratori dei diversi mestieri
" (RB 66,6).
Il santo legislatore, pur essendo aperto all'ospitalità (cf. RB 53), anche verso gli ospiti richiede comportamenti da parte dei monaci che salvino la vita regolare, il silenzio, la clausura: "Nessuno senza il permesso si intrattenga o parli con gli ospiti, ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, e richiesta la benedizione, passi oltre, dicendo che non ha il permesso di parlare con gli ospiti" (RB 53,23-24); del resto è bene che anche all'interno della comunità "un fratello non si intrattenga con un altro fratello nelle ore non permesse" (RB 48,21).
Oggi in Occidente la clausura maschile, a causa anche del sacerdozio di molti monaci e relative attività pastorali, è piuttosto sfilacciata, mentre la clausura femminile è più curata, con molte diversità da monastero a monastero, mentre in Oriente la clausura è specialmente maschile; pensiamo al Monte Athos o ai monasteri copti d'Etiopia. Certamente è cambiata la società e non è più possibile avere entro le mura del monastero tutto l'occorrente per la vita, e i pericoli di per sé non sono più eliminati con le mura, poiché i mezzi di comunicazione (telefoni, internet, cellulari, televisione, radio, periodici
) possono far avere il mondo in camera, pur circondati da alte e robuste mura. Oggi si richiede una maturità spirituale maggiore da parte di ogni monaco, tale da saper distinguere il necessario che si deve sapere per vivere "incarnati" nella chiesa e nel mondo, dal superfluo che si deve evitare, come del resto è lo stesso anche nel campo della povertà e del benessere che ci ha invasi. I monasteri devono rimanere sempre i luoghi del silenzio e della ricerca di Dio, dove non solo i monaci ma anche gli ospiti possono ritrovare se stessi e la vita interiore.
Amore dell'uomo
Il monaco cristiano vuole essere un cristiano esemplare, e come tale vuole essere radicale non solo nell'amore di Dio, ma anche nell'amore al creato, alle creature. Ci vogliamo soffermare specialmente sulla vita comunitaria nel monastero come vita di amore.
San Benedetto, conoscendo le varie specie di monaci esistenti al suo tempo, sceglie di impegnarsi per aiutare i cenobiti a vivere nel migliore dei modi insieme, ritenendoli la "più forte specie di monaci" esistente (cf. RB 1,13). Pur mitigando le durezze dell'ascesi, largamente praticata nel monachesimo orientale, ne stabilisce alcune qualità tuttora valide per la vita comune.
Prima di tutto richiede la stabilità nel monastero. Motivo particolare che lo ha spinto a questa richiesta è stato anche il vagabondaggio esistente ai suoi tempi (e anche ai nostri) nella società e anche nella vita monastica, causato dalle trasmigrazioni di popoli. La stabilità riguarda il luogo dove Cristo ha chiamato il monaco, come pure la perseveranza nella consacrazione monastica, e si esprime anche nell'accettare il superiore (l'abate) stabile nella comunità per tutta la vita. Oggi la maggioranza degli istituti moderni richiede invece dai propri componenti la disponibilità ai trasferimenti, ai cambiamenti di casa, di comunità, di superiore, e sempre per motivo ascetico.
Collegata alla stabilità vi è la richiesta di una continua conversione, di un continuo cambiamento in profondità, da operarsi nel corso di tutta la vita. La formula della professione monastica non si fonda sui tre voti di povertà, castità e obbedienza, ma sulla "stabilità, la conversione dei costumi e l'obbedienza, davanti a Dio e ai suoi santi" (RB 58,17-18). Potremmo dire che l'impegno principale della vita monastica benedettina consiste nella stabilità in una continua conversione.
Fondamentale è poi l'obbedienza, come rinnegamento di se stessi, strettamente legata all'umiltà. È una virtù difficile da comprendere oggi; si è infatti facili parlare di obbedienza ragionata, dialogata; si parla di corresponsabilità, di condivisione, di realizzazione della propria personalità, e l'obbedienza molte volte viene presentata come lesione della dignità personale. Per san Benedetto l'obbedienza è reale sottomissione al superiore nel nome della fede, su scelta libera, matura, dichiarata nel momento della professione; pone in relazione con Dio per mezzo di chi lo rappresenta. È comunione con Dio, come quella di Gesù Cristo verso il Padre.
