"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)
 
Tibhirine: il senso di una presenza che ci interpella
La “parentela spirituale” tra monachesimo e islam

Adnane Mokrani

Fr. Christophe insieme a un musulmano della cooperativa agricola di TibhirineI monaci di Tibhirine definivano la loro presenza tra i musulmani una preghiera “accanto agli oranti dell’islam”, per celebrare una “comunione in divenire”, lasciando a Dio la scelta delle modalità. La scelta di un nome mariano dal sapore berbero, Notre-Dame de l’Atlas, come nome del monastero indica la consapevolezza che Maria rappresenta un ponte di intercessione tra cristiani e musulmani. I monaci hanno sviluppato una mariologia dell’incontro ispirata alla Visitazione, una teologia narrativa ricca di simboli.

L’incontro delle due donne incinte, Maria ed Elisabetta, che fu al tempo stesso l’incontro prenatale di Gesù e di Giovanni Battista, rappresenta l’incontro tra le due religioni e l’attesa colma di speranza e di difficoltà degli iniziati alla via mistica del dialogo. Il legame profondo tra Gesù e Giovanni, anch’esso riconosciuto dal Corano[1], non era ancora evidente per le madri. Ciò che veramente conta non è la coscienza del legame, che si manifesterà nel tempo, ma piuttosto l’avventura verso l’altro per incontrarlo e per servirlo. Questo “avanzare verso” indica l’orientamento dell’anima, la direzione del cuore verso Dio nell’essere umano, nostro prossimo. È la spiritualità dell’incontro umano che conduce all’incontro divino. In questo contesto Giovanni rappresenta l’alterità che nasconde l’unità spirituale profonda. Il Sé è un potenziale che attende l’altro per nascere e per manifestarsi.

Per Maria era necessario incontrare Elisabetta al fine di trovare le parole del Magnificat, come espresso bene da frère Christian de Chergé: “Elisabetta ha liberato il Magnificat di Maria”: Il Magnificat è l’unico discorso mariano nei vangeli, il riassunto della sua profonda saggezza biblica confermata dal Corano: “Credette alle parole del suo Signore, e nei suoi libri, e fu tra i devoti” (C 66,12). Il Magnificat è la sintesi dello spirito profetico che rovescia l’“ordine” mondiale basato sull’arroganza degli uomini al potere, ricordando che l’ordine divino è fondato sulla forza dell’umiltà e la scelta preferenziale degli ultimi, che sono troppo spesso le vittime dimenticate della storia. Essere umile e prossimo degli umili è ciò che unisce cristiani e musulmani che credono nel “Dio di tenerezza e di misericordia, che è con ogni uomo sofferente”.

Un punto delicato sollevato dal racconto della visitazione è quello dell’annuncio. Si presumeva che Maria dichiarasse la buona novella? I monaci dovevano annunciare il vangelo o meno? L’annuncio può essere scandaloso e rischiato! Ma l’annuncio era già stato fatto attraverso il movimento dei bambini nel seno materno. Il movimento – quello di Maria verso Elisabetta e quello reciproco dei bambini – è più eloquente delle parole. “Infatti è tra i bambini che ciò è accaduto”, allusione all’innocenza ritrovata nell’unità.

Frère Christian parla della necessità di “allargare l’eucaristia” affinché nessuno sia escluso. Un’eucaristia per la moltitudine non è un sogno missionario di convertire tutti i musulmani al cristianesimo, ma piuttosto il sogno divino di una umanità fraterna e unita che rispecchia il versetto coranico: “Gesù figlio di Maria implorò: «Dio mio, Signore nostro, fa’ discendere su di noi una mensa che sia una festa per noi, il primo di noi e l’ultimo di noi; fa’ che sia un segno che ci viene da te, donaci dei tuoi beni, tu che sei l’ottimo Dispensatore di beni»” (C 5,114). Un festino servito per noi, un “noi” universale che ingloba tutti, i primi e gli ultimi, in ogni tempo e in ogni luogo. Questo versetto, che in apparenza riporta un miracolo del passato, ha come orizzonte ermeneutico l’escatologia.

