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Spiritualità in dialogo
La spiritualità come terreno di dialogo interreligioso
di Giuseppe Scattolin, mccj
(Pontificio istituto di studi arabi e islamistica, Roma)
[Rielaborazione delle riflessioni presentate al convegno Nostra Aetate Today, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 25-28 settembre 2005]
1. L'essere umano come l'essere della domanda
1.1. Le religioni e le domande sull'esistenza umana
Il documento conciliare Nostra aetate (Roma, 28 ottobre 1965) ha aperto nel modo più autoritativo l'universo della chiesa verso nuovi orizzonti, gli orizzonti delle religioni non cristiane. Fino allora queste erano state guardate da parte della chiesa da lontano, per lo più con una certa diffidenza e anche con condanne esplicite, come regno del mondo della non salvezza. Anche sant'Agostino (m. 430), il "Dottore della grazia" (Doctor gratiae) non faceva una piega di fronte alla prospettiva che l'assoluta maggioranza dell'umanità fosse predestinata ad andare all'inferno per il semplice fatto di essere al di fuori del gregge della chiesa. È pure utile ricordare che il noto teologumenon "extra ecclesia nulla salus" (cioè: "Al di fuori della chiesa non c'è salvezza") aveva da sempre occupato l'orizzonte della fede cristiana per lo più in senso restrittivo ed esclusivo: alla lettera, al di fuori della chiesa non c'è salvezza.
Ora, nel concilio Vaticano II, la chiesa riconosceva in modo esplicito e autoritativo la possibilità di salvezza al di fuori dei suoi confini visibili. Tale nuova posizione, frutto di un lungo e laborioso lavoro teologico, ha trovato una larga risonanza nell'abbondante letteratura teologica che si è sviluppata su tale argomento nel dopo-concilio. Per tale motivo si deve senz'altro dire che il documento Nostra aetate, insieme con gli altri documenti conciliari, ha segnato una svolta epocale per la chiesa cattolica. Esso ha aperto e orientato la chiesa verso orizzonti nuovi, gli orizzonti del dialogo interreligioso. Dopo il concilio infatti, molti altri documenti ufficiali della chiesa sono apparsi sul tema del dialogo interreligioso. Ricordo in particolare il documento Dialogo e annuncio (1991), forse il più completo in materia. Esso propone quattro forme fondamentali di dialogo: il dialogo della vita, delle opere, degli scambi teologici e dell'esperienza religiosa. Quest'ultimo è descritto come il dialogo "dove persone radicate nelle proprie tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio per ciò che riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede, e le vie della ricerca di Dio o dell'Assoluto" (nr. 42).
Questo è appunto l'oggetto della presente riflessione. A tale scopo intendo prendere come punto di partenza il Preambolo del documento Nostra aetate, cui, a mio parere, è stato dato poco peso, forse perché considerato troppo generico e scontato. Esso invece merita, a mio parere, maggiore considerazione. E forse, proprio il fatto di aver trascurato le istanze che esso pone, è stata la causa per cui il dialogo interreligoso ha perso molte volte la sua incisività prima, scadendo al livello di uno scambio superficiale di opinioni che non impegnano nessuno, arrivando addirittura al livello di pura propaganda opportunista.
In tale Preambolo le religioni vengono presentate come risposte alle domande fondamentali che "turbano profondamente il cuore umano", domande che riguardano il senso dell'esistenza di tutta l'umanità come pure di ogni singolo essere umano in essa. Questa è una posizione nuova nel pensiero ufficiale della chiesa. Le differenti religioni infatti sono presentate nel documento non come un fenomeno solamente negativo, ma ad esse è attribuito un ruolo positivo nella storia umana. Il documento conciliare recita:
"Tutti gli uomini attendono dalle diverse religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano. Che cos'è l'uomo? Che senso e fine ha la sua vita? Che cos'è il bene e che cos'è il peccato? Qual è l'origine e il fine della sofferenza? Qual è la via che conduce alla felicità? Che cos'è la morte, il giudizio e la retribuzione dopo la morte? Qual è infine il mistero ultimo e ineffabile che circonda la nostra esistenza, dal quale noi riceviamo la nostra origine e al quale noi tendiamo?" (Nostra aetate 1).
Queste sono solo alcune delle domande fondamentali che ogni essere umano si pone, e queste domande sono presentate dal documento conciliare solo come esempi di un questionare incessante e di una problematica radicale che attraversano tutta l'esistenza umana, e che, si può dire, costituiscono l'essere umano in quanto tale. Un essere umano che non si ponesse tali domande cesserebbe di essere 'umano'. Il documento conciliare presenta qui un aspetto importante del dialogo interreligioso, anzi, a mio parere, questo dovrebbe essere il vero punto di partenza di ogni serio dialogo interreligioso. Noi, esseri umani, dialoghiamo in primo luogo perché abbiamo in comune delle domande fondamentali cui rispondere, perché siamo in certo senso costretti dal questionare incessante e dalla problematica radicale che attraversano tutta la nostra esistenza. È infatti dalla risposta a tali domande che dipende il senso del nostro esistere.
1.2. La domanda: dimensione umana e chiamata divina
L'essere umano è l'essere che interroga e che si interroga. Egli si interroga prima di tutto sul senso della propria vita. Ma attraverso di esso il suo domandare si allarga sulla domanda del senso dell'essere in generale. Le due domande, quella su di sé e quella sull'essere, non sono separate, ma strettamente connesse. Anzi, non c'è vera risposta all'una senza una risposta all'altra. Questo aspetto è stato ampiamente illustrato dal pensiero filosofico e teologico moderno.
Al contrario, gli animali subumani sembrano cercare la loro felicità nella soddisfazione di alcuni bisogni e istinti primari, naturali e immediati, quali il nutrimento, la compagnia, la riproduzione, ecc. (Tuttavia, anche in tale campo occorrerebbe vedere le cose più in profondità. San Paolo, infatti, in Rom 8,18-25, parla di un "gemito come di doglie di parto" che attraversa tutta la creazione, e di un'attesa di "redenzione" che costituisce l'intima aspirazione di tutte le creature. Questo testo apre orizzonti assai vasti sul senso dell'universo, orizzonti non ancora completamente esplorati). In ogni caso, appare chiaro che l'essere umano, a differenza degli altri animali, ha sempre manifestato fin dai suoi primordi una curiosità insaziabile e una ricerca incessante che vanno ben oltre gli orizzonti limitati dei suoi bisogni e istinti puramente animali. L'essere umano è l'essere che inevitabilmente si trova in una ricerca incessante e inappagata proprio sul senso del suo esistere, e questo anche quando egli cerca di evitarla in modo puramente negativo.
In questo senso si potrebbe proporre una definizione dell'essere umano parallela a quella classica data da Aristotele (m. 322 a.C.), secondo cui "l'uomo è l'essere ragionevole (logikòs)". L'uomo, l'essere umano, appare anche, per essenza si potrebbe dire, come "l'essere questionante" o, se si vuole come "l'essere della domanda continua e della ricerca incessante". Il continuo ricercare, l'incessante questionare, il problematizzare sempre più radicale sul senso del suo esistere, costituiscono infatti i tratti caratteristici dell'essere umano in quanto tale (qua talis), si direbbe scolasticamente, tratti che lo differenziano da ogni altro essere. Infatti gli esseri inferiori a lui, come gli animali, le piante e i minerali, sembrano essere mossi da forze puramente fisiche e istintuali iscritte in modo fisso e determinato nella loro natura, e quindi al di qua di ogni domanda. Mentre gli esseri superiori all'uomo, come gli angeli, sono supposti esistere in uno stato di visione chiara, luminosa e perpetua della verità, e quindi al di là di ogni domanda. Tuttavia come abbiamo accennato sopra, anche qui una visione più profonda e vasta rivelerebbe che in tutti gli esseri creati in quanto tali esiste una domanda ontologica radicale e inevitabile, cioè la domanda sul proprio fondamento ontologico, in definitiva sull'Assoluto, come il fondamento ultimo di tutto: tutto infatti viene da Lui e tutto è diretto verso di Lui. Infatti, come molte riflessioni filosofiche hanno intuito, tutta la creazione in quanto tale si trova come in un movimento incessante che parte dall'Assoluto e a Lui è diretto. Ma qui tocchiamo complesse questioni ontologiche, al di fuori della portata della presente ricerca.
L'uomo appare quindi, a differenza degli altri esseri, come "l'essere che domanda, che si interroga, che pone questioni". Egli è l'essere che dopo ogni risposta pone sempre nuove domande: egli è l'essere interrogante per eccellenza. Egli si muove in una perpetua domanda, in un'incessante ricerca di senso che riguarda il suo esistere come pure l'esistere degli esseri attorno a lui. Questo almeno fino a che egli continuerà a essere "umano". Forse un giorno cesserà di essere "umano". Forse un giorno la tirannia tecnocratica crescente lo ridurrà a essere una pura macchina di produzione e consumo, senza nessun orizzonte che vada al di là del mondo manipolabile della tecnica. Allora forse si realizzerà l'aforisma che da tempo vado ripetendo: "L'uomo ha creato la macchina e si è trasformato a sua immagine e somiglianza". Allora l'essere umano cesserà di essere "umano", per divenire — chissà mai? — forse un "robot perfetto", destinato a operare, produrre e consumare all'interno di un sistema totalmente robotizzato dove l'esistere è diventato una pura funzione operativa, sempre intercambiabile fra i vari componenti della macchina robotica suprema. Allora l'uomo-robot avrà cessato di essere umano; esso non si interrogherà più sul senso del proprio esistere, essendo questo già prefissato dal Super-Robot dominante che lo determina come una sua funzione operativa. Allora l'essere umano, ridotto a pura unità robotica, non dovrà più pensare a se stesso, ma dovrà solo continuare a funzionare finché la sua capacità operativa resisterà. Dopo di che dovrà sparire senza rimpianti... infatti altre unità operative, tecnicamente più avanzate di lui, gli subentreranno e continueranno la sua funzione robotica.
Sarà questo il destino ultimo dell'umanità, per quanto appare al nostro visibile orizzonte umano? Questi sono grossi interrogativi che gravano sul nostro esistere umano. Molti pensatori indicano questo come una possibilità, e molte manifestazioni della cultura di massa che ci circondano sembrano suggerire che non siamo lontani da alcuni drammatici aspetti di tale futuribile robotico.
È alla luce di queste riflessioni che vedo l'estrema utilità e l'urgente necessità di riprendere il discorso del concilio sulla "domanda umana" come l'orizzonte esistenziale fondamentale e fondante della risposta religiosa. Il concilio infatti presenta le religioni come "risposte alle domande e ai quesiti" esistenziali dell'essere umano in quanto tale. Questa posizione, oltre che essere estremamente moderna e attuale, è pure estremamente importante nell'impostazione del problema delle religioni e del dialogo interreligioso.
La domanda umana di senso da una parte, e la ricerca religiosa dall'altra, non sono infatti dei processi estranei, ma sono strettamente legati nel divenire "umano" dell'essere umano. La religione, e la dimensione mistica in essa, non è un semplice optional, da accettare o rifiutare a piacere, ma costituisce il nucleo vivo e palpitante per essere e per divenire più "umani". Tolto tale nucleo, la caduta dell'umano in un robotismo universale sembra quasi inevitabile.
Inoltre, tale domandare umano, se esaminato a fondo, si rivela essere in realtà una chiamata divina posta nel cuore dell'essere umano. Esso è il primo segno della presenza di Dio alla coscienza umana, e quindi la prima rivelazione di Dio all'essere umano. L'essere umano si interroga perché egli stesso si sente "interrogato" dal suo Fondamento. L'uomo si scopre infatti "responsabile" perché ha coscienza di dover rispondere del suo esistere, perché ha coscienza che il suo esistere non è "suo", ma gli è dato come vocazione e compito e, quindi, come responsabilità. Al fondo del suo domandare l'essere umano percepisce (anche se in modo non sempre chiaramente esplicito) la presenza di Qualcuno che lo interroga, e lo interroga perché è Lui che gli ha dato il dono di esistere: dono gratuito sì, ma nello stesso tempo anche compito inevitabile. L'essere umano scopre che deve esistere, deve realizzare la sua esistenza, e di ciò egli ne è responsabile. Al punto che, se anche decidesse di non esistere, eliminandosi onticamente e moralmente dal piano dell'esistere, questa sua scelta sarebbe già una risposta alla chiamata all'esistenza e al suo senso. Sarebbe una risposta negativa sì, ma pur sempre una risposta che lo rende responsabile e quindi passibile dei suoi risultati.
In conclusione, il domandare, l'interrogare e il cercare appaiono essere la caratteristica fondamentale dell'essere umano in quanto tale, ma essi rappresentano pure la chiamata divina a una responsabilità e a una scelta esistenziali. è sullo sfondo di tale orizzonte che il senso delle differenti religioni, e quindi anche dei loro cammini mistici, deve essere compreso.
Alla fine, è utile ricordare che l'idea dell'essere umano come "l'essere della domanda", o "l'essere in ricerca continua del senso del suo esistere", in una parola come homo viator, affiora in molti miti e leggende delle più diverse culture. Citiamo, a titolo di esempio, il famoso poema epico babilonese, Gilgamesh, uno dei più antichi testi letterali dell'umanità. In esso la problematica di fondo dell'esistenza umana è trattata in modo impressionantemente lucido. Gilgamesh si mette in cammino per cercare l'albero della vita immortale, ma alla fine questo gli è rubato, e a lui non resta che affrontare il destino finale di ogni essere umano: la morte.
2. Le domande esistenziali dell'umanità e gli orizzonti spirituali nel nostro tempo
2.1. La globalizzazione e le sue sfide
Il domandare esistenziale dell'essere umano è sempre mediato dal "momento storico" (kairòs) in cui egli vive. L'essere umano infatti appare un essere essenzialmente storico, mediato dalla situazione e dalle componenti storiche in cui si trova. La storia infatti non è un puro succedersi di momenti tutti uguali, come punti di una linea infinita, sempre la stessa. La storia invece è un processo esistenziale che avanza verso sempre nuovi orizzonti di comprensione attraverso i quali l'essere umano scopre sempre più se stesso, e quindi può o realizzarsi o distruggersi in modo sempre più totale. La storia umana progredisce sempre all'insegna di un'ambiguità di fondo tra successo e insuccesso, ambiguità che sarà sciolta solo nel suo esito finale. In tale processo storico ogni singolo essere umano è inserito, e solo in interazione con esso egli si può realizzare.
Si potrebbe anche notare che una tale contestualizzazione storica non è esclusiva dell'essere umano. Anche a livello fisico ogni impulso energetico, ogni particella di massa è necessariamente in relazione alla totalità dell'energia-massa. Ragione per cui si può dire che c'è un relativismo costituzionale fondamentale nel composto energia-massa, sia nel suo insieme che nelle sue parti costituenti. Il variare nel tempo del composto energia-massa fa variare inevitabilmente le relazioni fra i suoi singoli momenti. L'atomo misurato ora non è più quello misurato ieri dato che l'insieme di energia-massa ha variato da ieri a oggi. Un ipotetico ritorno alla situazione di ieri appare fisicamente impossibile, dato che le relazioni del composto energia-massa sono variate. Una vera e universale conoscenza dell'universo quindi dovrebbe prendere in considerazione tali varianti di energia-massa nel loro complesso e nelle loro particolarità. Ma è questo possibile? È possibile effettuare una misura globale del complesso energia-materia stando all'interno dello stesso complesso? Domande su domande, e le risposte sembrano essere sempre più aporetiche.