Disobbedire per san Benedetto è uscire dalla comunione con Dio, è idolatrare la propria volontà, il proprio egoismo (cf. 1Sam 15,16-23). "Ci viene insegnato a non fare la propria volontà" (cf. RB 7,19-25; 35-43). In qualche codice e commento alla Regola i monaci sono chiamati semplicemente "gli obbedienti". L'esercizio dell'obbedienza è vista come una "fatica laboriosa" (RB, Prol. 2) che si contrappone alla pigrizia della disobbedienza, ed è proprio di chi "rinunziando alla propria volontà, per servire Cristo Signore, il vero re, assume le fortissime e gloriose armi dell'obbedienza" (RB, Prol. 3), "di coloro che ritengono di non avere assolutamente nulla più caro di Cristo" (RB 5,2), e "si verifica in quelli che, spinti dall'amore, sentono l'urgenza di raggiungere la vita eterna" (RB 5,10). Se sono ammesse da parte dell'abate delle particolarità compiacenti, queste vanno verso chi è "migliore nell'obbedienza" (RB 2,17); egli deve "correggere con fermezza gli indisciplinati e i ribelli, ed esortare a progredire sempre più nel bene i discepoli che già si mostrano obbedienti, miti e pazienti" (RB 2,25). "Uomini di simile tempra interrompono all'istante le loro occupazioni e si staccano dalla loro propria volontà. Subito pronti, le mani libere, lasciano incompiuto ciò che stavano facendo, e con una obbedienza che mette ali ai piedi, seguono immediatamente la voce di chi comanda" (RB 5,7-8). L'obbedienza "è propria di coloro che non vivono a proprio arbitrio, non si lasciano dominare dalle loro voglie capricciose e istintive, ma piuttosto camminano lasciandosi guidare dall'altrui giudizio e comando" (RB 5,12). Questa virtù è per tutti: per le possibili vocazioni sacerdotali (cf. RB 62,11), per il priore (cf. RB 65,21), per l'artigiano che produce reddito per il monastero (cf. RB 57,1-3), poiché "unicamente per questa via dell'obbedienza si va a Dio" (RB 71,2). E deve essere praticata con gioia, poiché "se il discepolo obbedisce malvolentieri e mormora non solo con la bocca ma anche semplicemente con il cuore, pur eseguendo l'ordine, non sarà più accetto a Dio" (RB 5,16-18). Si deve obbedire alla Regola; "tutti dunque, e in tutto, seguano la Regola come loro maestra e nessuno abbia la temerarietà di allontanarsene" (RB 3,7), "soprattutto l'abate osservi integralmente questa regola, in modo che, dopo aver reso buon servizio, possa sentirsi dire dal Signore le parole riguardanti il servo fedele che a tempo opportuno aveva distribuito il grano ai suoi compagni" (RB 64,20-22). Obbedienza all'abate: "Nessuno sfrontatamente oppure fuori del monastero abbia la presunzione di contestare con il suo abate" (RB 3,9), anche di fronte a gravi difficoltà (cf. RB 7,35 e 68,5), poiché i monaci sono che coloro " che dimorando stabilmente nel cenobio, desiderano avere un abate a cui obbedire" (RB 5,12). Inoltre occorre tenere presente che "l'obbedienza è un bene così grande che i fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all'abate, ma anche di scambiarsela tra di loro" (RB 71,1), "facendo a gara nello scambiarsela a vicenda" (RB 72,6).
Altro impegno è il lavoro, poiché "l'ozio è il nemico dell'anima, perciò i fratelli in ore ben determinate devono essere occupati nel lavoro manuale, come anche in altre ore, anch'esse determinate, nella lectio divina" (RB 48,1). Lavoro per tutti; "ai fratelli malati o di delicata costituzione si assegni un lavoro o un mestiere tale che non li lasci in ozio, ma neppure li opprima con un eccesso di fatica o li induca a sfuggirlo; la loro debolezza deve essere tenuta presente dall'abate" (RB 48,24-25). "Se qualcuno fosse così negligente e pigro che non voglia o non possa meditare o leggere, gli si dia un lavoro da fare, perché non resti in ozio" (RB 48,23).