Frère Christophe racconta una storia commovente che rappresenta l’immagine di un’eucaristia allargata, nel senso del versetto già evocato: “Un giorno di novembre, in compagnia di Alì, lavoravo, in basso, sul bordo del cimitero. Faceva già un po’ freddo e il vento soffiava forte. Sotto i miei occhi si forma un raduno di donne accovacciate attorno a una tomba. Ed era bello da vedere questo biancore vivente, fremente. Dopo un certo tempo che mi permise di entrare un po’ nel loro paesaggio e di sentirci già insieme, una ragazzina si è distaccata dal gruppo e avanzava attraverso i campi in direzione del trattore. Si avvicina. Mi fermo. Mi guarda e mi sorride e mi tende un pacchettino. Was el hubz: mangiare. Fratelli e sorelle, quel pane discendeva dal cielo e io imparavo a fare eucaristia. Con Alì abbiamo mangiato questo pane (e c’erano anche dei datteri e una crêpe e alcuni biscotti). E ho ancora fame…”. Subito dopo, rendendosi conto delle difficoltà canoniche e teologiche che la sua esperienza provoca, quasi si scusa per la “distrazione”, senza che ciò gli impedisca di riprendere la sua interpretazione inclusiva, dicendo: “In questo momento della nostra eucaristia, quando tra poco andremo a tavola per mangiare la carne del Figlio dell’uomo, non dimentichiamo: il pasto è per la moltitudine, il pane e il vino sono per tutti. Se guardo troppo da vicino il mio piatto, rischio di non vedere più tutto l’orizzonte aperto dal pane donato. Dio ci dà il suo Unico per radunare in lui tutti i suoi figli dispersi”.

La presenza silenziosa e vivente dei monaci ha per obbiettivo la conversione dell’anima, accogliendo nel cuore il fratello musulmano. È così che si può “essere noi stessi cristiani autentici e migliori”, è così che si può “risvegliare e motivare la dimensione contemplativa che si trova nel cuore di ogni musulmano”. Aggiungerò che è in questo modo che ogni musulmano può essere “convertito” alle bellezze e ai valori nobili della sua fede, che non sono estranei alla fede cristiana. Una vita spirituale autentica incoraggia le altre vite e le altre vie a essere più vere, più autentiche; essa è una testimonianza vivente che alimenta la fiamma di santità in ognuno di noi, rendendola sempre più luminosa. La bellezza di ognuno è un dono per tutti. È in questo modo che “imparare dall’islam” o dal cristianesimo, diviene fonte di arricchimento, in quanto la conversione non è l’asservimento dell’altro e la sua assimilazione, ma una purificazione della mia autoreferenzialità e una dilatazione dell’essere attraverso la scoperta che l’Altro è presente e agisce nella vita di colui, cristiano o musulmano, al fianco del quale io cammino.

C’è un senso profondo di “islam” nella vita monastica umile, obbediente, nascosta, senza fama. Essa richiede un abbandono fiducioso e totale tra le mani di Dio; un’impresa difficoltosa, un ideale radicale che non è dato a tutti di realizzare in una fedeltà senza debolezza, un cammino stretto per alcune e alcuni che saranno il lievito per la moltitudine.

La parentela spirituale” tra monachesimo e islam è 
particolarmente evidente nella “lode monastica e nella preghiera musulmana”, come la descrive frère Christian: “Alcuni tra i più grandi valori religiosi dell’islam sono un innegabile stimolo per il monaco, nella linea stessa della sua vocazione”. Questa affermazione forte contraddice un’opinione islamica largamente diffusa che crede nell’incompatibilità tra islam e monachesimo, riassunta dalla famosa formula Cnon c’è monachesimo nell’islam”, che ha per fondamento una certa interpretazione del seguente versetto: “Poi, sulle loro orme, abbiamo fatto seguire i nostri messaggeri e li abbiamo fatti seguire da Gesù figlio di Maria e gli abbiamo portato il vangelo, e abbiamo messo nei cuori di coloro che lo seguivano la mitezza, la misericordia e il monachesimo; [e un monachesimo] che essi hanno inventato, noi non lo abbiamo prescritto che per ricercare il piacere di Dio, ma [alcuni] non lo hanno osservato come avrebbero dovuto. A quelli che hanno creduto abbiamo dato la loro ricompensa, ma molti altri erano empi” (C 57,27)[2].

La sintassi del versetto è assai complessa e permette diverse interpretazioni. La parola rahbāniyya, “monachesimo”, potrebbe essere il terzo elemento (grammaticalmente il terzo complemento oggetto diretto) che Dio ha messo nel cuore dei discepoli di Gesù Cristo, accanto alla dolcezza e alla misericordia, una cosa voluta per certi membri della comunità di Gesù , così come l’osservanza dello shabbat è stata voluta per la comunità di Mosè (cf. C 4,154). Se né il monachesimo né lo shabbat sono raccomandati da Dio per gli adepti di Muhammad, ciò non esclude, tuttavia, che l’islam, nel suo anello maomettano, possa rappresentare un tipo di monachesimo attenuato e allargato. Che il monachesimo sia voluto da Dio è confermato dal passaggio all’interno dello stesso versetto: “Noi non l’abbiamo prescritto che per ricercare il piacere di Dio”; un’asserzione, questa, che indica la ragion d’essere del monachesimo: “ricercare il piacere di Dio”.