A ogni modo, da tutto ciò appare chiaro che il fattore "storia" ha un peso inevitabile e fondamentale per tutti gli esseri, ma in particolare per l'essere umano. La storia umana è infatti la storia della "domanda umana" o del "questionare umano", e cioè la storia del sorgere, del porsi e del superarsi della ricerca umana verso la sua piena autocomprensione e autorealizzazione. In una parola la vera storia umana è in realtà "la storia dell'autocomprensione e dell'autorealizzazione" dell'essere umano. Tale storia, come è stato detto, si svolge sempre sotto un'ambiguità di fondo. Questo perché l'essere umano non è un essere predeterminato e prefissato nel suo agire, ma un essere che può disporre sempre liberamente di se stesso, e che può sempre scegliere tra la sua autorealizzazione e la sua autodistruzione.
Ognuno di noi si trova quindi inevitabilmente immerso in un orizzonte storico determinato entro il quale si svolge la sua vicenda. Questo significa che noi da una parte facciamo parte dell'orizzonte dell'autocomprensione umana, ma dall'altra noi lo costituiamo pure, in un'interazione inestricabile. E questo orizzonte umano poi non è un dato statico, ma uno stato in variazione continua, in un continuo processo di "sorgere, porsi e autosuperarsi".
A questo punto è quindi importante mettere in rilievo alcuni tratti fondamentali dell'orizzonte culturale-esistenziale in cui noi viviamo nel nostro tempo attuale, nel nostro villaggio umano globalizzato, perché essi toccano da vicino il presente tema del dialogo interreligioso. Fra di essi tre sembrano avere particolare importanza sulla situazione spirituale del nostro tempo: l'affermarsi sempre più vasto del "marketing globale" o globalizzazione, con una conseguente massificazione culturale; il frantumarsi dei valori tradizionali in un "atomismo etico" sempre più accelerato; e infine il risorgere di vari tipi di "tribalismi culturali e religiosi" che mettono in forse la pacifica convivenza nel nostro villaggio globale.
a. Tra marketing globale e massificazione culturale...
L'epoca in cui viviamo è stata definita come l'era della globalizzazione, per il fatto che ora ogni barriera fra popoli e nazioni, culture e religioni sembra sparire. Questa nuova situazione ha senza dubbio degli aspetti positivi innegabili. Ora gli esseri umani si sono avvicinati e mescolati fra di loro a livello planetario come mai è avvenuto nella passata storia umana. Tuttavia tale fenomeno di globalizzazione ha anche degli effetti negativi e drammatici.
Uno di tali effetti negativi è l'estendersi e l'imporsi del marketing globale a livello planetario. Dopo il crollo delle passate ideologie totalizzanti, del marxismo in modo particolare, sul campo mondiale sembra sia rimasta una sola ideologia dominante: il neo-capitalismo liberale sostenuto dal suo centro propulsore, gli Stati Uniti d'America. Questo neo-capitalismo liberale tende ormai al dominio planetario, sotto-mettendo o estro-mettendo ogni forza contrastante, per creare uno spazio globale unificato in cui esso può esplicitare la sua dinamica interna: cioè, la libera concorrenza più sfrenata tendente al dominio assoluto del mercato globale. Questa politica del marketing globale è quella che detta legge al mondo di oggi, incurante dei costi umani che questo comporta. Siamo ormai al punto che i singoli stati nazionali si trovano impotenti a contrastare il potere sempre più preponderante e assoluto del capitalismo globale.
Una delle più vistose conseguenze di tale marketing globale, da tempo denunciata da molte parti, è la massificazione della cultura. La cultura umana, in tutti i suoi aspetti, è posta ora al servizio del marketing globale, come suo sostegno e giustificazione. Essa è posta alla mercé del terribile strumento della propaganda commerciale che da tempo ormai domina il nostro orizzonte culturale. Qualsiasi manifestazione culturale che non trova un livello di marketing nel consumismo globale è perdente. Ogni valore culturale per potersi affermare a livello mondiale deve essere necessariamente trasformato in "prodotto di marketing". Il linguaggio del marketing è entrato ormai in pieno in tutti i campi della vita umana, anche in quello religioso. Si parla ormai con molta disinvoltura del "mercato del religioso", regolato dalla legge della domanda e dell'offerta al pari di ogni altro prodotto. Le opere culturali antiche vengono riprese, riciclate e riprocessate in prodotti di marketing per poter essere riproposte al nostro villaggio globale, però totalmente svuotate del contenuto esistenziale-simbolico che esse avevano nel loro contesto storico originale. Il turismo di massa è un tipico esempio del modo con cui le culture antiche, cariche di tanti e profondi significati simbolici, sono state ridotte a puri oggetti di un "pacchetto commerciale" (così infatti sono chiamate le escursioni turistiche) da consumarsi nel modo più economico possibile. Miti antichi carichi di tanti valori simbolici (vedi i nomi di venerabili antichi dei quali Giove, Venere, Marte, o di illustri eroi quali Ercole, Alessandro Magno, ecc.) sono stati ridotti a marche di mercato per la commercializzazione di prodotti di consumo di massa. E questa è la nuova cultura che viene imposta a livello mondiale.
b. ... e atomismo etico-religioso...
Accanto alla massificazione culturale, nel presente marketing globale si assiste a una frantumazione sempre più radicale dei valori etici rappresentati dalle istituzioni tradizionali quali la famiglia, la chiesa, le varie forme di associazioni, ecc., valori che hanno sostenuto il cammino umano lungo tutta la sua storia. Ne emerge un essere umano frammentato, atomizzato, gettato nel mare del marketing globale, senza più principi interni di resistenza. Il singolo individuo si è sganciato da ogni punto di riferimento etico-religioso che non sia se stesso, il proprio interesse e la propria soddisfazione individuale. Egli rifiuta ogni regola e condizione che gli venga dall'alto o dal basso, dall'interno o dall'esterno. Egli vuole gestire la propria esperienza, essere legge a se stesso senza interferenze dall'esterno. Il principio del "fai da te" si è affermato ormai in tutti i campi, anche in quello etico-religioso. Siamo ormai a livello del self-service universale, principio che domina il mercato mondiale totale, anche quello religioso. Questo individuo assoluto, frammentato e atomizzato del tempo postmoderno, sembra essere il risultato estremo del soggettivismo o del "ripiegarsi del soggetto su di se stesso", tratto tipico del pensiero moderno.
Tuttavia, è stato notato da parecchi studiosi, che proprio questo individuo umano frammentato e atomizzato, fino al più estremo individualismo, è diventato il cliente più adatto e più manipolabile della società tecnocratico-consumistica del tempo postmoderno. Questo individuo isolato, che sembra onnipotente nel suo ambito individualistico, è in realtà un docile strumento in balìa della società consumistica, e completamente sottomesso alle sue richieste. Questo fatto può essere facilmente verificato nel nostro quotidiano, nei modelli di vita propagandati dai media che determinano tutte le nostre scelte. Del resto, una simile frammentazione e atomizzazione dell'essere umano, con la caduta totale dei tradizionali valori religiosi e etici, sembra costituire esattamente la premessa più appropriata (posta in atto coscientemente o no, questa è una questione cruciale da esaminarsi) per una progressiva e totale "robotizzazione" della nostra umanità.
Di fatto, appare abbastanza verosimile che un simile processo di frammentazione o atomizzazione individualistica non sia frutto del caso, ma sia direttamente manovrato in ultima analisi dai grandi "controllori" dell'economia mondiale e dai loro interessi. Le loro istanze sono diventate ormai da tempo le istanze supreme che guidano un processo sempre più globalizzante cui tutto deve essere sottoposto... e si sa bene quale lotta senza quartiere avviene nelle alte sfere dell'economia mondiale per il controllo del marketing globale, e di conseguenza per il controllo totale della società umana. In tal modo si realizza in pieno l'adagio sopra citato che bene esprime, a mio parere, la situazione drammatica in cui si trova la nostra umanità postmoderna: "L'uomo ha creato la macchina e si è trasformato a sua immagine e somiglianza". Le varie culture umane che da secoli hanno costituito la linfa vitale di tanti popoli e delle loro civiltà, cui hanno fornito le forze e gli ideali spirituali fonte della loro vitalità nelle più alterne vicende della storia, tali culture umane tradizionali vengono ora appiattite e assorbite in un unico modello mondiale di cultura standardizzata, creata apposta e imposta di proposito mediante un'asfissiante propaganda con il fine di mettere la società umana al servizio del "consumismo globale".
Tuttavia occorre dire che da un po' di tempo molti strati della società umana stanno prendendo coscienza che tale processo di robotizzazione consumistica spinto all'estremo sta portando a uno sfruttamento e a un depauperamento di tutto l'ambiente umano, non solo quello culturale ma anche quello fisico, a un grado mai visto prima nella storia umana. L'ambiente fisico viene sfruttato nel modo più vorace e devastante come fonte illimitata di risorse per l'attuale consumismo globale, senza alcun riguardo e rispetto per la natura e le reali capacità del nostro pianeta che sembra essere avviato a un stato di degrado, per molti aspetti ormai irreversibile e irrimediabile.
Assistiamo quindi a un processo di degradazione globale, quasi inevitabile, che alla fine sembra sfociare in una totale caduta di valori umani, facendo retrocedere l'umanità verso uno stadio che già a suo tempo il grande psicologo svizzero, Carl Gustav Jung (m. 1961), qualificava come "barbarie moderna". Con tale termine egli intendeva indicare dei comportamenti sub-umani che sembrano diventare sempre più una caratteristica dell'uomo della tecnologia consumistica moderna e postmoderna. Del resto basta girare per le giungle delle nostre metropoli, o guardare agli spettacoli proposti dai nostri media informatici, per verificare i segni evidenti di tale "imbarbarimento" progressivo che sta invadendo i quartieri del nostro villaggio globale. Massima tecnologia e imbarbarimento umano sono termini che sembrano coniugarsi facilmente assieme, e non termini antitetici e contraddittori, come una superficiale propaganda "scientifica" vuole far credere.
c. ... e il risorgere di nuovi "tribalismi" etnici, culturali e religiosi
D'altra parte, come reazione a tale atomismo etico individualista della nostra umanità globalizzata, e nello stesso tempo come rifiuto delle ideologie assolutiste che hanno dominato la nostra storia recente, sembra che sia in atto in molte aree umane del nostro mondo globalizzato un ritorno a ciò che possiamo qualificare come un nuovo "tribalismo religioso-culturale". Mediante tale "tribalismo" molti gruppi umani cercano di conservare o riprendere il senso della propria identità, ricuperando i propri valori culturali tradizionali che sono minacciati dalla crescente massificazione culturale in atto.
Il noto politologo americano, Samuel Huntington, in un articolo, divenuto poi un libro famoso dal titolo Scontri di civiltà, ha da tempo avvertito che i futuri scontri fra i gruppi umani non saranno più basati su ideologie globali, totalizzanti come in un passato recente, ma sul ritorno ai valori culturali e religiosi che formano la base dei grandi gruppi umani. Con il tramonto delle grandi ideologie mondiali, come il marxismo e vari tipi di nazionalismo, che hanno dominato la scena mondiale dei secoli XIX e XX, ora i gruppi umani tendono sempre più a ritrovare la propria identità ritornando alle proprie origini culturali e religiose e recuperando i valori del proprio passato. Tale ricupero dei valori tradizionali è in se stesso un fenomeno positivo. Tuttavia si può facilmente notare che quando tale auto-indentità viene vissuta in modo "tribale", cioè in uno spirito di esculsività e di ostilità verso gli altri gruppi e le altre culture umani, essa diventa la fonte di nuovi "tribalismi culturali e religiosi". E questi a loro volta, quando sono uniti da forti interessi politici ed economici, diventano facilmente fonti di scontri e guerre feroci, con conseguenze catastrofiche e imprevedibili, come molta storia recente dimostra. Si pensi ai conflitti culturali-religiosi che hanno devastato recentemente, e continuano a devastare tuttora, tante regioni del nostro pianeta quali la Yugoslavia, molti paesi dell'Africa, l'Indonesia, l'Afghanistan, l'Iraq, ecc. Di fronte a conflitti così devastanti, diventa imperativo sempre più urgente per tutti prendere e far prendere coscienza delle correnti tribaliste che li alimentano sconvolgendo la vita del nostro villaggio globale, e quindi della necessità di impegnarsi tutti insieme per un loro superamento.
Anche qui, credo, il ruolo delle religioni è determinante. La religione infatti rischia di essere catturata nel gioco tribale della presente umanità "globalizzata", come nel passato lo fu per i vari tipi di imperialismo che hanno dominato la storia umana. Nella presente umanità "globalizzata" infatti le guerre non si scatenano più fra villaggi diversi come nel passato, ma in modo non meno feroce e devastante fra i quartieri e le strade dello stesso villaggio globale. È importante quindi che ogni religione prenda coscienza del pericolo di essere strumentalizzata dalla violenza tribale, e conseguentemente operi per un superamento dei propri tribalismi culturali, riprendendo le ricchezze di saggezza che ogni tradizione tradizione religiosa contiene.
È stato spesso ripetuto (vedi il programma per un'etica globale da tempo proposto dal teologo tedesco Hans Küng) che non ci potrà essere pace fra i popoli se non c'è prima pace fra le religioni. Le religioni dell'umanità sono chiamate quindi a trovare e a sostenere i principi di un comune "umanesimo globale" su cui fondare e costruire rapporti di convivenza pacifica fra i popoli superando i demoni dei vecchi e nuovi tribalismi. Una profonda conversione è quindi urgentemente richiesta da tutti, conversione che deve partire dalla base, cioè da ogni singolo individuo, per allargarsi poi a tutti i gruppi umani. Infatti sembra abbastanza evidente che non ci si può aspettare dei reali cambiamenti da parte delle strutture esteriori sociali, se i singoli individui che le compongono non sono coinvolti in prima persona in un processo di radicale cambiamento di mentalità.
Nel nostro villaggio globale grande importanza deve essere riconosciuta al quartiere islamico, sia per la sua storia passata che per la sua presenza attuale. Si tratta di più di un miliardo di persone in rapida e continua espansione a livello mondiale. Il quartiere islamico è agitato da potenti spinte fondamentaliste ed estremiste che minacciano la pacifica convivenza con gli altri quartieri. Appare quindi estremamente importante fare in modo che tale quartiere diventi esso pure parte positiva e costruttiva per una convivenza pacifica con gli altri quartieri del villaggio globale, superando i demoni del tribalismo religioso che lo sconvolgono. Questo deve diventare uno degli scopi più importanti e urgenti dell'attuale dialogo interreligioso.
2.2. Il pluralismo religioso e le sue istanze
Accanto alle sfide dell'attuale globalizzazione, l'umanità vive in un orizzonte esistenziale più vasto e antico, quello del "pluralismo religioso". Anche questa è una realtà storica che inevitabilmente pone delle istanze con cui ogni religione è chiamata a confrontarsi, senza alibi.