La vita comune, in comunione è la richiesta più esigente per tutta la chiesa, ai nostri giorni; è la richiesta fondamentale per la vita consacrata; anche Dietrich Bonhoeffer la riteneva come "qualcosa che non sta a cuore solo a piccoli gruppi privati, ma è un compito assegnato alla chiesa intera" [18] e a maggior ragione ai cenobiti.
Penso che la grande differenza tra il passato e la situazione presente nella vita monastica trovi il suo centro diversificante proprio nella nozione di vita comune. Oggi entrare in comunità significa entrare in una delle forme che danno risposta al bisogno di amare e di essere amati, in una fraternità evangelica che risponde ai "bisogni profondi" della persona, in una comunità dove non si soffoca la spontaneità, la tenerezza, l'amicizia, pur mantenendo la radicalità evangelica, la fedeltà alla scelta fatta. Oggi si parla di comunione più che di comunità, vista questa come mancante di fraternità in nome delle osservanze. Non si vede la comunità come una entità giuridica, quanto piuttosto come una comunione derivante dalla carità che permette di vivere, invece che sconvolgere la vita. Più che di una "struttura" si pensa ad uno "stile di vita" che si sviluppa nelle relazioni fraterne, nella solidarietà, nel lavoro in comune, nella capacità di scelte comunitarie, nella vita semplice. La comunità/comunione viene vista come una realizzazione in se stessa, indipendentemente dalle opere che svolge; non tanto per gli orari e le organizzazioni che disciplinano la giornata, quanto piuttosto per lo spirito fraterno che la contraddistingue. Le vocazioni cercano la comunità non per i servizi e le attività che svolge, ma per la spiritualità di comunione che possiede, anche se poi nel vivere insieme occorre che ci sia chi decide, occorre l'organizzazione degli orari e delle attività, la suddivisione dei pesi e degli impegni; rimane la necessità dell'ossatura, delle strutture, dei vincoli, delle funzioni, per non morire. Ma le persone devono sentirsi umanizzate, aiutate a maturare nella loro personalità, nella capacità di giudizio, nella libertà di espressione, di iniziativa, di responsabilità. Nelle comunità occorre trovare persone con cui poter stabilire un dialogo, intrattenere rapporti positivi, una comunicazione franca e spigliata, un riconoscimento affettivo, una dimensione familiare. Una comunità dove vi è reciprocità, una mutualità, una compresenza, una complementarietà, una corresponsabilità, una interdipendenza, dove ogni membro è parola di Dio e richiede obbedienza. In essa ognuno esercita pienamente i doni di Dio, ognuno si rende conto di avere terribilmente bisogno del dono degli altri, poiché siamo tutti fratelli (cf. Mt 23,8-9). Oggi una comunità/comunione risponde alle sfide della società, specialmente dei giovani. E al suo interno il servizio dell'autorità ha esigenze maggiori dei tempi passati, per stimolare, animare, coordinare le doti di tutti, portandoli a sapersi esprimere, a dare il meglio di se stessi, ad imparare ad amare e crescere nell'amore.
San Benedetto scrive la sua Regola per insegnare a stare insieme nella ricerca di Dio. Regola molto equilibrata, preparata "in modo che le anime si salvino e quello che i fratelli devono fare, lo facciano senza fondati motivi di mormorazione" (RB 41,5), con l'ordinamento della giornata distribuita tra preghiera liturgica comunitaria, lavoro e lectio divina (c. 48), "disposta con prudenza e giustizia" (RB 3,6). "Si tratta di istituire una scuola per il servizio del Signore. In essa speriamo di non stabilire nulla di rigido, nulla di gravoso. Ma se anche se vi si introdurrà qualche prescrizione un po' più severa, a motivo di un ragionevole equilibrio, al fine di correggere i vizi e di conservare la carità, tu non abbandonare" (RB, Prol. 45). Il monastero per san Benedetto è anche una officina che ha a sua disposizione tanti strumenti dell'arte spirituale (cf. RB 4), da adoperarsi giorno e notte, incessantemente, e se verranno "riconsegnati nel giorno del giudizio, riceveremo dal Signore quella ricompensa che egli stesso ha promesso" (RB 4,78-79). La vita monastica è anche presentata come una milizia; è propria di coloro che militano, combattono "sotto una regola e un abate" (RB 3,2). Le immagini della scuola, dell'officina, della milizia indicano che la vita è un impegno di conversione continua, che non è ammessa la pigrizia, la tiepidezza, la negligenza. Occorre "stabilità, conversione dei costumi e obbedienza" (RB 58,17) per tutti i giorni della vita; imparare da amare non è facile.