La parola “monachesimo” è anche l’inizio di una nuova frase[3], quella in cui si tratta di un monachesimo “inventato” dagli uomini, tra i quali alcuni non ne avrebbero rispettato le esigenze. Non è il monachesimo cristiano in sé, ma lo scacco nel compimento della sua missione che il versetto critica. Si hanno dunque due tipi di monachesimo: un monachesimo autentico, prescritto da Dio, e un altro inventato dagli uomini, che ne è la perversione.

L’interpretazione inclusiva è confermata da altri versetti che parlano positivamente del monachesimo: “Troverai che i più ostili ai credenti sono gli ebrei e gli idolatri, mentre troverai che gli amici più prossimi ai credenti sono quelli che dicono: «Siamo cristiani». Questo accade perché tra loro ci sono sacerdoti e monaci, e non sono superbi, anzi, quando ascoltano quel che è stato rivelato al messaggero di Dio, vedi che piangono abbondantemente a causa di quella verità che essi conoscono. Li senti dire: «Signore nostro, crediamo, fa’ che noi siamo nel numero dei testimoni della verità»” (C 5,82-83).

Questi versetti sono stati sovente letti in modo tribale e semplicistico: gli ebrei sono i nemici e i cristiani gli amici! Ora il criterio della prossimità e dell’amicizia non è l’appartenenza a un gruppo particolare, ma piuttosto l’umiltà: “Non sono superbi”. L’umiltà è una caratteristica del vero monachesimo e il suo primo segno d’autenticità; essa sopprime le barriere dell’ego e le rivendicazioni di supremazia, consentendo l’incontro e l’amore. Questa stessa espressione si ritrova in altri versetti che parlano di umiltà come etica angelica e caratteristica della vera fede (cf. C 7,206; 16,49; 21,19; 32,15). E non è forse all’umiltà che richiama il Magnificat?

“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore,
poiché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno “beata” […].
[L’Onnipotente] ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote”
(Lc 1,46-48.51-53).

Il Magnificat, promessa di un’umanità unita e che crede nell’amore e nella solidarietà, ha un carattere transculturale e interreligioso poiché è portatore di quel valore fondamentale che è l’umiltà, un valore confermato dalle Beatitudini:

“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio
(Mt 5,3-8).

Gli ultimi versetti della quinta sura parlano anche della “conversione” dei monaci, spesso letta come una conversione all’islam nella sua forma canonica. Alla luce dell’esperienza dei monaci di Tibhirine e di Mar Musa, questi versetti possono essere compresi diversamente, nel senso espresso da Christian de Chergé: riconoscere nell’islam i valori monastici, pur restando monaci, o nel modo con il quale Paolo Dall’Oglio ha intitolato il suo libro: Innamorato dell’islam, credente in Gesù[4]. Le lacrime dei monaci sono l’espressione di una gioia spirituale, libera da ogni egoismo, quando percepiscono la bellezza dell’altro.

Qui il dialogo va al di là della comprensione reciproca per abbracciare un obiettivo più elevato, quello dell’unità. Più che un dialogo, è una solidarietà spirituale e umana. Frère Christian crede esplicitamente in questa comunione mistica: “La comunione dei santi è un mistero di lode e di adorazione permanente […] e questo mistero si incarna in verità, poiché al nostro fianco dei fratelli non cristiani, ebrei o musulmani, si riconoscono in questo inno […]. La Ognissanti degli eletti, cristiani, ebrei e musulmani, ha la sua rispondenza al cuore dei loro fratelli in religione che accettano d’istinto di situare il loro incontro nell’incavo di questa preghiera di adorazione; questa è un dono della tenerezza del Dio Unico; accoglierlo insieme è entrare nella beatitudine dei poveri”.