Molti sono gli interrogativi che sorgono di fronte alla realtà del pluralismo religioso. Questo fatto, è da considerarsi positivo o negativo? È conciliabile o no con la coscienza dell'identità propria di ogni singola religione e di ogni singolo credente? Il pluralismo religioso deve portare necessariamente a un relativismo religioso, e in fondo all'indifferenza religiosa (secondo il detto comune: "tutte le religioni sono uguali!"), oppure è possibile una presa di posizione più responsabile? Quale cambiamento di mentalità dovrebbe comportare una simile posizione? E molti altri simili interrogativi. Espongo qui brevemente alcune linee di risposta ad alcune delle istanze che, a mio parere, il fatto del pluralismo religioso necessariamente pone.
a. Un fenomeno positivo o negativo?
È un dato di fatto che nella storia umana noi non troviamo "la Religione" (intesa come una religione assolutamente chiara, evidente, unica per tutti), ma "molte religioni". L'umanità si è trovata fin dal suo inizio in una situazione esistenziale costituita da una pluralità di religioni, e non da una sola. Il pluralismo religioso quindi è un dato di fatto della storia umana. E, occorre ben sottolineare, i "dati di fatto" della storia non possono essere ignorati, ma sono lì per sfidare la nostra apertura verso il reale, la nostra capacità di comprensione di esso così com'è, e non come noi vorremmo che fosse secondo sogni e inclinazioni personali. Quest'ultima posizione è in fondo molto infantile e semplificatrice. Occorre prendere atto della realtà storica così com'è senza alibi, e cercare un senso che la illumini. Questa è la prima sfida che il pluralismo religioso pone a tutte le religioni.
Si può pure sottolineare il fatto che la pluralità delle religioni rappresenta un problema proprio per chi, come il cristiano, il musulmano e altri, credono nell'esistenza di una "rivelazione assoluta" nella storia umana, di una rivelazione cioè che non è semplicemente un accumulo casuale, e in fondo contingente, di opinioni religiose, ma un'indicazione precisa sul destino umano proveniente dalla sua Origine Prima e dal suo Fondamento Assoluto: Dio stesso. Questo è un fatto della massima importanza. La religione infatti non tocca semplicemente la periferia dell'essere umano, come altri campi umani quali la politica, l'economia, l'arte, ecc., nei quali la molteplicità di opinioni è non solo desiderabile, ma necessaria. La religione tocca il nucleo fondamentale dell'esistere umano, là in cui si tratta del senso definitivo della sua esistenza, e quindi della sua salvezza o dannazione. Essa si pone là dove l'essere umano è chiamato a prendere posizione di fronte all'Assoluto, e quindi a prendere una posizione assoluta di fronte all'esistenza. Per questo motivo il pluralismo religioso ha sempre posto e continua a porre dei grossi interrogativi a tutti, ma in particolare proprio a quelli che hanno a cuore "il fatto religioso", non come semplice fatto culturale, contingente, ma come senso del destino ultimo dell'essere umano in generale, come pure di ogni essere umano in particolare.
Sotto la spinta di tale preoccupazione, più o meno conscia, lungo tutta la storia umana sono sorti molti tentativi di unificare il "fatto religioso" per dare un senso a una storia che, a prima vista, appare frastagliata, molteplice, contraddittoria e senza senso. Molte religioni infatti lungo la storia umana hanno cercato di ridurre il fatto del pluralismo religioso ai propri termini, affermando che in fondo tutte le religioni esprimono un'unica verità (coincidente evidentemente con quella della propria religione), anche se espressa in termini differenti secondo le varie culture in cui ogni religione si è sviluppata.
Nella tradizione induista, ad esempio, si parla volentieri della "religione o legge perenne" (sanâtana dharma), coincidente evidentemente con l'induismo, di cui tutte le altre religioni non sarebbero che delle espressioni regionali, limitate secondo un determinato ambiente culturale. Anche il buddhismo parla della "quiddità o essenza del Buddha" o della "buddhità", come di una realtà fondamentale, presente in tutti gli esseri umani almeno in stato latente, realtà che ogni religione in un modo o in un altro cerca di fare venire alla luce, alla piena coscienza. L'islam dal suo canto ha elaborato l'idea della "religione naturale" (dîn al-fitra), come la religione originaria e pura (coincidente evidentemente con il monoteismo islamico) prima di ogni corruzione avvenuta nel seguito della storia umana. In particolare in alcuni sufi, come al-Hallâj (m. 309/922) e Ibn 'Arabî (m. 638/1240) e altri, ricorre spesso l'idea dell'"unità delle religioni" (wahdat al-adiyân), idea secondo cui tutte le religioni esprimerebbero fondamentalmente lo stesso messaggio dell'Unità Divina di cui l'islam ne è, ben inteso, la formulazione più esplicita, chiara e definitiva. Anche alcuni padri della chiesa, come Giustino (m. 163) e Agostino, hanno parlato del cristianesimo come della "religione prima o naturale", quella che è stata data all'inizio all'umanità, prima che fosse corrotta nelle varie superstizioni storiche.
Come si può vedere la pretesa di essere la "religione assoluta" non è un tratto tipico del solo cristianesimo, come molte volte viene affermato in modo superficiale anche da parte di molti studiosi di religione. La pretesa di essere la "religione assoluta" appare essere un tratto comune a tutte le grandi religioni mondiali che abbiano un minimo senso della propria identità.
In epoca più recente da parte di molti teologi cristiani vari tentativi sono stati fatti per elaborare degli schemi o dei paradigmi religiosi in cui il fenomeno del pluralismo religioso potesse essere in qualche modo inquadrato. Si è parlato di "esclusivismo" (Karl Barth, Hendrik Kraemer), secondo cui ci sarebbe una sola religione storica vera, ben inteso il cristianesimo, mentre tutte le altre sarebbero false, frutto della corruzione e della hybris umane. Si è parlato di "inclusivismo" (Karl Rahner, e molti teologi cattolici), secondo cui tutte le religioni avrebbero una loro validità derivata da una di esse, ritenuta come l'assoluta e la normativa per tutte, e questa sarebbe ben inteso il cristianesimo. Si è parlato di un "pluralismo" in chiave riduttiva (John Hick, Paul Knitter e molti teologi delle chiese riformate), secondo cui non esiste una religione assoluta nella storia umana, ma tutte le religioni storiche sarebbero ugualmente valide come espressioni particolari e relative di un teocentrismo di base, comune a tutte. Quest'ultimo si differenzierebbe nella sua formulazione secondo i contesti culturali diversi, per cui mentre i cinesi parlano di Tao, gli indiani parlano di Brahman, gli ebrei di Yahweh, e i cristiani di Dio Padre di Cristo, i musulmani di Allâh, ecc. Ma la realtà intesa sarebbe alla fine unica.
Ora però molti studiosi mostrano un certo grado di scetticismo riguardo a questi "schemi o paradigmi teologici" pre-costruiti. Ci si è accorti infatti che ogni schema è insufficiente a inquadrare tutta la ricchezza delle realtà delle varie tradizioni religiose. Il fenomeno religioso è una realtà troppo complessa per essere ridotta a degli schemi astratti in cui nessuna religione in realtà si riconosce pienamente.
In conclusione, il pluralismo religioso rimane una seria sfida per tutti, soprattutto per coloro che intendono avere una comprensione realistica della storia religiosa dell'umanità, senza sconti né riduzioni. I vari tentativi fatti per ridurre tale fenomeno o a un puro prodotto negativo della malvagità umana, o a uno medesimo contenuto minimale, si sono dimostrati insoddisfacenti. Dal punto di vista cristiano si nota che la teologia cristiana comincia ora a prendere più sul serio il fatto storico del pluralismo religioso cercando di vedervi una "volontà positiva e provvidenziale" di Dio per l'umanità. Pur mantenendo la visione dell'assoluta centralità di Cristo, la teologia cristiana sente che non è più ragionevole, anzi è contro la sua fede in Dio come amore assoluto, trascurare la massiccia presenza storica delle altre religioni, o considerarla un fatto puramente negativo. I due dati di fede, cioè la centralità di Cristo e l'universalità dell'amore di Dio, vanno affermati insieme e non negati in un concordismo amorfo. Tuttavia, nonostante molti seri tentativi di riflessione fatti su tale questione (vedi in particolare l'opera di Jacques Dupuis, m. 2005), non pare che ci sia in vista una soluzione teologica soddisfacente di tale problema. Siamo ancora in una fase di ricerca, e la presente ricerca intende dare un contributo per fare dei passi in avanti.
b. Tra identità e alterità
Parlando del "fatto religioso", occorre mettere in chiaro che in tale campo non si dà in realtà un punto di vista assoluto, necessariamente riconosciuto da tutti, entro cui tutti gli altri possono essere inquadrati. Ogni punto di vista nel campo della religione, anche quello che si pretende il più universale e assoluto e che cerca di ridurre tutte le differenze a un minimo comune denominatore su cui tutte le religioni possano convergere (come il teocentrismo riduttivo proposto da John Hick, Paul Knitter e altri), anche un tal punto di vista è e rimane pur sempre un punto di vista "particolare". Esso si pone come una nuova visione religiosa dell'umanità accanto ad altre visioni religiose prima e dopo di essa. Il difetto fondamentale di una simile visione riduttiva è che in essa ogni religione si trova "stretta", mutilata e privata di alcuni dei suoi elementi essenziali, senza dei quali essa non si riconosce più come tale. Infatti, come può l'induismo riconoscersi tale senza il riferimento fondamentale ai Veda e ai suoi dei? E il buddhismo senza il riferimento all'esperienza di Buddha? E il cristianesimo senza il riferimento alla singolarità della persona di Cristo? E l'islam senza il riferimento alla figura di Muhammad e al Corano? E così via. Non è con il ridurre le differenze che si facilita un vera comprensione fra le differenti religioni. Non è facendo collassare il Brahaman dell'induismo, il Tao del taoismo, il Buddha del buddhismo, lo Yahweh della Bibbia, il Dio Padre di Cristo, l'Allâh del Corano in un sola e generica idea del Divino, o del Divino Indistinto, come preferisco dire, che si facilitano i rapporti di comprensione e di dialogo fra le varie religioni. Anzi, in tale visione riduttiva ogni religione si sente mutilata e, in fondo, tradita e falsificata in un generico concetto del Divino, Divino Indistinto o Indistinto Divino, ben lontana dall'esperienza specifica di ognuna di esse.
Al contrario occorre prendere le "differenze" religiose in tutta la loro serietà, nel loro pieno e profondo significato; solo allora ci si mette sulla via del vero incontro interreligioso. Sembrerebbe lapalissiano, ma spesso si trascura di considerare il fatto che un vero dialogo suppone dei partner realmente diversi, e non degli omologati, tali (coscienti o no) fin dall'inizio. I vari tentativi infatti di fondare un dialogo interreligioso sulla riduzione delle differenze dell'"altro" in un concordismo superficiale e riduttivo, non sembrano avere, alla prova dei fatti, un solido fondamento teorico, né hanno portato a dei risultati concreti interessanti.
Occorre quindi affermare le diversità fra le religioni. Occorre riconoscere che ogni religione ha il diritto alla propria identità irriducibile. Anzi si deve dire che è proprio nell'assumere l'"alterità" dell'"altro" in tutta serietà e senza alibi, che uno arriva a comprendere la sua propria identità in modo sempre più profondo e vero. Alterità e identità non si escludono né si elidono necessariamente, anzi esse si richiamano e si rafforzano a vicenda. La comprensione di sé non è cancellata, anzi è amplificata e approfondita attraverso l'apertura all'altro, al diverso. Occorre quindi avere uno sguardo più olistico dell'esperienza religiosa, e non un pregiudizio relativista e riduzionista di essa.
A tale proposito, occorre pure sottolineare che, contrariamente a quanto opinioni assai diffuse fra gli studiosi del fenomeno religioso vanno affermando, l'esperienza religiosa non può essere considerata né ridotta a un quid indifferenziato (astratto, quasi sussistente in sé), un quid che verrebbe poi specificato, configurato ed espresso in forme e modelli di linguaggi diversi presi dai differenti contesti culturali. L'esperienza religiosa non è l'esperienza di un "Divino Indistinto" che verrebbe poi chiamato con nomi che variano a seconda dei molteplici contesti culturali. Un simile "Divino Indistinto" o "Indistinto Divino" assomiglia troppo alla famosa hegeliana "notte nera in cui tutte le vacche sono nere". A un'analisi più acuta e approfondita appare chiaro che l'esperienza religiosa è fin dal suo primo costituirsi un'esperienza vitale, e come tale nasce sempre in un contesto determinato. Essa è come la vita che non esiste in modo astratto, generale, ma sempre in viventi concreti. La vita inoltre non è un dato statico, ma un'energia dinamica, in un continuo movimento di crescita e sviluppo, pena la morte. Allo stesso modo l'esperienza religiosa nasce in esperienze vive e concrete all'interno delle varie tradizioni religiose, ognuna delle quali ha una sua originalità irriducibile. L'esperienza induista non è quella buddista, né quella ebraica, né quella cristiana, ecc., e viceversa. È partendo dal proprio contesto vivente che ogni esperienza religiosa deve cercarsi, progredire e ampliarsi, aprendosi infine alle altre esperienze religiose differenti dalla propria. Ed è proprio questo aprirsi al diverso che è il segno della sua vitalità e che dimostra che essa è un fenomeno vivo, non statico, o morto. E non c'è dubbio che il dialogo rappresenta uno degli ambienti più importanti per tale crescita, come pure esso è uno dei segni più significativi della sanità di una vera esperienza religiosa. Un'esperienza religiosa incapace di vero dialogo con le altre rischia di essere un'esperienza molto limitata, chiusa in se stessa, malata di infantilismo.
D'altra parte occorre pure mettere in chiaro che prendere sul serio l'alterità dell'altro senza riduzioni non significa chiudersi in una incomunicabilità reciproca. L'altro, pur essendo diverso, non è il totalmente estraneo e straniero, alla fine incomprensibile. Ogni esperienza religiosa è necessariamente anche esperienza umana, che si colloca all'interno di uno stesso orizzonte epistemologico umano, determinato dalle grandi linee onto-epistemologiche della nostra comune umanità (la specie umana), del nostro comune ambiente esistenziale (l'universo) e del nostro comune orientamento verso lo stesso destino ultimo (la trascendenza verso l'Assoluto). Tutte le esperienze religiose si collocano in tale orizzonte umano comune di cui intendono esserne una lettura, un'interpretazione e una esplicitazione. C'è sempre quindi abbastanza spazio umano e spirituale in cui i credenti delle varie religioni possono muoversi gli uni verso gli altri, incontrarsi e camminare insieme verso la loro meta ultima in uno sforzo comune di apertura e di comprensione. Gli interrogativi umani ricordati nel Preambolo al documento Nostra aetate possono essere letti e compresi appunto come un'indicazione di tale orizzonte umano comune a tutte le religioni. Ogni religione si colloca di fatto, e ora più che mai lo deve fare in modo cosciente, all'interno di tale comune orizzonte umano storico-esistenziale. Ed è proprio nell'incontro con esperienze religiose diverse dalla propria che ogni religione deve trovare, o a ritrovare, la propria identità più profonda e reale.
