"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.

Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Prendersi cura, prendersi a cuore

fr. Andrea Oltolina, OSB

Pubblichiamo il testo dell’intervento tenuto il 7 febbraio 2021 da fr. Andrea Oltolina (Monastero di Dumenza) all’VIII edizione del festival “Interreligious”, organizzato dal Centro universitario di Padova e dalla Scuola del legame sociale “Luciano Tavazza” del Centro servizio volontariato provinciale di Padova, dal titolo “Prendersi cura di sé, degli altri, del mondo. Le religioni di fronte alla crisi sociale e ambientale”. Insieme alla teologa e docente di studi islamici Shahrzad Houshmand e al domenicano p. Claudio Monge, fr. Andrea è intervenuto alla tavola rotonda dedicata al cristianesimo.

Questa riflessione è un contributo al dialogo che il gruppo italiano del DIM sta portando avanti sulle sfide spirituali poste dalla recente pandemia alle diverse tradizioni religiose e comunità monastiche, tema a cui è stato dedicato anche l’ultimo incontro annuale del gruppo, il 28 ottobre 2020.

Dal 2011 partecipo agli incontri del gruppo italiano del Dialogo Interreligioso Monastico (DIM): ecco dunque spiegata la mia presenza qui oggi a questo evento di Interreligious 2021. Per chi non lo conoscesse, riporto quanto scritto sulla homepage del sito web italiano: “Il DIM è un'organizzazione internazionale che raccoglie commissioni nazionali di monaci e monache cristiani per promuovere il dialogo tra monaci di differenti religioni, specificamente a livello di esperienza spirituale”. Il mio intervento, che tenta di declinare l’ampio titolo proposto per queste tavole di dialogo interreligioso, prenderà pertanto in considerazione la mia esperienza monastica benedettina.

Prendersi cura è un’espressione che rimanda facilmente, sebbene non in modo esclusivo, all’ambito sanitario. In questo tempo, che ha visto tutti noi entrare in relazione con questo campo in modo determinante, abbiamo potuto sperimentare come la dimensione terapeutica e farmacologica sia imprescindibile per offrire una qualità di vita dignitosa. Dimensione necessaria ma anche insufficiente: ogni persona ha bisogno e aspira soprattutto ad amare e ad essere amata; la medicina non basta, la cura sanitaria non riesce a colmare il desiderio che alberga nel cuore di ogni donna e di ogni uomo. Bisogna pertanto arrivare a prendersi a cuore (non intendendo affatto con questa espressione la sua deriva emotiva e mielosa) la propria e altrui esistenza, come anche quella del creato. E, mi permetto di aggiungere, forse anche di quella di Dio…

Partiamo dal prendersi cura di sé. Sembrerebbe un tema scontato, facile a realizzarsi, perché direttamente collegato alla nostra parte più intima e nascosta. La famosa domanda rivolta a Gesù dal dottore della Legge su quale fosse il più grande comandamento (cf. Mt 22,36-40) ha visto, nella risposta del maestro di Nazaret, anteporre Dio rispetto a tutto (“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”), ma ha accostato un secondo elemento, dove dice: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Spesso questa “misura” è stata interpretata in riferimento al “te stesso”: come certamente tu vuoi bene in maniera ampia a te stesso, allo stesso modo devi amare il tuo prossimo. Sott’inteso che ognuno si vuole bene e nel modo corretto. Secondo questa ipotesi, ognuno di noi sa qual è il suo bene, cosa vuole e come raggiungerlo. L’esperienza non sembra essere però così univoca. Ammesso anche che ci siamo chiariti il nostro fine, quante volte abbiamo poi riscontrato di aver seguito altre strade?

La vita monastica ha nel seguire una regola uno dei suoi tratti più caratteristici e significativi. Nell’immaginario collettivo “regola” è spesso sinonimo di una cintura, di una gabbia, di un impedimento all’espressione della propria libertà e all’espansione della propria personalità. Credo invece che la regola sia uno strumento per assicurare con maggiore possibilità di riuscita il perseguimento dei nostri desideri, vincendo l’incostanza e la leggerezza dei nostri propositi e delle nostre sensazioni momentanee, che di fatto guidano spesso le nostre azioni. Se lasciamo che i “non ne ho voglia/sì ne ho voglia” guidino la nostra libertà, rischiamo di avere un percorso abbastanza tormentato, dove può esserci spesso dato di constatare un movimento a ritroso, o almeno di avanti e indietro… La regola sembra assicurare una più efficace serietà e un ordine alla nostra esistenza. La regola è solo un mezzo, non è il fine, che resta spendere la vita nella sequela del Signore Gesù, una vita nell’amore pieno e totale. Ma la regola è anche un mezzo efficace per prendersi cura di sé. La necessità, allora, di stabilire orari per la preghiera, per il lavoro, per il tempo da vivere nella solitudine e per quello nella condivisione, per lo studio e per lo svago dice l’importanza di ciascuno di questi momenti, che se lasciati alla sola iniziativa e responsabilità personale possono più facilmente andare incontro a deviazioni. Tutto è necessario per il compimento di una vita, ma va sostenuto con mezzi adeguati.