Alcuni capitoli (24-30 e 43-46) a carattere penitenziale, mettono in risalto l'importanza della vita comune, sorretta dalla continua preghiera che modula la giornata.
Penso che occorra oggi mettere in evidenza la diversità dell'antropologia dei tempi di san Benedetto con quella attuale, per non trovarsi ad essere incompresi, fuori tempo, insignificanti per la chiesa e la società [19].
Cammino universale verso il monachesimo
"Monaco è colui che consacra la sua vita a cercare Dio. Non è monaco chi fa voto di essere prigioniero di una qualsivoglia forma di vita monastica, ma colui che cerca Dio. Certo, questo non è sufficiente per essere monaco entro un'istituzione, ma lo è per colui che desidera consacrare la sua vita a cercare Dio e niente altro, sine additu
Penso che oggi non si tende a una restaurazione nostalgica di qualche forma tradizionale monastica ma si desideri piuttosto individuare e dare impulso a forme di vita religiosa semplici e aderenti all'essenziale, ossia all'aspetto che riteniamo più importante nella vita dell'uomo. È utile riflettere dunque su ciò che è l'anima e lo spirito monastico" [20].
Il monachesimo è insito nel cuore di ogni uomo, è il modo migliore per vivere una religione. Papa Ratzinger in un discorso tenuto ai movimenti e comunità nuove della chiesa, scriveva: "Il monachesimo, la cui forma più classica nella chiesa occidentale è l'ordine benedettino, è un fenomeno fondamentale della chiesa, e non scomparirà mai. Penso anzi che certe esperienze vissute all'interno dei movimenti sboccheranno nel monachesimo e che creeranno nuove vocazioni monastiche" [21]. Sono i monaci che "presentano al mondo in un'unica testimonianza gli autentici valori spirituali, necessari in ogni età. Per tutti la preghiera e la contemplazione sono nobili vie per raggiungere Dio, sono componenti essenziali della vera realizzazione umana" [22].
Le comunità di lunga tradizione hanno paura di non essere valutate nella chiesa e nel mondo se non presentano qualche attività eclatante, di culturalmente elevato: convegni, concerti, edizioni, oppure attività di carità e di promozione umana. Non bisogna avere paura; si deve semplicemente presentare "una spiritualità che mette in risalto lo sforzo dell'uomo nella ricerca di Dio e nell'amore vicendevole".
Il dialogo con gli altri monachesimi, la conoscenza della loro storia e della loro spiritualità ci aiuta a mettere in ordine la gerarchia dei valori, a saper distinguere i motivi che ci spingono e la meta a cui tendiamo dai mezzi che usiamo, dalle strutture entro cui viviamo, dalle attività che svolgiamo. Le nostre osservanze occidentali hanno necessità di essere revisionate a contatto con il mondo orientale, cristiano e non, e possiamo arricchirci reciprocamente nel cercare l'essenziale: Dio ! Personalità che hanno avuto contatto esistenziale con altri monachesimi, come Bede Griffiths, Thomas Merton, Corneljus Tholens, hanno compreso che la vita interiore, l'esperienza di Dio ci può unire; non le formule esteriori, le regole, gli abiti, le abitazioni, gli orari
"Il monachesimo interiore è il fondamento indispensabile per ogni espressione della vita monastica. Infatti, soltanto un rinnovamento di interiorizzazione potrà soddisfare la sete spirituale dell'uomo credente, nel nuovo secolo" (C. Tholens).
E dialogando e collaborando tra i vari monachesimi possiamo contribuire insieme a salvare e rendere visibili i valori spirituali dell'uomo.
Cipriano Carini, osb