Il pluralismo religioso, dato di fatto della storia religiosa dell'umanità, costituisce quindi l'orizzonte ineliminabile di ogni vera esperienza religiosa. Esso appare inoltre come la vera garanzia della libertà umana proprio nelle sue scelte fondamentali: il campo delle scelte religiose. Ora poi, nell'epoca moderna e post-moderna, tale orizzonte pluralista si è ulteriormente complicato in un pluralismo culturale in cui la religione ne occupa solo una parte. Ma questo è un argomento che richiederebbe una trattazione più ampia e specifica.
A ogni modo, è all'interno di tale ineliminabile orizzonte pluralista che ogni religione è chiamata, ora più che mai, a trovare o ritrovare la propria identità in un rapporto positivo con l'alterità dell'altro. Se la mia identità nega l'alterità dell'altro, essa si rivelerà alla fine non una vera identità, ma una chiusura ombelicale, o diciamo pure tribale, nel mio particolare mondo religioso. La mia identità è veramente tale se essa dà senso all'alterità dell'altro. Occorre quindi conoscerci nella nostra diversità e accettarci nella nostra pluralità, e lì creare momenti di dialogo, di conversazione e di scambio.
Come cristiano, ad esempio, debbo dire che la vera identità della mia fede in Cristo non consiste nel vedere in tutto ciò che è non-cristiano "tenebre e male", riducendo Cristo alla fine a essere una candela solitaria che brilla nelle tenebre del mondo. Questa è, a mio parere, una visione molto riduttiva della realtà di Cristo. Basta infatti una piccola candela per illuminare delle tenebre assolute. La mia fede cristiana invece mi porta a riconoscere Cristo che fin dall'inizio della creazione è "la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo" (Gv 1,9). Questo significa che in ogni persona umana c'è la luce di Cristo. Le luci quindi che trovo nelle altre religioni, sono luci reali, e non tenebre. E nella mia visione di fede esse sono tali proprio per la luce di Cristo che le illumina. Cristo quindi è "la luce del mondo" (Gv 8,12), non perché annulla tutte le altre luci, riducendole a tenebre, ma perché Egli ne è la conferma e la valorizzazione: Egli è la loro origine e il loro fondamento. Egli è in realtà "la luce vera e immensa che risplende sopra tutte le luci", e non una candela solitaria che splende nelle tenebre. In questa visione possiamo meglio comprendere quello che il documento Nostra aetate afferma, posizione ripresa pure da un altro importante documento ecclesiale Dialogo e Annuncio, e cioè che in Cristo "tutto ciò che è vero e santo in tutte le religioni viene accettato, confermato e portato a compimento". Questa è infatti la logica della teologia dell'incarnazione: "Il Logos assume, purifica e glorifica la natura umana"; come esso è pure la logica fondamentale della grazia: "La grazia perfeziona e non distrugge la natura".
Solo in una visione del genere le varie esperienze religiose possono essere positivamente accolte e viste nel piano della provvidenza divina. Accettate in tale prospettiva, esse faranno crescere tutti verso una verità più comprensiva, frutto non di uno schema precostituito, ma di una verità che rimane sempre aperta alle sorprese dell'Assoluto. L'Assoluto infatti come tale (e questo pure dovrebbe essere lapalissiano) non può essere concepito come un dato statico, ma proprio in quanto Assoluto egli è anche sempre la Novità assoluta e imprevedibile. Egli è il sempre Trascendente, come Colui che sempre trascende ogni limite, ogni schema, ogni formula, ogni definizione. Egli è pure il sempre Veniente, come Colui che sempre oltrepassa ogni situazione limitata, creando realtà sempre nuove: "Io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21,5).
Occorre quindi entrare in un rapporto positivo con le altre religioni. All'atto pratico dell'incontro dialogico si constaterà che oltre alle differenze c'è ampio spazio umano e divino, occorre dire, per un incontro, una mutua comprensione e scoperta, e infine un arricchimento reciproco. Alla fine ci si scoprirà tutti nella nostra dimensione umana fondamentale, come "pellegrini dell'Assoluto", in cammino verso di Lui, meta ultima del nostro pellegrinare umano, Colui che nessuno può pretendere di possedere, ma che chiama tutti a Sé per essere Lui stesso "tutto in tutti" (1Cor 15,28).
c. Il futuro della religione o la religione del futuro: quattro istanze fondamentali per le religioni del nostro tempo
Finora abbiamo considerato la situazione religiosa del nostro tempo alla luce di due orizzonti di comprensione che la determinano: l'orizzonte della globalizzazione e quello del pluralismo religioso. Da queste considerazioni emergono, a mio parere, alcune istanze fondamentali con cui ogni religione è chiamata a confrontarsi se vuole rispondere alle richieste del contesto spirituale contemporaneo.
Queste istanze possono essere riassunte in quattro punti: ogni religione è chiamata a rivisitare il senso originario del suo messaggio fondante, a confrontarsi seriamente con la modernità e le sue istanze critiche, a mettersi in un dialogo significativo con le altre religioni, e infine a impegnarsi seriamente per la giustizia in un mondo che rischia di divenire sempre più disumano. Esaminiamole brevemente.
I. Rivisitare il proprio messaggio originale
Ogni grande religione nasce da un'esperienza fondante e, su tale base, essa si ritiene portatrice di un messaggio che è capace di trasformare la vita delle persone che lo accettano. Tale esperienza originaria e originante, o, meglio, l'attualizzazione continuamente rinnovata del suo messaggio fondante, ha costituito la forza portante di ogni religione lungo la sua storia. Si pensi all'esperienza di Buddha per i buddhisti, all'incontro con la persona di Cristo per i cristiani, alla rivelazione coranica per i musulmani, ecc. Questi messaggi religiosi hanno dato motivo di vita e di speranza a milioni e milioni di persone, costituendo per esse la ragione più profonda della loro esistenza.
Tuttavia, lungo la storia tale messaggio originale è stato letto, interpretato e applicato in vari modi. Questi possono essere stati dei legittimi sviluppi e approfondimenti di esso, ma molte volte possono essere, e di fatto sono stati, delle deviazioni, dei compromessi o degli oscuramenti del suo senso primo. Per questo motivo tutte le religioni, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, sono state, e sono incessantemente attraversate da movimenti di "riforma", di "rinnovamento", con appelli urgenti per un ritorno al senso originario del messaggio fondante. Una domanda fondamentale si impone inevitabilmente a ogni tradizione religiosa: qual è la sua esperienza fondante o, se si vuole, il suo messaggio originale? Quanto di tale esperienza fondante o di tale messaggio originale è ancora vivo e valido nella realtà presente di tale religione?
Una simile domanda non può essere evitata, soprattutto nel contesto attuale dell'umanità globalizzata in cui ogni tradizione religiosa è messa a stretto contatto e confronto con le altre tradizioni religiose. La semplice ripetizione della tradizione passata non può essere una soluzione soddisfacente e durevole. Una posizione del genere non può che condurre a chiusure spirituali e culturali tipiche di molti movimenti fondamentalisti che attraversano le comunità religiose del nostro pianeta, fondamentalismi che diventano un fertile terreno per gli estremismi religiosi più violenti. Questi, come è stato detto, costituiscono i moderni "tribalismi religiosi" fonte permanente di tensioni e di conflitti nel villaggio globale umano.
Credo quindi si possa tranquillamente riconoscere che ogni grande tradizione religiosa è portatrice di un nucleo originale, caratteristico, proveniente dalla sua esperienza fondante. Tuttavia, tale nucleo deve essere continuamente ripreso, rivisitato e ri-attualizzato con un accostamento serio e critico alle sue fonti e alla sua storia. In caso contrario, ogni religione rischia di fossilizzarsi facilmente in strutture legaliste, esteriori e ripetitive, gusci vuoti senza vita.
II. Confrontarsi con la modernità
L'uomo è un essere storico, necessariamente implicato in un processo di evoluzione attraverso tappe non ripetibili che lo conducono in avanti, verso una meta ultima, che, se pur non sempre chiara alla sua coscienza, è però in qualche modo sempre pre-sentita nella profonda inquietudine del suo cuore.
L'uomo contemporaneo è l'uomo che ha fatto un'esperienza fondamentale di maturazione della ragione umana. Il passaggio all'epoca moderna ha significato l'acquisizione di una più chiara visione critico-scientifica di sé, della propria storia e del mondo attorno a lui, liberandolo da una visione mitologica di essi. Questa è stata l'esperienza fondamentale dell'illuminismo europeo. Questa nuova visione critico-scientifica, pur non esaurendo tutto il senso dell'esistenza umana (e in tal senso si parla anche di un fallimento del razionalismo illuminista totalizzante) non può più essere accantonata come non avvenuta. Anzi, tale visione è destinata a perfezionarsi e a crescere sempre di più, completandosi e integrandosi con le altre dimensioni dell'essere umano, quella religiosa in primo luogo.
Una religione che voglia vivere nel mondo presente non può più (come da tempo affermano i pensatori più acuti del mondo moderno) fermarsi a una visione mitologica della realtà, una visione fondata su di una percezione a-scientifica o pre-scientifica dell'universo e della sua storia. In molte correnti religiose contemporanee c'è come un desiderio di regressione infantile a un mondo fatto di "fate e folletti", in cui si trova una facile contentezza in una realtà semplificata... in soluzioni miracolistiche, quasi magiche, soprattutto quando le cose toccano da vicino la nostra pelle...! Tale atteggiamento infantile, segno di una immaturità della ragione, fa ancora grande presa anche su molte persone delle nostre società scientifiche e tecnologicamente avanzate, come molti studi e statistiche dimostrano.
Appare chiaro quindi che ogni religione deve uscire ora da un simile infantilismo fideista, pena uno scontro sempre più amaro con la realtà. Alcuni dei moventi del fondamentalismo religioso contemporaneo, fondamentalismo che attraversa molte religioni contemporanee, l'islam in particolare, credo possano essere fatti risalire a un tipo di regressione infantile alla ricerca di una sicurezza semplificatrice, non problematica. La prova ne è che, come molti episodi di attualità dimostrano, quando tale sicurezza infantile è minacciata la violenza esplode nel modo più irrazionale e devastante, frutto di una paura latente.
Il confronto con la modernità costituisce quindi un'altra delle istanze di fondo con cui ogni tradizione religiosa deve confrontarsi, se vuole diventare parte positiva del "villaggio globale" umano. La modernità non può essere più vista come un male assoluto da combattersi in tutti i modi, posizione questa che in un passato non lontano ha dominato in molte tendenze anti-moderniste all'interno della chiesa. Tale attitudine è riscontrabile pure in molte altre religioni, nell'islam in particolare. La modernità, secondo la definizione del filosofo tedesco Immanuel Kant (m. 1804), significa "il divenire adulta della ragione", quindi in se stessa rappresenta una crescita umana positiva, anzi necessaria. D'altro canto una fede è tanto più autentica e profonda quanto più è frutto di una scelta libera e razionalmente matura. Il male di molto razionalismo moderno è stato quello di aver voluto erigere la ragione umana a principio assoluto di tutto. Allora si sono scatenati estremismi razionalisti che hanno condotto l'umanità dell'epoca moderna a catastrofi terribili, come le due guerre mondiali combattute sotto l'egida dello scientismo moderno. Anche l'idolatria della ragione si rivela essa pure altamente irrazionale. Ogni religione nel nostro tempo postmoderno è chiamata quindi a trovare un equilibrio serio e fondato tra fede e ragione. Questa è una sfida per tutte le religioni del nostro pianeta.
III. Mettersi in dialogo con le altre religioni
Ogni religione si situa in un mondo che è ben più vasto del cerchio dei propri adepti. Prima, con e dopo di essa un numero incalcolabile di persone sono vissute sulla faccia di questo pianeta, hanno amato e sperato, poi sono sparite dal nostro orizzonte visibile. Un numero grandissimo di religioni sono state per tale numero incalcolabile di persone la sorgente, la speranza e il motivo del loro vivere, lavorare, amare e morire. Grandissimi valori di umanità, di cultura e di spiritualità si sono sviluppati all'interno delle varie tradizioni religiose, valori che sono stati la linfa vitale per le grandi civiltà umane del passato e che devono restare patrimonio comune a tutta l'umanità.
Considerare tutta questa storia umana come puramente negativa, insignificante od inutile, per il solo fatto che quelle persone con le loro credenze e le loro idee non fanno parte del nostro "gregge", del nostro "gruppo" o della nostra "nazione", ecc., sarebbe condannare gran parte della storia umana. Però in tal modo uno condannerebbe anche se stesso, perché si mutilerebbe di una parte di umanità che gli appartiene, dato che egli pure appartiene all'umanità.
Anche tale tendenza di condanna e rifiuto di tutto ciò che è "estraneo" rivela, a mio parere, un tipico atteggiamento infantile. Il bambino considera la propria casa, la propria famiglia come il "centro dell'universo", e tutto ciò che è estraneo ad esse diviene automaticamente "ostile", una minaccia al proprio mondo, minaccia da combattere ed eliminare.
Una religione che intenda prendere parte positiva nel "villaggio globale" umano deve superare tale atteggiamento infantile di diffidenza e condanna verso ciò che è "diverso". Pur affermando la propria verità, essa non deve eliminare la verità dell'altro. La religione del futuro dell'umanità non può più essere quella di un ghetto o di una setta, in una parola, una religione "tribale". Al contrario essa deve essere simile all'albero evangelico dove tutti gli uccelli del cielo possono venire per trovarvi rifugio e costruirvi il loro nido (cf. Mt 13,31-32). In questa religione tutti gli uomini possono trovare qualcosa che parla loro, che li illumina, se non altro a scoprire i valori più profondi e autentici della propria tradizione religiosa. Tale fu pure l'atteggiamento di Cristo. Egli, pur proclamando di essere venuto a "portare a compimento" la legge giudaica, ha affermato anche che nessuno "iota" (che è la più piccolo lettera dell'alfabeto ebraico) di tale legge sarà nullificato, intendendo che tutto ciò che in essa c'è di vero, buono e valido rimarrà nella sua "nuova legge". Tale dovrebbe essere quindi l'atteggiamento dei suoi discepoli verso il resto delle religioni del mondo.
Per questo motivo, un sincero atteggiamento di dialogo verso le altre religioni sembra essere, a mio avviso, un atteggiamento fondamentale per ogni religione che voglia divenire un fattore positivo nel villaggio globale umano. Oso dire che il santo di domani non potrà più essere il santo di una sola tradizione o cerchia religiosa, ma dovrà essere una persona che proclama una parola significativa per ogni tradizione religiosa e che viene da esse riconosciuto come tale.
Ma, a scanso di equivoci e delusioni, un vero dialogo interreligioso non può ridursi a platoniche dichiarazioni di buone intenzioni, ma deve essere frutto di un maturo accostamento critico alla propria storia e a quella degli altri per giungere a una vera e profonda conoscenza di sé e dell'altro. Solo su tale base ci potrà essere un vero scambio di esperienze e idee, e quindi un vero dialogo. Ogni religione è chiamata quindi a essere nel villaggio globale umano una religione in dialogo con le altre. Parafrasando un detto del noto teologo cattolico, Karl Rahner (m. 1984), il quale affermava che il cristiano di domani "o sarà un mistico (cioè uno che ha una reale esperienza di Dio) o non esisterà affatto", oserei dire che la religione di domani "o sarà una religione in vero dialogo con le altre o non esisterà affatto", forse perché si sarà trasformata o in pura ideologia umana, o in una setta, o in una religione "tribale", limitata a un chiuso cerchio di adepti.