Una volta entrati in questa “obbedienza vitale”, allora la creatività e l’inventiva possono scoprire spazi infiniti e sorprendenti. Obbedienza è un’espressione invisa a moltissimi: il modello di riferimento immediato è la sua forma militare, senza alcuna partecipazione interiore, come pura formalità. In questo tempo di pandemia abbiamo fatto tutti esperienza di obbedienza: sono state imposte regole per assicurare una migliore qualità di vita a tutti e ognuno è stato spronato a dare il meglio di sé. Questo potrebbe aiutarci a guardare a questa modalità per affrontare la cura di sé in modo nuovo. Tendenzialmente, se non abbiamo un pungolo che ci richiama, noi ci rilassiamo, ammorbidiamo l’impegno che può caratterizzarci all’inizio di un percorso – Benedetto parla di “fervore novizio” (cf. RB 1,3) – e facciamo come i gamberi, cioè andiamo all’indietro. La regolamentazione della vita monastica è chiaramente dovuta anche alla presenza di più persone e quindi alla necessità di avere un orario comune per i pasti, per i vari momenti liturgici, per le attività lavorative. Ma è soprattutto una disciplina interiore quella a cui mira Benedetto quando, all’inizio della sua Regola, esorta il monaco ad accogliere volentieri i consigli e a metterli in pratica con vigore attraverso “la fatica laboriosa dell’obbedienza” (cf. RB Prologo 1-2). Come uscire altrimenti dall’autoreferenzialità che stritola ogni buon desiderio? Ecco dunque spiegato il lunghissimo capitolo 7 della Regola, sull’umiltà: se non si è consapevoli della “mondanità del proprio cuore” e, al contempo, della bontà di ogni persona, difficile poter “avanzare sulla via della vita” (cf. RB Prologo 17.20)!

Prendersi cura degli altri. La vita monastica ha una forma anche eremitica, ma la dimensione cenobitica è quella più diffusa e forse meglio conosciuta. Sono soprattutto i non credenti che frequentando il monastero pongono le domande più sorprendenti: “Come fate a stare insieme per una vita senza scegliervi? Come è possibile riuscire a superare le tensioni, le difficoltà, le necessarie trasformazioni che avvengono nella vita di ognuno…?”. Non c’è risposta a questi interrogativi né garanzia di riuscita positiva, se non l’impegno a prendersi cura gli uni degli altri. Diversi commentatori hanno sostenuto che nella Regola di Benedetto manca una dimensione comunitaria, c’è una prevalenza di quella individuale. Se le indicazioni suggerite dal legislatore sono essenzialmente rivolte al singolo monaco, per richiamare ognuno alla propria unicità e responsabilità, basta leggere il primo e il penultimo capitolo della Regola per capire quanto Benedetto abbia a cuore l’insieme dei suoi monaci e quanto lavori affinché vi sia un’armonia evangelica tra i fratelli della comunità. Ecco alcune espressioni del capitolo 72: “Si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore”; “sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali”; “gareggino nell'obbedirsi scambievolmente”; “nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri”; “si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo”; “temano filialmente Dio”; “amino il loro abate con sincera e umile carità”; “non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Fin dall’inizio del percorso monastico, Benedetto prevede un cammino accompagnato, vissuto nella cura vocazionale, psicologica, scolastica, sanitaria, professione: “Venga affidato a un monaco maturo, dotato di discernimento e di zelo per le anime, perché vigili attentamente su di lui” (RB 58,6-7). Nessuno potrà sostituire l’aspirante monaco, questi dovrà mettere i suoi passi uno dietro l’altro ogni giorno della sua esistenza, ma avrà di fianco qualcuno che percorrerà con lui tale itinerario. Tutte le attività lavorative svolte dai fratelli sono finalizzate alla realizzazione di una comunità in cui ci si serve reciprocamente: ricorre sovente l’indicazione ad andare in aiuto di fratelli maggiormente gravati dagli impegni. Al di là che si svolgano dei compiti direttamente remunerativi (laboratori di restauro, di scrittura delle icone, di ceramica…) o di supporto più diretto alla vita interna della comunità (cucina, lavanderia…), nessuno può accaparrarsi personalmente le rendite di tali attività – che risultano guadagnate della comunità stessa – né sentirsi indispensabile al monastero: “Nel caso che uno montasse in superbia a motivo delle proprie capacità e per il vantaggio che gli sembra di apportare al monastero, lo si tolga da quell’attività e l’abate non gli permetta di riprenderla se prima non avrà dato prova di essersi emendato umiliandosi” (cf. RB 57,2-3). All’abate e all’economo viene affidato un notevole incarico di discernimento per valutare le forze e le possibilità di ognuno e quanto può essere svolto senza mormorazione, senza eccessiva pena, in un gioioso sostegno reciproco. Non si può infine dimenticare la decisione di Benedetto di convocare tutti i fratelli, finanche il più giovane, al capitolo, che è la riunione comunitaria dove insieme si decide e si delinea l’identità della comunità: un autentico esercizio di democrazia ma soprattutto di ascolto, di accoglienza reciproca, di ricerca dell’autentico desiderio che si cela nel cuore di ogni fratello e, camminando insieme, mettersi alla ricerca del desiderio di Dio. Commoventi i capitoli della Regola rivolti ai fratelli malati e a chi li assiste (cf. RB 36), agli anziani e ai più giovani (cf. RB 37). Insomma, un gruppo di persone dove la cura reciproca diviene strumento per la cura di sé, perché prendersi cura degli altri è il modo di perseguire l’ideale più autentico del singolo, la sequela del Signore Gesù.