Al tempo stesso frère Christian è cosciente dei rischi e delle deviazioni, come quelle di un dogmatismo separato dall’esperienza spirituale: “    Veniamo da un periodo in cui la teologia si enunciava indipendentemente dall’esperienza spirituale. Oggi non è più possibile. Non dobbiamo avventurarci in una discussione dogmatica, ma lasciare a Dio di inventare in noi un cammino nuovo”. Il secondo rischio maggiore è il fondamentalismo, agli antipodi del monachesimo e di qualsiasi religiosità autentica basata sull’umiltà. Frère Christian lo dice in un linguaggio corano-evangelico: “Infelice l’uomo che vuole esse «più grande»! Dio solo è «più grande», Allah akbar! E il Corano si ricongiunge bene al vangelo quando proclama felice colui che «per l’amore di Dio ha dato da mangiare al povero, l’orfano o al prigioniero» (C 76,8-9) […] Coloro che si sforzano così di crescere nell’amore e nel rispetto reciproci non possono che avanzare insieme verso la Verità che li sorpassa e li unisce all’infinito […]. «Cercate di sorpassarvi gli uni gli altri», dice un versetto coranico, «Dio cammina con voi tutti, ovunque voi siate!» (C 2,148)”.

Le preoccupazioni dei monaci di Tibhirine sono sempre attuali: “Noi siamo all’unione tra due gruppi che si affrontano, un po’ ovunque e attualmente in Europa in particolare, tanto sul piano culturale che su quello della religione. Un fronteggiarsi che rischia di fare precipitare tutto l’Occidente in una nuova intolleranza. Dovremmo continuare a gettare le basi, fragili e vulnerabili, di una convivialità possibile, testimoniando un cristianesimo aperto alla differenza e anche quell’islam dei nostri vicini, che ci rispetta come noi siamo. Si può pensare anche che stiamo per assistere a una grande prova di verità per l’islam”.

L’ideale dei monaci di Tibhirine non è morto, poiché i martiri non muoiono, come conferma il Corano (cf. C 2,154; 3,169): essi ci parlano oggi attraverso il loro messaggio di vita. I monaci hanno toccato con mano e con il cuore l’essenziale che unisce i cristiani e i musulmani, così come l’umanità intera, e che rappresenta al medesimo tempo la promessa di salvezza in questa tempesta che attraversiamo insieme. Un ideale che vive ancora nei cuori e nelle opere dei cristiani e dei musulmani che lavorano senza rumore mediatico. Basta citare la presenza del movimento dei Focolarini in Algeria, e quella dei monaci di Mar Musa in Siria e Irak. Christian de Chergé e Paolo dall’Oglio rappresentano la teologia cristiana dell’islam più avanzata, una profezia che resta da completare e compiere, un dono che numerosi musulmani e cristiani devono sviluppare con fede e fiducia.

Concludo con le belle parole di speranza di frère Christian, una buona notizia annunciata con una gioia immensa:

“Ho sempre saputo che il Dio dell’islam e il Dio di Gesù Cristo non fanno numero […] ciò mi ha portato a iniziare un pellegrinaggio verso la comunione […] Fondersi nella lode dell’Unico, dal quale nasce ogni amore […] Che scoperta! Che ritrovamento!”.


[Originale francese: “Le sens d’une présence qui nous interpelle”, in Moines de Tibhirine, Heureux ceux qui osent la rencontre. Des moines en pays d’Islam, a cura di M.-D. Minassian, Cerf-Bellefontaine-Bayard, Paris 2022 (Les Écrits de Tibhirine 3), pp. 343-353. Traduzione di Luisa Andreis. Adnane Mokrani è un teologo musulmano, professore alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, membro e ricercatore alla Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Palermo]

[1] Il parallelo tra Gesù Cristo e Giovanni Battista si manifesta chiaramente nei due versetti della sura di Maria, il primo su Giovanni - “Sia pace su di lui il giorno in cui nacque, il giorno in cui morì e il giorno in cui sarà risuscitato” (C 19,15) – e il secondo in cui Gesù parla in prima persona. Le traduzioni italiane delle sure coraniche sono tratte da Il Corano, a cura di A. Ventura e I. Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2010, salvo per le eccezioni segnalate.
[2] Questo versetto è diversamente tradotto in Il Corano, a cura di A. Ventura e I. Zilio-Grandi: “Poi sulle loro orme abbiamo inviato i nostri messaggeri e Gesù figlio di Maria, a cui abbiamo dato il vangelo, e abbiamo posto mitezza e misericordia nel cuore dei suoi seguaci. Quanto al monachesimo, lo istituirono – noi non lo prescrivemmo – solo per compiacere Dio, ma non lo osservarono come andava osservato. A quelli che hanno creduto abbiamo dato la loro ricompensa, ma gli empi sono molti”.
[3] Non è il solo caso nel Corano dove si trovi questo fenomeno linguistico, essendo possibile leggere la stessa parola come la fine di una frase o l’inizio della seguente. Si veda ad esempio C 2,2.
[4] Cf. P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, Jaca Book, Milano 2011.
 

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