IV. Impegnarsi per la giustizia nel mondo
Il dovere di impegnarsi per la giustizia fra gli esseri umani è scritto in chiare lettere in tutte e tre le religioni della tradizione abramitica: ebraismo, cristianesimo e islam. Ma esso trova pure sostegno nelle tradizioni delle altre grandi religioni dell'umanità. La sua pratica storica tuttavia ha avuto sempre dei punti oscuri e negativi in tutte le religioni; ogni religione ha avuto i suoi momenti di violenza... chi più, chi meno. Credo che nessuno, da questo punto di vista, possa dirsi innocente nella storia. Ora però l'impegno per la giustizia è divenuto un problema urgente e inevitabile per la stessa sopravvivenza della nostra umanità del "villaggio globale".
Da una parte, la coscienza moderna ha fortemente sviluppato il senso della dignità e dei diritti della persona umana, di ogni persona umana, come pure il rispetto della sua libertà a tutti i livelli (in particolare libertà di coscienza, di parola, di informazione, di associazione, ecc.), come pure il senso di uguaglianza fra tutti gli esseri umani. Questa nuova coscienza dei diritti umani, maturata nel mondo moderno anche attraverso tragici conflitti ed eventi, non può e non deve più essere rimessa in discussione. Infatti è in particolare contro tale coscienza della libertà e dignità della persona umana che sembrano concentrarsi gli attacchi dei vari tipi di tribalismo culturale e religioso che agitano i movimenti fondamentalisti moderni, quelli islamici in particolare. Questi infatti, quando riescono a prendere in mano le redini del potere, come negli stati fondamentalisti islamici, la prima cosa che fanno è quello di attaccare lo statuto dei diritti della persona umana e impedirne l'esercizio. Ma anche negli stati cosidetti liberali dell'Occidente secolarizzato ci sono vari tipi di manipolatori e di persuasori occulti che condizionano pesantemente la dignità e la libertà della persona umana nella società. I diritti umani infatti, questo sembra essere un dato storico ineludibile, non possono e non devono essere dati per scontati una volta per tutte; essi sono una conquista continua di ogni società umana, soprattutto quanto alla loro pratica.
D'altra parte, il processo di "globalizzazione" sta creando una situazione nuova in cui la persona umana è a rischio di essere manipolata e strumentalizzata in modi che non hanno precedenti nella lunga storia dell'umanità. La globalizzazione del mercato infatti non significa necessariamente giustizia e benessere per tutti, come un certo ottimismo global-capitalista, diffuso ancora in molti settori della politica e dell'economia mondiale, pretende. Non è vero il detto che: "La ricerca del profitto privato porta (come per magia!) al benessere di tutti", come ancora qualche sostenitore del puro liberalismo economico continua a proclamare? In realtà le statistiche del nostro "villaggio globale" parlano di un divario crescente fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri, e rivelano l'estendersi di una degradazione dell'umanità a tutti i livelli con il possibile rischio di un crollo dei suoi valori fondamentali fino alla sua quasi assicurata autodistruzione. Non solo, ma il progresso straordinario della scienza e della tecnologia fornisce all'essere umano, come individuo e società, dei poteri di manipolazione impensabili fino a pochi anni fa. Si pensi alla manipolazione genetica, e a tutte le sue possibili conseguenze. E questo è tanto più pericoloso per il fatto che tali manipolazioni vengono operate per lo più all'oscuro della coscienza pubblica (che viene in molti modi sistematicamente disinformata e manipolata) e al servizio di molti interessi occulti. Uno sguardo allo sviluppo della scienza nel mondo moderno mostra che non esiste la "scienza pura", dedicata al puro servizio del sapere e del benessere dell'umanità, esente da coinvolgimenti in interessi economici. Tale ideale illuministico, ancora sbandierato da molti nomi illustri della scienza contemporanea, si è rivelato un inganno e un'amara illusione. Uno sguardo obiettivo alla scienza moderna mostra che non c'è stato praticamente nessun scienziato che non si sia messo, volente nolente, a servizio di determinate ideologie politiche (si pensi alle ideologie del nazismo e del comunismo) o vari interessi economici (si pensi al sistema liberal-capitalista). Non esiste lo scienziato "puro", ma purtroppo sempre lo scienziato compromesso a livello umano in mille modi, e ora nel nostro villaggio globale messo a servizio dei grandi manipolatori del marketing mondiale.
Quindi, una religione che voglia essere un fattore positivo nel nostro villaggio globale deve essere una religione che prende seriamente a cuore la difesa dei diritti umani, della dignità di tutta la persona umana e di ogni persona umana, incominciando dai più deboli e sfruttati. Questo è un segno che il suo messaggio viene da veramente da Dio il quale, come si rivela in molti modi in tutte le differenti tradizioni religiose, è prima di tutto un Dio di "amore e misericordia", che ha a cuore il destino di tutte e di ognuna delle sue creature, soprattutto di quelle più deboli. Una seria e fattiva collaborazione di tutte le religioni in tale campo è non solo auspicabile, ma estremamente necessaria se vogliamo salvare l'umanità da un processo di disumanizzazione "globale", che sembra tendere, come è stato detto sopra, a una "robotizzazzione globale" dell'umanità, secondo il detto citato: "L'uomo creò la macchina e si trasformò a sua immagine e somiglianza". Anzi ora si può dire che la macchina è diventata il dio dell'umanità, e l'uomo il suo servo.
Tutte le religioni devono quindi impegnarsi seriamente per far sì che la globalizzazione non si limiti a creare un "marketing globale" per gli interessi delle grandi imprese capitaliste, ma che possa diventare una vera "umanizzazione globale" di tutti e come pure di ogni singola persona umana, per realizzare in tutti e al massimo grado possibile proprio la qualifica fondamentale di essere "umano". Il nostro villaggio globale potrà vivere in pace e prosperare solo se sarà guidato dall'ideale di un vero "umanesimo globale". Quindi un serio impegno per la giustizia nel mondo è pure una delle istanze più urgenti della nostra umanità, istanza che rappresenta una sfida per ogni religione del nostro tempo.
In fine, credo che solo quella religione che saprà rispondere in modo positivo alle quattro istanze proposte potrà rappresentare e divenire un fattore positivo nel nostro villaggio globale, e quindi avere un vero futuro, o, in altre parole, essere la "religione del futuro".
2.3. La mistica nell'orizzonte esistenziale dell'umanità contemporanea
Il dialogo interreligioso è un fattore estremamente importante per far fronte alle sfide e alle istanze che minacciano l'esistenza del nostro villaggio globale. Qui occorre aggiungere che tale dialogo deve avere il suo punto di partenza e di ritorno là dov'è il cuore dell'esperienza religiosa, cioè l'esperienza mistica.
a. La mistica come esperienza dell'identità umana
Il termine "mistico", con i suoi derivati, è stato ampiamente banalizzato nella presente cultura di massa imposta dal consumismo globale. Esso è stato ridotto il più delle volte a significare quanto c'è di più stravagante, illogico e banale a livello dello presente show consumista, al punto che si parla con tutta disinvoltura della mistica di prodotti come profumi, motori, sport, ecc. Il termine "mistico" nell'attuale massificazione culturale è spesso usato per indicare i fenomeni più strani e paranormali, come visioni, miracoli, e altre cose del genere.
È necessario quindi riportare il termine al suo senso vero, originario e profondo. A questo riguardo, senza ripetere quanto è stato detto altrove, tocco solo alcuni tratti del vero senso del termine.
Il termine "mistico", come si sa, deriva dal termine greco muô che significa tacere, soprattutto sui segreti dei misteri religiosi. In seguito è stato usato nel linguaggio religioso per indicare la realtà più profonda dell'essere umano, ciò che vi è in esso di più segreto e nascosto, non esposto né disponibile a essere manipolato dalla curiosità indiscreta e dagli interessi superficiali del pubblico. Il termine "mistico", nel suo senso più vero, significa infatti ciò che vi è di più reale nel più profondo del cuore umano, là dove l'uomo si incontra con l'Assoluto e con Lui celebra il suo incontro trasformante. Prendere sul serio tale dimensione fondamentale dell'essere umano, volerla verificare nel proprio esistere quotidiano, scommettere su di essa la propria vita, questo significa entrare nella dimensione mistica.
L'esperienza mistica, cuore dell'esperienza religiosa, è quindi anche il cuore dell'esperienza umana. La mistica infatti non è un astratto discorso su Dio, ma un incontro concreto con Colui che è il fondamento ultimo dell'esistenza umana, e quindi il suo senso e fine ultimo.
È stato notato che proprio tra lo scorcio del secolo passato e l'inizio del presente, il XXI, o se si vuole nel passaggio tra i due millenni, il secondo e il terzo, c'è stato un nuovo interesse ed una diffusa ricerca per il "mistico". Tale "ritorno di Dio", come è stato chiamato, è visto da molti come una conseguenza della delusione nei riguardi delle grandi ideologie mondiali che hanno dominato il tempo moderno, delusione che ha spinto verso la ricerca di qualcosa più vitale e personale. A tal riguardo si riporta di frequente una frase attribuita al noto intellettuale francese André Malraux: "Il secolo XXI o sarà mistico o non sarà". Egli ha inteso indicare nella mistica l'unica via per salvare la più profonda e vera identità umana.
b. La mistica come esperienza del Mistero divino
L'esperienza mistica si rivela un'esperienza altamente drammatica. In essa infatti si riassume e si concretizza il dramma radicale dell'essere umano. L'essere umano, come è stato indicato, è quell'essere chiamato all'incontro con il suo fondamento supremo e ultimo: Dio, il Mistero assoluto. Ma tale Assoluto, termine ultimo delle aspirazioni del cuore umano e meta ultima del suo pellegrinare nel tempo, si rivela in ultima analisi come ciò che vi è di più indispensabile e necessario all'uomo, ma nello stesso tempo anche come ciò che è più indipendente da Lui, perché Egli è Colui che può essere ricevuto solo come libero dono e pura grazia, al di fuori di ogni manipolazione umana. L'uomo infatti può incontrare l'Assoluto solo là dove questi si fa incontrare nella sua più assoluta libertà. Il dramma quindi della ricerca umana può essere riassunto nei seguenti termini: l'uomo è quell'essere che è alla ricerca del senso più profondo e reale del suo esistere, cioè di ciò che vi è di più indispensabile e necessario per lui, e tuttavia egli non può raggiungere tale meta né ottenere tale scopo se non come dono assoluto e pura grazia. Tale esperienza dell'Assoluto è al cuore di ogni vera esperienza mistica, e quindi di ogni vero mistico.
L'esperienza mistica, d'altra parte, ci porta a un livello che sta al di là di ogni chiara formulazione logico-razionale. Si tratta prima di tutto di esperienza, cioè di un accadimento personale, esistenziale, in cui la persona umana entra in contatto con il Mistero divino. In tale incontro, come le testimonianze dei mistici di tutte le religioni rivelano chiaramente, accadono cose "che nessun occhio umano ha visto e nessun orecchio umano ha udito"; mediante tale esperienza il mistico viene radicalmente trasformato. I mistici che hanno avuto una reale esperienza di Dio, come l'Assoluto, hanno sperimentato che tutti i limiti in cui le nostre esistenze umane sono immerse e incatenate, i limiti cioè del tempo e dello spazio, sono stati in un certo senso superati. L'esperienza mistica è un incontro con la Realtà Assoluta, Realtà che come tale non può essere né divenire possesso o dominio esclusivo di nessuno, né può essere costretta nei limiti di una cultura particolare. Al livello dell'esperienza mistica "solo lo Spirito è legge", dice il mistico spagnolo Giovanni della Croce (m. 1591); a tale livello l'essere umano si riveste degli "Attributi divini", dicono i mistici musulmani. In ogni caso i mistici parlano con un linguaggio che solo chi ha gustato la loro esperienza può capire, al di là delle formulazioni teologico-razionali. L'esperienza mistica infatti intende e deve essere esperienza concreta della Realtà assoluta, non un discorso astratto su di Essa, e solo quelli che hanno "occhi per vedere e orecchi per intendere possono capirla" (Mt 13,9).
La mistica quindi, cuore dell'esperienza religiosa, deve diventare il luogo privilegiato del dialogo interreligioso, base per un serio dialogo interculturale. Un dialogo interreligioso che non arrivi a una comunicazione al livello dell'esperienza spirituale è un dialogo ancora incompleto, monco. L'esperienza mistica infatti tende ad andare oltre la comprensione esteriore della legge anche rivelata e oltre le sue formulazioni teologico-razionali. Essa tende infatti all'incontro "faccia a faccia" con la Realtà Assoluta, al li là di tutti i limiti imposti dei vari tribalismi culturali e religiosi.
Naturalmente, prima di mettersi in dialogo, occorre avere una seria conoscenza dell'altro. Nel nostro caso occorre che uno abbia acquisito prima di tutto, con empatia e simpatia insieme, una conoscenza seria della realtà della mistica islamica o del sufismo. A tale scopo rimando a quanto ho scritto altrove su tale soggetto, accennando qui solo a tre tappe in cui, a detta dei sufi stessi, si struttura l'esperienza mistica nell'islam.
I. La legge (sharî'a). L'esperienza sufi parte sempre dalla legge divina, la sharî'a, che in quanto legge data da Dio alla comunità musulmana e che perciò non dovrebbe essere manipolata dagli uomini. Questo è il punto di partenza per ogni serio cammino sufi: nessuno può pretendere di essere sufi se non osserva la legge divina (sharî'a) rivelata da Dio. Questo è quanto viene affermato dai maestri sufi di tutti i tempi, contro una tendenza assai diffusa ai giorni nostri del "fai da te", cioè: fai il tuo personale cocktail spirituale.
II. Il cammino (tarîqa). Ma la legge è solo il quadro esteriore dell'esperienza mistica; il fedele è chiamato a realizzarne le realtà interiori e profonde intese da Dio, cioè a conformarsi alle "qualità divine", come dice un noto hadith, detto attribuito al Profeta dell'islam, Muhammad. Per sé, questo dovrebbe essere lo scopo ultimo della vita di ogni credente, ma in pratica esso può essere realizzato normalmente solo mediante un cammino particolare, il cammino mistico, detto in arabo "via" (tarîqa, termine con cui gli ordini sufi si designano), e questo deve essere compiuto sotto la guida di un esperto maestro spirituale (sheikh).