La vita monastica non è però nemmeno un’organizzazione perfetta dove l’egoismo è semplicemente comunitario. Da sempre l’ospitalità è la modalità più importante di condivisione con ogni altra persona di questo mondo: “Tutti gli ospiti che giungano al monastero siano accolti come il Cristo in persona, poiché un giorno egli ci dirà: ‘Ero forestiero e mi avete ospitato’. Appena un ospite viene annunziato, gli vadano incontro l’abate e i fratelli, con ogni premurosa attenzione suggerita dalla carità” (RB 53,1.3). La mancanza di attività esterne rende imprescindibile la relazione con gli ospiti e mira alla condivisione degli stessi beni di cui noi viviamo, dello stesso ritmo di vita. L’invito è pertanto alla partecipazione alla preghiera comunitaria, eventualmente a qualche attività o servizio lavorativo, ai pasti, alla ricreazione, conservando la discrezione e custodendo la possibilità di un ritmo più personale di preghiera, nella loro camera e nel silenzio.

Prendersi cura del creato, del mondo. Non faccio riflessioni generali, dico solo qualcosa riguardo ad alcune scelte che stiamo cercando di perseguire. Viviamo a mille metri d’altezza, in un ambiente naturale di rara bellezza; isolato, non immediatamente raggiungibile (26 tornanti negli ultimi 5 km di strada), ma a tutti accessibile. La scelta di tale luogo è stata anche determinata dal desiderio di rimettere al centro la dimensione ecologica della vita, circondandoci di un polmone verde e di una fauna (cervi, cinghiali, volpi, aquile) che tutti apprezziamo e tanti ci invidiano. L’inquinamento acustico e luminoso da cui le nostre città sono attaccate da qui lo si coglie meglio. Implica fatica pulire una strada che a volte ha un metro di neve e impedisce spostamenti rapidi ma assicura una dimensione più umana e non solo operativa ed economica dell’esistenza. Stiamo attivandoci per togliere una caldaia a gasolio e impiantare pannelli fotovoltaici o solari, valorizzando l’esposizione a sud della casa; curare il cappotto termico degli ambienti preserva da spese inutili di riscaldamento.

Infine, prendersi cura di Dio. È mai possibile una cosa del genere? Sembra quasi una bestemmia. Ritengo invece che forse è la principale attività cui un monaco deve dedicarsi e devolvere le sue migliori energie. Come? Se si chiede a qualcuno cos’è la preghiera, la risposta più ordinaria è: pronunciare, recitare, cantare delle espressioni, più o meno concordate, rivolgendosi a Dio (o ad altri perché partecipino a questa relazione). Tutto ciò è vero e va certamente riaffermato. Ma non dobbiamo dimenticare che la nostra preghiera è sempre e soltanto un movimento in seconda battuta, per dirlo con un riferimento musicale. Non è certo nostra l’iniziativa: a chi ci rivolgeremmo? Come conoscere l’interlocutore? Benedetto dice che bisogna verificare “che il novizio cerchi veramente Dio” (cf. RB 58,7), ma questo si può fare se prima ci si scopre cercati dal Signore stesso. “Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi gridando: oggi, se ascoltate la sua voce, non indurite il vostro cuore” (RB Prologo 9-10). La nostra parola può sorgere solo e soltanto successivamente a quella con cui Lui si rivolge a noi. La cura pertanto della sua Parola – che certamente nella forma biblica ha una sua espressione unica e permanente, ma trova forma anche attraverso i fatti della vita, la natura, le persone – chiede continua vigilanza e discernimento affinché essa possa raggiungerci in modo autentico e non filtrato attraverso le nostre precomprensioni. Ecco perché credo che si può arrivare a prendersi cura di Dio: lui desidera che noi ascoltiamo, viviamo della sua Parola, così come noi siamo “appesi” alle parole degli altri, dei famigliari, degli amici, della vita tout court.
 

 

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