III. La Verità/Realtà assoluta (haqîqa). Però lo stadio finale di tale cammino non può essere uno stato di perfezione puramente umano, anche se spirituale. Questo sarebbe, a detta degli autori sufi più accreditati (come pure di tutti i grandi maestri spirituali delle altre tradizioni religiose), un tipo di idolatria (shirk), il peccato più condannato nell'islam. Il fine ultimo del cammino sufi non può essere che la Verità/Realtà suprema (haqq-haqîqa), cioè Dio stesso, termine ultimo di tutti i simboli e cammini religiosi. Il sufi quindi, in forza della sua chiamata interiore, deve passare dall'esteriorità delle forme all'esperienza personale interiore e viva, cioè al "gusto" (dhawq) della Realtà divina stessa, senso e scopo ultimo del suo cammino. La storia dimostra che molte volte questo cammino può portare il sufi a esperienze ed espressioni che sembrano contraddire la prima tappa, quella cioè della legge e delle sue formulazioni teologico-razionali. Questo conflitto, in cui la bianca rosa della via mistica dei sufi è stata sovente imporporata con il rosso del loro sangue, secondo una diffusa immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile del mistero dell'incontro di due libertà: quella dell'uomo e quella di Dio, l'Assoluto. Quest'ultima infatti è una Libertà che sempre sorprende e scandalizza quanti rimangono legati all'esteriorità della legge, dei suoi simboli e delle sue formulazioni razionali.
Con tali premesse intendo entrare ora nei campi in cui è possibile e, direi, doveroso l'incontro fra le varie esperienze mistiche, quelle del cristianesimo e dell'islam in particolare. Chiamo tali campi "spazi o luoghi di incontro", perché essi indicano delle problematiche che sono comuni a tutte le esperienze mistiche e cui queste sono chiamate a rispondere. Leggere la propria esperienza mistica in dialogo e scambio con altre esperienze simili è non solo utile, ma necessario anzi indispensabile nel nostro tempo. Incoraggianti tentativi in tale senso si possono trovare negli scritti di molte persone che da tempo hanno tentato, e continuano a tentare di percorrere il cammino di dialogo interreligioso a livello spirituale, convinti che questo deve essere il cammino di ogni religione e di ogni credente del nostro villaggio globale umano. Non si può vivere nello stesso villaggio ignorando le ricchezze spirituali degli altri suoi abitanti. Ricordiamo qui, a titolo di esempio, solo alcuni nomi di tali persone dialogiche, come il sufi e studioso musulmano Sayyed Hossein Nasr, il monaco benedettino Bede Griffith, e il monaco buddhista Thich Nhat Hanh. Insieme con essi tante altre persone si sono avviate sul cammino del dialogo spirituale fra le varie mistiche dell'umanità come dimensione essenziale di ogni spiritualità per il nostro tempo.
3. Spazi di incontro fra il sufismo e le altre mistiche
3.1. L'essere umano e la sua l'identità
Ogni esperienza mistica nel cristianesimo, nell'islam come pure nelle altre religioni, si presenta anzitutto come un'esperienza del "sé" umano, cioè di ciò che c'è di più vero e profondo nell'essere umano. I mistici sono stati da sempre dei grandi esploratori dell'interiorità umana. Essi sono i primi ad affermare che l'essere umano non è semplicemente una cosa fra le cose, e non può essere ridotto all'insieme dei suoi componenti fisio-bio-psicologici. L'essere umano ha delle profondità da cui scaturisce la sua vera identità, profondità indicate comunemente con il termine "anima" (psychê, nafs). Sondando le profondità dell'anima umana i mistici sono testimoni che questa è legata misteriosamente, ma realmente alla sua sorgente prima, l'Assoluto. L'essere umano è essenzialmente l'essere della trascendenza verso l'Assoluto: questo è l'illimitato, non-comprensibile e non-afferrabile, ma sempre presente Orizzonte di ogni attività umana in quanto tale, soprattutto nei suoi atti fondamentali di conoscenza, libertà e amore. Questo assoluto e illimitato Orizzonte è percepito dall'essere umano come il Mistero trascendente e santo verso cui il suo cammino è diretto.
L'essere umano è stato definito come "il pellegrino dell'Assoluto". Questa è la sua struttura ontologico-esistenziale che si manifesta in tutta la fenomenologia del suo comportamento. L'essere umano è quell'essere inquieto che nulla appaga. Egli è quell'essere che porta dentro di sé una domanda di senso che mai si esaurisce e che continuamente lo incalza: l'essere umano è l'essere destinato a trascendere se stesso. Il suo punto di riferimento è sempre un Orizzonte lontano, al di là di tutto ciò che da vicino lo circonda. Ma, pur lontano, quell'Orizzonte è una realtà che tutto avvolge e in tutto è presente. L'essere umano si sente inevitabilmente proiettato fra due abissi: o l'elevazione infinita o la caduta infinita. Egli infatti pur esistendo nei limiti del tempo e dello spazio, aspira continuamente a qualcosa che li trascende. Come crisalide prigioniera, egli tende a trasmutarsi in un essere nuovo e libero; come feto fragile e incompleto, egli si sente destinato a essere rigenerato in un essere adulto e perfetto. Sotto ogni punto di vista l'uomo è quell'essere che è mosso da un desiderio profondo, da una sete insaziabile, da una inquietudine radicale che nulla può appagare. E questo perché egli nel profondo del suo essere percepisce di essere orientato verso ciò che non ha limiti, l'Assoluto. Sia che tale desiderio affiori esplicitamente alla sua coscienza, sia che esso rimanga implicito nei suoi atti di conoscere, amare e decidere in libertà e responsabilità. Questi sono gli accenti, i desideri e le elevazioni che troviamo nei mistici di tutti i tempi. Questo è ciò che essi intendono quando parlano delle profondità della persona umana, della sua interiorità, della sua anima o del suo spirito (pneuma, rûh).
L'essere umano è quindi chiamato a passare per l'intima dinamica che lo muove dal finito all'infinito, dall'esteriore all'interiore, dal molteplice all'Uno. Ed è proprio la perdita di questa dimensione spirituale, la vera dimensione di una mistica autentica, la causa della profonda crisi che attraversa l'uomo moderno. Questi infatti, nonostante il grande progresso tecnico-scientifico realizzato sembra aver perso il senso della propria esistenza, della sua vera identità umana. L'uomo moderno si trova, come è stato accennato sopra, in uno stato di disgregazione, di caduta inarrestabile in un esteriorismo vuoto e sempre più meccanicizzato e robotico, secondo il detto, più volte ripetuto nel nostro discorso: "L'uomo ha creato la macchina, e si è trasformato in sua immagine e somiglianza".
La ricerca spirituale invece realizza l'essere umano nel suo profondo facendolo diventare sempre più umano, cioè facendolo passare dallo stato di "ominide" (come semplice specie animale) allo stato di "umano", come essere cosciente e responsabile del suo destino. È interessante notare che la radice indo-europea per designare l'essere umano, *men/man (in tedesco mann, in inglese man, in sanscrito mánu), sembra essere connessa con la radice del termine "mente" (latino mens, greco mnêmê, germanico *mind, sanscrito mánas). Essa denota in primo luogo il pensiero e la coscienza come prima caratteristica dell'essere umano: fra tutti gli animali l'uomo si manifesta come quell'essere che "pensa", e cioè sa, è consapevole e ha coscienza del proprio esistere.
Far ricuperare quindi all'essere umano la sua dimensione di "essere-per-la-trascendenza", come homo viator, cioè come essere in cammino orientato e aperto all'incontro con l'Assoluto, rimane uno dei compiti fondamentali delle religioni in generale, e dei loro cammini mistici in particolare. Su questo punto possiamo trovare una larga convergenza fra i mistici di tutte le religioni, e questo può diventare un fecondo campo di dialogo fra di loro, anche se ogni mistico in concreto segue dei percorsi specifici tracciati dalla propria tradizione religiosa. Anche i sufi, i mistici musulmani, hanno lasciato pagine di interessanti e profonde riflessioni sulla reale 'vocazione' dell'uomo, come essere orientato essenzialmente a Dio. Al centro della loro riflessione sta infatti un noto hadith, detto attribuito a Muhammad, Profeta dell'islam, che afferma: "Colui che conosce se stesso (lett. la sua anima, nafs), conosce il suo Signore". I sufi infatti hanno sperimentato che nel fondo dell'anima umana c'è un riferimento radicale, un'apertura ontologica essenziale verso il suo Signore, l'Assoluto. Questo hadith, com'è noto, è stato il motore e il centro di ricche speculazioni che i sufi hanno fatto sull'anima umana e i suoi stati interiori. Queste possono essere riassunte in due orientamenti fondamentali.
a. Il cammino sufi e le sue tappe
Attento scrutatore del cammino umano, il sufismo ha sviluppato assai presto un'analisi minuziosa e dettagliata dei suo stati interiori. L'essere umano non nasce già perfetto, ma deve camminare verso la sua perfezione attraverso tappe e stadi molteplici. L'idea del cammino (in arabo sulûk), delle sue tappe (manâzil, maqâmât), dei suoi stati interiori (ahwâl), ha occupato grande parte delle riflessioni dei sufi. È qui che si è innestata nell'islam l'idea della "via mistica" (tarîqa), che si è poi organizzata anche esteriormente a tale scopo. C'è un'immensa letteratura al riguardo e su questo punto si trovano facilmente paralleli nelle altre mistiche. Nel Cristianesimo, ad esempio, abbiamo tutta una vasta letteratura sulle "scale del paradiso" (vedi il trattato di Giovanni Climaco, m. 646), come pure classica è rimasta in esso la divisione delle tappe della vita interiore in via purgativa, via illuminativa, via unitiva. Occorre però sottolineare che il fine ultimo del cammino mistico non sono gli stati interiori, cercati in modo a volte ossessivo da certe mistiche "deviate". Il fine ultimo del cammino mistico è e deve rimanere l'incontro, anzi l'unione con l'Assoluto, Dio, termine unico e ultimo del peregrinare umano. I grandi maestri mistici di tutte le tradizioni religiose metteranno sempre in guardia i loro discepoli dal pericolo di cadere nel tranello di fare degli stati interiori il termine ultimo del loro cammino. Qui c'è il rischio di cadere in ciò che i sufi hanno sempre denunciato come "l'associazionismo nascosto" (al-shirk al-khafî), che è idolatria, perché esso mette qualcosa alla pari e insieme con Dio. Questa è uno delle più gravi pericoli nel cammino sufi.
b. Le dimensioni dell'essere umano
Il cammino mistico, facendo incontrare l'uomo con Dio, lo porta pure alla scoperta e alla realizzazione delle sue dimensioni ontologiche fondamentali. Nella visione islamica l'essere umano è qualificato da tre categorie fondamentali: egli è il servo ('abd), il vicario o luogotenente (khalîfa) e l'immagine di Dio (sûra).
L'essere umano è prima di tutto "il servo di Dio" ('abd Allâh), egli è cioè totalmente relazionato a Dio, in assoluta dipendenza ontologica da Lui. Il qualificativo di servo ('abd) non svilisce l'essere umano, come una superficiale lettura può fare credere, esso è invece la fonte e la ragione della sua nobiltà. Attuando totalmente e coscientemente tale dipendenza assoluta da Dio, l'uomo-servo ('abd) incontra un Signore che lo onora, facendolo partecipe della sua signoria sulle creature, in forza della quale l'uomo viene chiamato a essere il "vicario" o il "luogotenente" (khalîfa) di Dio sul creato. Tutto ciò però è fondato su di un'altra realtà ontologica fondamentale: l'essere umano è stato creato a "immagine" (sûra) di Dio. Egli quindi può e deve riprodurre in sé i tratti (khuluq) di Dio: "Rivestitevi dei tratti di Dio", è pure un importante hadith che è diventato uno dei punti base del cammino sufi. Tutto ciò è infine sfociato in molte correnti sufi, in quella di Ibn 'Arabî in particolare, nell'elaborazione dell'idea dell'Uomo perfetto (al-insân al-kâmil), in cui l'essere umano è visto come il microcosmo, specchio delle qualità divine e sintesi delle manifestazioni del Reale-Assoluto (haqq) nell'universo (khalq). L'essere umano quindi è chiamato, secondo tale visione sufi, seguita pure in molte "vie" sufi (turuq), a realizzare il suo essere come completa manifestazione del Reale-Assoluto in una unione profonda di Reale creante-creatura (haqq-khalq) e di Signore-servo: egli diviene alla fine il servo-signoriale ('abd rabbânî), cioè il servo rivestito delle qualità del suo Signore.
Queste speculazioni dei sufi ricordano temi simili della mistica cristiana. Anche nella visione cristiana l'essere umano è servo-immagine di Dio, incaricato della cura della sua creazione. Allo stesso modo le speculazioni dei sufi sull'idea dell'Uomo perfetto (al-insân al-kâmil) possono essere messe in parallelo con quelle dei mistici cristiani sulla "divinizzazione" (theopoiêsis-theiôsis) dell'essere umano, con beninteso tutte le differenze provenienti dalle differenti visioni di fede. Nella visione cristiana infatti non si tratta solo di una partecipazione alle qualità divine, ma di una partecipazione alla vita divina stessa nella sua fonte intima ed eterna che è la comunione trinitaria. Un approfondito scambio fra tali visioni ed esperienze dovrebbe in ogni modo risultare illuminante per tutte e due le tradizioni mistiche.
In conclusione, l'antropologia dei sufi musulmani e dei mistici cristiani può offrire ampi spazi per uno scambio, che può portare verso una comprensione e un arricchimento reciproci. In tale spazio un dialogo fra le due tradizioni spirituali non solo è possibile, ma altamente desiderabile e, senza dubbio, proficuo per tutti. Questi temi poi dovrebbero aprire ampi campi per una collaborazione concreta, diretta a salvare l'uomo contemporaneo, come è stato detto, dal pericolo di una disintegrazione totale della sua identità umana e dalla sua caduta in un vuoto di valori che sembra condurlo, sotto la spinta dell'attuale consumismo tecnologico, verso una pericolosa robotizzazione a tutti i livelli. Appare quindi sempre più chiaro che ogni vera mistica in tutte le religioni deve assumersi come suo compito fondamentale quello di salvare e realizzare nel modo più vero e profondo proprio l'umanità stessa dell'uomo portandolo all'incontro con la sua Origine prima e il suo Fine ultimo: l'Assoluto stesso.
3.2. L'essere umano e il suo ambiente: l'universo
L'essere umano si trova collocato in un universo che si estende e si amplifica verso dimensioni sempre più misteriose. E tuttavia è proprio in esso e attraverso di esso che egli è chiamato alla sua autorealizzazione, cioè a compiere il suo cammino verso l'Assoluto. Anche questo punto può divenire un ampio e fecondo campo di scambio e dialogo fra le due tradizioni mistiche. Ambedue le tradizioni infatti affermano che l'universo non può essere ridotto a "semplice materiale" manipolabile a piacere dall'uomo: l'universo è invece, nel suo senso più profondo e vero, lo spazio del cammino umano verso l'Assoluto.
a. La scienza moderna e la perdita del senso spirituale dell'universo
Un maestro sufi contemporaneo, Sayyed Hossein Nasr, afferma che l'universo nella visione sufi ha due dimensioni o due aspetti fondamentali: uno mutevole e uno permanente. L'aver dimenticato l'aspetto della permanenza di esso per concentrarsi solo sull'aspetto della mutabilità e della sperimentabilità empirica è stato, secondo Sayyed Hossein Nasr, il grande errore della scienza moderna. Questo fatto ha portato a una visione secolarizzata dell'universo, alla perdita della sua dimensione sacra, e conseguentemente anche alla perdita della dimensione sacra dell'essere umano in esso situato. Questi infatti, nonostante l'enorme progresso scientifico realizzato, sembra aver completamente smarrito il senso del suo esistere. Infatti, avendo ridotto l'universo a semplice "oggetto di uso e consumo", come materia manipolabile a suo piacere, l'essere umano ha finito per ridurre anche se stesso a puro "oggetto di uso e consumo" in balìa della tecnologica consumistica da lui creata. Di conseguenza si è avuta una caduta totale di valori con un concentrarsi esasperato sui soli aspetti materiali e utilitaristici della natura che ha portato in fine a uno sfrenato sfruttamento delle sue risorse.
Le conseguenze di tale atteggiamento irresponsabile però si fanno sentire ormai al punto che gli stessi secolaristi, sostenitori di una visione totalmente secolarizzata dell'universo, cominciano ad accorgersi che occorre elaborare un progetto di sviluppo "più umano", basato su di una visione più totale e integrale dell'universo e dell'essere umano in esso collocato. I secolaristi però, negando il rapporto con il Trascendente, hanno perso ormai la chiave per una lettura "spirituale" della realtà. Per questo occorre ritornare a ciò che Hossein Nasr chiama la "scienza qualitativa" delle grandi tradizioni religiose che da sempre hanno letto l'universo come l'essere relativo, mutevole, necessariamente rapportato all'Essere assoluto permanente che lo sostiene. Il senso profondo infatti del relativo-contingente è quello di essere manifestazione dell'Assoluto-Necessario. Isolato in se stesso il relativo perde il suo senso vero e il suo orientamento di base, e cade nel non-senso, nel vuoto ontologico, che porta necessariamente a un vuoto etico-morale. Questa è la malattia mortale dell'uomo della modernità, da tempo denunciata dai più acuti analisti della situazione esistenziale dell'uomo moderno.
b. Per un armonia fra scienza e sapienza spirituale
Solo ricuperando il senso "spirituale" dell'universo la scienza moderna potrà evitare il pericolo di divenire fattore di distruzione e non di sviluppo dell'universo e dell'umanità in esso situata. L'uomo infatti deve ricuperare il senso simbolico profondo della natura, come manifestazione dell'Assoluto. Nella cosmologia antica ciò era indubbiamente più facile. L'universo era immaginato come composto da una serie di livelli di esseri che si estendevano dalla terra ai cieli, e il tutto era spontaneamente orientato verso il Signore supremo, "che siede sul suo trono che tutto sovrasta e contiene" (Corano 2,255). In questa visione, comune a molte cosmologie antiche, il cosmo esteriore (l'universo) trovava facili paralleli con il cosmo interiore (l'anima umana). L'essere umano infatti era concepito come il microcosmo, specchio-immagine del macrocosmo. Una lettura 'spirituale' dell'universo era indubbiamente più facile per gli antichi.
Ora però, con i progressi della scienza moderna, tale lettura "spirituale" dell'universo è diventata più difficile. La moderna visione dell'universo ha indubbiamente frantumato l'armonia, i simbolismi e il senso della visione antica. Noi fatichiamo ora a integrare nella nostra spiritualità la moderna visione di un universo visto in un processo di espansione-evoluzione scatenato dal Big-bang iniziale (come sembra), e mosso quasi "a caso" da formidabili forze, di cui solo ora si comincia conoscerne la dinamica, forze che sembrano operare senza alcun chiaro scopo prefisso, anzi, secondo alcuni, senza nessun scopo in assoluto. Lassù non ci sono più cieli abitati da forme angeliche con influssi benefici o malefici sugli abitanti del pianeta Terra, ma solo degli ammassi di galassie in rapidissima espansione, agitate dalle quattro forze fisiche fondamentali (almeno per quanto ne sappiamo ora), e dirette non si sa dove. Di qui l'interrogativo: che senso ha tutto questo per la vita spirituale? È possibile continuare in una dicotomia tra la visione scientifica e la visione mistica dell'universo? È sufficiente ripetere nei nostri testi gli schemi cosmologici del passato, quando ormai viviamo nella visione di una realtà completamene diversa?
Queste domande richiedono una risposta che rimane in gran parte una sfida formidabile per tutte le mistiche e le spiritualità contemporanee. Le soluzioni mitologiche sono sempre una tentazione, perché di più facile presa e immediata soddisfazione, ma a lungo andare esse non possono reggere a uno stretto confronto con i dati della scienza. Da parte cristiana ci sono stati alcuni tentativi di risposta a tali problematiche, il più noto dei quali è quello proposto dal gesuita scienziato Pierre Teilhard de Chardin (m. 1955). Egli ha cercato una integrazione teorica ed esistenziale fra i dati della scienza moderna e la visione cristiana dell'universo. Egli ha sviluppato una mistica "della terra", così chiamata perché essa parte dal cosmo così com'è descritto dalla scienza moderna senza riserve, e cerca di integrare la visione scientifica attuale di esso con i dati fondamentali della fede cristiana. In tale prospettiva egli ha elaborato una sua visione cristiana dell'universo in cui il Cristo della fede è visto pure come il punto Omega, cioè il punto centrale e finale verso cui sale l'evoluzione totale del cosmo. Teilhard de Chardin è stato un grande ispiratore per molte persone che sono alla ricerca di un'armonia e una complementarietà fra scienza e fede. Tuttavia anche la sua non può essere considerata la risposta definitiva ed esaustiva alle domande "cosmologiche" della spiritualità contemporanea in confronto con lo sviluppo scientifico moderno. La ricerca in tale senso deve continuare, così come la storia dell'umanità non si ferma, ma continua.
Anche da parte islamica dovrebbe essere possibile elaborare simili riflessioni che superino l'antica visione del cosmo, riprendendo in tal senso alcune interessanti intuizioni cosmologiche che si trovano in sufi come Ibn 'Arabî, Jalâl al-Dîn Rûmî, e altri. E questo vale pure per le altre tradizioni mistiche dell'Oriente.
In conclusione, anche qui, nel campo del rapporto dell'uomo con il suo universo che lo circonda, troviamo ampio spazio per un incontro e dialogo fra esperienze mistiche diverse, in particolare fra quella cristiana e musulmana. Qui un impegno comune sembra non solo possibile ma augurabile nella ricerca di una visione dell'universo che integri i dati della scienza con quelli dell'esperienza religiosa. Tale impegno diviene più che mai necessario ora all'uomo contemporaneo per ricuperare il senso del sua esistenza e quello dell'universo in cui è situato. E anche qui il dialogo deve sfociare in un efficace impegno per una nuova prassi che salvi l'essere umano e il suo ambiente dalla degradazione del consumismo tecnologico contemporaneo che minaccia l'esistenza stessa della natura, e con essa pure l'esistenza dell'essere umano in essa situato.
3.3. L'essere umano e il suo fondamento ultimo: Dio
Infine però, l'essere umano trova la sua identità più profonda e vera, come è stato detto più volte, quando si rapporta con la sua Origine prima e il suo Fine ultimo, cioè con l'Assoluto. Qui il dialogo fra le varie religioni raggiunge il suo apice perché è proprio nella presa di posizione di fronte all'Assoluto che ogni religione rivela la sua originalità più caratteristica, ma anche delle sorprendenti coincidenze con le altre religioni. Ogni religione è infatti ispirata dalla stessa Origine prima ed è orientata, e deve orientare i suoi fedeli, verso lo stesso Fine ultimo: l'Assoluto, Dio.
a. L'essere umano come essere per l'Assoluto
L'Assoluto, termine ultimo delle aspirazioni del cuore umano, non può essere un prodotto dell'uomo stesso; sarebbe un idolo, quindi un inganno profondo e radicale riguardo la stessa identità umana. è stato osservato sopra che l'Assoluto, termine ultimo del pellegrinare umano, si rivela in ultima analisi come ciò che vi è di più indispensabile e necessario all'uomo, ma nello stesso tempo anche come ciò che è più indipendente da lui e che può essere ricevuto solo come libero dono e pura grazia, al riparo da ogni presa o manipolazione umana. L'Assoluto resta sempre sovranamente libero di se stesso: Egli si comunica come vuole e dove vuole, senza alcuna previa condizione impostagli da chicchessia. Questo è il cuore di ogni esperienza mistica e un punto sul quale si possono trovare convergenze e consonanze interessanti fra le varie tradizioni mistiche, quelle abramitiche in particolare. È noto l'apologo del sufi persiano Farîduddîn 'Attar (d. 627/1230), nel suo libro Parole di uccelli. Quando i trenta uccelli (simbolo dei sufi alla ricerca di Dio) giungono alle porte del palazzo di Sîmûrgh, l'uccello misterioso della Cina (simbolo dell'Essere divino, termine ultimo della ricerca degli uccelli), alla loro richiesta di incontrarlo si sentono rispondere che se essi hanno bisogno di Lui, Lui non ha bisogno di loro. Dio rimane pur sempre l'Autosufficente (ghanî), totalmente indipendente dalle sue creature e dalle loro richieste.
Ma qui si pone un quesito fondamentale. Questo Assoluto, deve per forza rimanere solo un orizzonte lontano, una meta asintotica verso cui l'uomo proietta la sua esistenza senza ricevere alcuna risposta? Deve tale Assoluto rimanere per forza prigioniero della sua trascendenza, irraggiungibile dalle sue creature? Non può Egli farsi presente nella storia e svelarsi esplicitamente al pellegrino umano? E chi può porre previe condizioni al essere e all'agire dell'Assoluto, fissandogli cosa può o non può fare? L'Assoluto è pur sempre libero di disporre di Se stesso, senza condizioni. Il cammino verso di Lui, se vuole essere un'autentica ricerca di Lui, non può essere fatto che nell'umile attesa di un suo possibile avvento nella storia umana. L'inesausta attesa umana può essere considerata come il solo presupposto che Egli stesso ha messo nel cuore dell'uomo per potersi svelarsi e donarsi a lui, secondo la nota espressione di Agostino: "Tu ci hai fatti per Te [o Signore] e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te" (Confessioni 1,1).
L'esperienza comune di tutti i mistici di tutte le tradizioni religiose testimonia che è necessario uno svuotamento totale dell'essere umano davanti all'Assoluto per essere riempito di Lui solo. I sufi hanno parlato a lungo del fanâ' (l'annientamento, lo svuotamento di se stessi) e per giungere al baqâ' (il sussistere in Dio), termini che richiamano il "tutto e nulla" (cioè Dio è tutto e l'io umano è nulla) di tanta parte della tradizione mistica cristiana (vedi il todo y nada della mistica spagnola).
Ma quando l'Assoluto irrompe nella storia umana, questa assume allora sensi e dimensioni nuovi. I suoi segni, pur presi dal mondo creato, si rivelano carichi di valenze e orizzonti nuovi, che trascendono i limiti del creato. I mistici sono coloro che hanno sperimentato ed espresso nel modo più reale e drammatico questa inesausta tensione fra il creato categoriale, relativo e limitato, e l'Assoluto trascendente, illimitato. Il vero mistico, a qualunque tradizione religiosa appartenga, è colui che ha vissuto nel modo più radicale tale incontro con l'Assoluto e, come Mosè sul monte Sinai, ne è stato trasfigurato. È da tale esperienza personale che nasce in lui una sensibilità particolare verso ogni altra esperienza dell'Assoluto. E questa è forse la ragione per cui i mistici di differenti tradizioni religiose hanno una strana sintonia di sentimenti e una impressionante affinità di espressioni. Essi si sono infatti avvicinati alla stessa sorgente e hanno attinto dallo stesso pozzo un'acqua che contiene in sé tutti i più diversi sapori.
b. Il Dio "il più grande e il più vicino"
L'Assoluto quindi viene sperimentato dai mistici allo stesso tempo nella sua trascendenza e nella sua immanenza, nella sua unità e nella sua molteplicità, nella sua semplicità e nella sua varietà. Nessuno di tali aspetti può essere isolato e negato, perché appunto l'Assoluto in quanto tale non può essere che la coincidentia oppositorum, cioè la sintesi degli opposti, o, come preferisco dire, Egli è la transcendentia oppositorum, cioè il superamento degli opposti, al di là di tutte le distinzioni limitate e limitanti poste dalla ragione umana misuratrice e calcolatrice ('aql). Questo è quanto i mistici di tutte le religioni non si stancano di ripetere. Il mistico infatti, a differenza del teologo, non ha paura di immergersi nelle aporie e nei paradossi dell'Assoluto che sorpassano le nostre categorie razionali, e questo perché il mistico è guidato da una percezione più profonda della realtà. L'Assoluto infatti si presenta sempre come il Mistero che è compreso tanto in quanto non è compreso, perché "se lo comprendi, non è Dio" (Agostino). Allo stesso modo recita un famoso detto attribuito a Abû Bakr al-Siddîq (m. 12/34), compagno del Profeta dell'islam e suo primo successore (califfo): "Lode a Colui che non ha dato alle sue creature altre vie per conoscerlo se non la loro incapacità di conoscerlo". Anche questo tema della incomprensibilità di Dio è sempre stata una realtà al cuore di ogni esperienza mistica, ed esso pure può e deve diventare un campo di ampio e aperto scambio fra le varie tradizioni mistiche.
Nel pensiero islamico il problema della proclamazione dell'unità di Dio (tawhîd) unita alla realtà dei suoi diversi attributi ha affaticato a lungo il pensiero dei teologi senza arrivare a una soluzione chiara, ma rimandando alla fine al silenzio del "non chiedere come" (bilâ kayfa). Credo che solo nei sufi tale problema ha ricevuto un approccio più reale perché essi non hanno avuto paura di inoltrarsi nei "paradossi dell'Uno". Il sufi andaluso Ibn 'Arabî, ad esempio, vede il sommo della proclamazione dell'unità di Dio (tawhîd) non nell'affermazione di un'astratta unità divina, qual è intesa dalla maggior parte dei credenti, e anche dai teologi musulmani. Il vero tawhîd per lui consiste infatti nell'affermazione paradossale dell'unità divina nella molteplicità delle sue auto-manifestazioni (tajalliyyât). Queste auto-manifestazioni sono aspetti reali del Reale-Assoluto (haqq) che è sempre e nello stesso tempo Uno e molteplice, Creatore e creatura, a seconda dei punti di vista sotto cui lo si considera. Il Reale/Assoluto (haqq) inoltre non deve essere concepito in uno stato di immobile stasi, come normalmente viene immaginato nel pensiero ordinario, ma in un inesausto dinamismo di essere, mosso da una misteriosa forza originaria, trascendente e creatrice: l'Amore (hubb). L'impulso originale per cui l'Essenza divina ("il Tesoro nascosto" del noto hadith) si manifesta in una serie infinta di auto-manifestazioni (tajalliyyât) è dato dall'Amore (hubb).
In un celebre passo del suo libro Perle della saggezza Ibn 'Arabî proclama:
"Il movimento che è l'esistenza del mondo fu un movimento di amore ... Senza tale amore il mondo non sarebbe venuto all'esistenza; quindi il movimento dal nulla all'esistenza è il movimento del Creatore verso di essa (esistenza) ... Resta quindi provato che il movimento fu un movimento di amore, e che quindi non c'è movimento nell'universo se non in relazione all'amore".
Sulla base di una tale visione molti sufi hanno sviluppato ardite speculazioni sull'Essere divino, frutto di particolari esperienze interiori. Alcuni di loro hanno parlato di una misericordia essenziale (rahma dhâtiyya), e altri di un amore originario (mahabba asliyya) in Dio stesso: queste sarebbero i motivi-motori della creazione che altro non è che l'auto-manifestazione di Dio da Se stesso a Se stesso in Se stesso. La molteplicità del movimento esistenziale del creato non si trova quindi al di fuori di Dio, ma nell'Essere divino stesso, scaturente dalla sua inesauribile e creativa capacità di amare.
Bastano questi accenni per far vedere come anche qui c'è un ampio spazio per riflessioni comuni che potrebbero portare a rivelare dei parallelismi straordinari, impensati forse, fra le varie esperienze mistiche, in particolare quelle delle tre religioni abramitiche.
c. Dio, il Mistero trascendente e trans-discendente
È qui che a mio avviso si potrebbe trovare un punto di reciproca comprensione anche su di una questione che da secoli ha diviso e contrapposto cristiani e musulmani con reciproche polemiche e condanne, non solo teoriche. Intendo lo scontro tra il monoteismo islamico (tawhîd) e la Trinità cristiana (thâlûth), dogmi questi, che nelle controversie teologiche del passato sono stati visti per lo più come posizioni inconciliabili, che si escludevano e si negavano senza alternativa. Non intendo qui evidentemente annullare le differenze che esistono fra le due tradizioni religiose in un compromesso che sarebbe in fondo un tradimento di ambedue le fedi. Si tratta invece di capire delle problematiche, simili da molti punti vista, che esistono in ambedue le visioni religiose e che possono aiutare ad aprirsi a una maggiore comprensione reciproca, superando atavici pregiudizi, dati per lo più come scontati.
Il problema di fondo che si pone a tutte e due le tradizioni può essere espresso nei termini sopraccennati: Dio, il Mistero ultimo verso cui l'essere umano è orientato, deve rimanere necessariamente chiuso nella sua trascendenza, quasi prigioniero di un limite a Lui stesso invalicabile? O invece, Egli è e rimane libero e potente di dare non solamente delle cose e delle qualità (cosa ammessa dal sufismo come pure da altre tradizioni mistiche), ma di comunicare "Se stesso" alle sue creature superando il supposto limite della trascendenza? La fede cristiana si è espressa in senso positivo a tale domanda, basandosi sulla rivelazione di Dio stesso come amore assoluto e incondizionato: "Dio è amore" (1Gv 4,8.16). In tale visione, essere-Dio non significa in primo luogo il suo isolamento in un'unità trascendente e assoluta, inavvicinabile per le sue creature. Essere-Dio significa invece in primo luogo la sua trascendente capacità di comunicare Se stesso, proprio Se stesso, al di fuori di Se stesso, in un'auto-comunicazione libera sì, ma anche totale. La fede cristiana vede nella creazione una prima auto-comunicazione, chiamata "esterna", di Dio. Ma tale auto-comunicazione esterna di Dio ha la sua radice e la sua fonte nell'auto-comunicazione interna di Dio da Se stesso a Se stesso. Dio infatti è nella sua Essenza, Comunione, essendo in Se stesso l'eterno Amore, eternamente Amante ed eternamente Amato; questo è il fondo, o l'abisso del mistero Trinitario, che è e rimane alla fine un Mistero di amore. Ed è proprio per questo che Egli crea, ed è proprio per questo che Egli è e rimane libero e capace di comunicare non solo delle cose o delle qualità, ma Se stesso, proprio Se stesso al di fuori di Se stesso alle sue creature che rimangono pur sempre libere di accettare o no tale auto-comunicazione divina. Questa è nella visione cristiana la radice prima e ultima della "divinizzazione" (theopoiêsis-theiôsis) dell'essere umano che i padri della chiesa hanno espresso nel noto teologoumenon: "Dio si è fatto uomo affinché l'uomo diventi Dio", non per diritto evidentemente, ma per grazia, poiché è stato Dio che liberamente ha voluto comunicargli la sua vita Divina.
Abbiamo accennato sopra come questo tema trova dei paralleli interessanti nelle ardite speculazioni di molti sufi a proposito dell'idea dell'Uomo perfetto (al-insân al-kâmil). Qui evidentemente non c'è spazio per inoltrarci in ulteriori considerazioni in un simile soggetto vasto e complicato, ma ci basta aver accennato a dei paralleli interessanti fra i due mondi, quello della mistica cristiana e quello della mistica musulmana.
In ogni caso, dovrebbe risultare chiaro, per evitare affermazioni distorte se non false, che il problema dell'unità e della molteplicità in Dio sta ben al di là della semplicistica aporia matematica dell'uno e dei tre, come è intesa comunemente dai credenti ed è stata ripetuta costantemente dalla tradizionale polemica islamica. Dio è Uno e Molteplice nello steso tempo. Questo è l'aspetto paradossale dell'Unità divina. Di fatto, l'aspetto paradossale dell'unità divina è stato in qualche modo intravisto anche dalle più profonde e ardite intuizioni dei sufi che sono andati ben al di là delle astratte categorie razional-teologiche dei teologi. Molti sufi hanno intuito infatti che l'abisso dell'Essere divino è mosso da un insondabile Mistero di misericordia essenziale (rahma dhâtiyya) e amore originale (mahabba asliyya): questo è l'impulso primo che ha mosso il "tesoro nascosto", cioè l'Essenza divina, a espandersi in una serie infinita di auto-manifestazioni che partono da Se stessa e a Se stessa fanno ritorno.
È pure interessante notare come riflessioni molto simili si trovano anche in altre tradizioni religiose molto lontane dalla tradizione abramitica, come ad esempio nella tradizione buddhista del Buddha Amida. Il pensatore giapponese Takeuchi Yoshinori parla della trans-discendenza del Buddha Amida, come contrapposta alla tradizionale idea della trascendenza (cioè trans-ascendenza) divina, per cui Egli si comunica ai suoi fedeli e elargisce loro la salvezza in modo assolutamente gratuito.
Qui pure, nell'esplorazione del Mistero profondo di Dio si apre ampi spazi di dialogo e scambio per attuare una mutua comprensione fra le differenti tradizioni mistiche. Le tradizioni mistiche di tutte le religioni infatti sono dei cammini che intendono portare ogni essere umano a incontrarsi con, anzi a immergersi nell'abisso del Mistero divino, Mistero che è pur sempre pieno di sorprese e novità, Mistero che sorpassa e trascende sempre ciò che la mente umana può pensare e il cuore umano può sperare. Ma tale Mistero è stato pure esperito e intuito in tutte le grandi tradizioni mistiche come un Mistero di amore assoluto, un Mistero non solo trascendente, ma trans-discendente. Egli infatti ha voluto farsi conoscere e comunicare Se stesso, proprio "Se stesso", alle sue creature in un modo che sorpassa e trascende tutto ciò che la mente umana può pensare e il cuore umano può sperare. Portare l'essere umano all'incontro "faccia a faccia" con tale Mistero significa fargli realizzare la sua vocazione essenziale e la sua identità più profonda. Portando alla realizzazione di tale incontro la mistica risponde a una delle fondamentali sfide della nostra era di globalizzazione, salvare cioè l'identità umana più vera dell'essere umano dal pericolo di cadere in un'alienazione radicale.
Questo è il compito fondamentale e ultimo di tutte le tradizioni religiose, e in particolare dei loro cammini mistici. Questo cammino rappresenta pure un ampio e importante spazio per un incontro, un dialogo e anche un impegno comune in favore dell'umanità.
4. Conclusione: verso un dialogo delle spiritualità o spiritualità in dialogo
A conclusione di tali brevi riflessioni sui possibili campi o spazi di dialogo fra la mistica cristiana e il sufismo, mi sembra importante sottolineare l'urgenza di tale dialogo non solo tra cristiani e musulmani, ma anche con tutte le tradizioni mistiche delle altre religioni senza porre condizioni né limiti. Più che parlare di schemi o teologie di dialogo è importante che le differenti tradizioni spirituali entrino in un dialogo concreto tra di loro, dialogo in cui ciascuna si possa presentare con la propria identità e originalità, ma nello stesso tempo con una convinta e provata attitudine di apertura, accettazione e comprensione delle altre tradizioni mistiche, cioè "dell'alterità dell'altro", e quindi di dialogo. Questo è chiamato da alcuni dialogo "intra-religioso" ed esso è la premessa necessaria per il dialogo "inter-religioso". Le presenti riflessioni hanno inteso illustrare alcuni campi o spazi in cui tale incontro dialogico può aver luogo. Le mistiche delle varie tradizioni religiose, e nel nostro caso specifico delle tradizioni cristiana e islamica, sono urgentemente chiamate ora a dare una risposta ai problemi dell'uomo dei nostri tempi, l'uomo della globalizzazione o del villaggio globale, l'uomo del pluralismo religioso, l'uomo dell'impresa tecno-scientifica portata ai suoi estremi.
Da molte parti infatti sale insistente l'appello per un ritorno alla sapientia perennis, cioè a quella saggezza umana basilare, comune a molte tradizioni religiose dell'umanità; saggezza che è stata da sempre la linfa vitale della storia umana. Tale saggezza è chiamata ora a dare un senso alla nostra storia umana contemporanea, storia in cui l'essere umano è in pericolo di una perdita totale della propria identità umana, in pericolo cioè di essere inghiottito in una "robotizzazione" globale e totale. A tale scopo molte persone spirituali del nostro tempo hanno dedicato e continuano dedicare grandi sforzi per fare incontrare le tradizioni religiose dell'Occidente e dell'Oriente per rifondare su di esse la reale identità "umana" dell'essere umano. Abbiamo già accennato ad alcuni di loro, come il musulmano Sayyed Hossein Nasr, il monaco benedettino Bede Griffiths e il monaco buddista Thich Nhat Hanh. E ce ne sono molti altri che, noti o no, lavorano per lo stesso scopo. Queste persone sono convinte che solo recuperando le ricchezze spirituali delle varie tradizioni religiose, ora però in un sincero clima di dialogo e di collaborazione, in una specie di ecumenismo spirituale interreligioso che si traduca infine in una prassi liberatrice a tutti i livelli, solo in questo modo si potrà salvare l'umanità del nostro tempo.
Persone come queste sono estremamente necessarie nel tempo presente per far riacquistare all'uomo del consumismo tecnologico contemporaneo le dimensioni umane della sua esistenza, dimensioni che trovano le loro più vere radici proprio in quella sapientia perennis che nel passato ha ispirato le grandi tradizioni culturali e religiose dell'umanità. L'uomo tecnologico è urgentemente chiamato ora, all'inizio del terzo millennio, a ricorreggere la rotta della sua impresa razional-scientista e tecnologico-consumista per realizzare una profonda e armonica sintesi fra scienza e tecnologia da una parte, e saggezza e sapienza spirituali dall'altra. Questo processo deve essere posto in atto al più presto, se si vuole evitare il pericolo che l'umanità si dissolva in quell'atomismo etico individualista, di cui abbiamo parlato all'inizio e che sembra spingerla verso un auto-annientamento spirituale, che rischia di diventare inevitabilmente anche fisico.
Questo è ciò che predicano i saggi, i profeti del nostro tempo; e speriamo che le loro voci non risuonino in vano nei deserti delle nostre città tecnologiche.
Ma le tradizioni mistiche sono chiamate a salvare l'uomo del nostro tempo anche dall'altro pericolo mortale che si sta diffondendo nella nostra società postmoderna: il pericolo del risorgere dei vari tipi di "tribalismo culturale-religioso", in cui la religione è facilmente manipolata a servizio dei grandi interessi politici ed economici che dominano il villaggio globale umano. Questo discorso interessa in modo particolare vaste aree del mondo islamico che subiscono la violenza di ciò che è conosciuto ormai con il nome di "islam politico". È infatti questo connubio fra religione e spirito tribale, che include sempre una forte componente economico-politica, che ha portato e continua a portare alla formazione dei molti movimenti estremisti che seminano guerre e devastazioni ormai in tutto il mondo, islamico e non. Il sufismo, in particolare, è chiamato a essere un'alternativa credibile all'islam politico, tipico di tali movimenti militanti e militaristi dell'islam. Esso è chiamato quindi a essere un fattore di pace e di fraternità nel villaggio globale umano mettendo in primo piano la dimensione spirituale dell'islam, in cui prevalgono i valori della giustizia, della misericordia e dell'amore.
Questa dimensione spirituale dell'essere umano è comune a tutta la tradizione religiosa delle famiglie abramitiche: essa afferma che l'essere umano è stato creato a "immagine di Dio". Questo vale per l'essere umano in quanto tale, e quindi per ogni essere umano. Quindi ogni essere umano deve essere rispettato nei suoi valori fondamentali di persona, in primo luogo nel valore della libertà, libertà di coscienza, di parola e di comunità in particolare. Tale visione dell'essere umano come "immagine di Dio" può rappresentare, a mio avviso, una base comune e sufficientemente ampia per unire gli sforzi di tutte le tradizioni spirituali delle famiglie abramitiche per un impegno comune in difesa della dignità della persona umana, di ogni uomo e di tutto l'uomo, rifiutando tutto ciò che può attentare alla dignità della persona umana. Una seria riflessione comune su tale tema e sulle sue conseguenze pratiche è più che necessario per fare fronte alle aberrazioni del connubio religione-politica. Questo dialogo spirituale però può e deve essere allargato a tutte le altre tradizioni religiose dell'umanità per diventare, si spera, un saldo sostegno per il dialogo interculturale e interreligioso a tutti i livelli nel nostro villaggio globale.
Anche la tradizione spirituale dell'islam, il sufismo, è chiamata a essere in esso un fattore di pace e di fraternità. Essa deve aiutare l'islam a far fronte in modo positivo alle quattro sfide di cui abbiamo parlato sopra. L'islam infatti è chiamato a rivisitare il suo messaggio originale, liberandolo da un legalismo soffocante e discriminante. Deve poi anch'esso instaurare un rapporto positivo con la modernità, sapendone accogliere gli elementi nuovi, soprattutto per quanto riguarda il problema dei diritti della persona umana e le esigenze del pensiero scientifico moderno. L'islam è pure chiamato a entrare in un dialogo costruttivo con le altre tradizioni spirituali dell'umanità sapendone apprezzare gli elementi positivi e creando spazi di comprensione e collaborazione con esse. Infine esso si deve impegnare con tutte le altre forze spirituali dell'umanità per la giustizia nel mondo in favore di tutto l'uomo e di ogni uomo, soprattutto dei più marginalizzati.
Questa è una sfida urgente per la nostra umanità contemporanea, sfida che tocca in particolare tutte le religioni che si muovono sulla scena del nostro pianeta. Esse sono chiamate ora più che mai a non essere più strumenti di un potere devastante (instrumentum imperii), come lo sono state molte, anzi troppe volte nel passato, e come purtroppo possono esserlo ancora. Le religioni sono chiamate a diventare nel nostro villaggio globale fattori e luoghi di fraternità, di convivialità e di pace fra i vari popoli e fra le differenti culture.
A questo scopo deve mirare un serio e impegnato dialogo fra le spiritualità delle differenti religioni mondiali.
Giuseppe Scattolin, mccj
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