"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 
2. Le problematiche del "tawhîd" nell'islam
 
 
2.1. Il Dio-Uno, o il puro monoteismo ("tawhîd")
 
Per entrare meglio nella problematica della contemplazione sufi occorre articolare un po' di più la professione di fede dell'islam, che come abbiamo visto è il punto di partenza, sia storico che esperienziale, del sufismo. Ci possiamo quindi chiedere: "Qual è il Dio in cui l'islam crede e di cui si sente il testimone e il messaggero per tutti i popoli?".
La risposta a tale domanda, come abbiamo accennato, è data dalla professione di fede (shahâda) che ogni musulmano è tenuto a proclamare continuamente, infinite volte, nel corso della sua esistenza: "Non c'è dio se non Allâh" (Lâ ilâha illâ Allâh). Questa è la prima parte della professione di fede (shahâda), che costituisce uno dei cinque pilastri dell'islam. Ad essa segue la seconda parte che riguarda la missione profetica di Muhammad (Maometto): "...e Muhammad è il suo inviato".
Il nome arabo di Dio, Allâh, come si sa, è la forma contratta di al-ilâh (il Dio), nome derivato da una comune radice semitica: El, Il, Ilh (cf. l'ebraico El, Elohîm). Il nome Allâh era conosciuto ed usato dagli arabi prima di Muhammad per designare il dio supremo del loro pantheon, ma in associazione ad altri dei e deesse contro cui si scagliano le polemiche del Corano.
Nella Bibbia Dio è invocato anche con il nome Yahweh, nome che sottolinea la presenza e la vicinanza di Dio al suo popolo. Questo nome può essere fatto corrispondere in certo modo al termine coranico Rabb ("Signore", cf. l'ebraico Adonai), nome che è sempre usato nel testo coranico in stato costrutto come Rabb-î, Rabbu-ka, Rabbu-kom, ecc. ("il mio, il tuo, il vostro Signore", ecc.).
Nella professione del puro monoteismo islamico ci sono due riferimenti importanti da sottolineare che ne rivelano le dimensioni storiche e meta-storiche.
 
a. Il puro monoteismo (tawhîd) nella storia: Abramo, il padre dei monoteisti
 
Muhammad nel proclamare l'assoluto monoteismo aveva chiara coscienza di ritornare alla purezza originale di fede del primo vero monoteista, Abramo. Abramo infatti, afferma il Corano, "non era né giudeo né cristiano ma era 'un puro monoteista (hanîf)' e un sottomesso (a Dio, muslim), e non era fra gli associatori" (Corano 3,67). La figura di Abramo è fondamentale per la coscienza profetica di Muhammad, ed essa è centrale nel testo coranico ricordato in circa 245 versetti. Abramo è presentato come il modello di tutti i veri credenti monoteisti; ad esempio, tutto il pellegrinaggio alla Mecca, altro pilastro dell'islam, è centrato sul ricordo di Abramo che, secondo la tradizione coranica, avrebbe ricostruito la Ka'ba, il primo tempio del puro monoteismo (tawhîd). Muhammad ha mostrato chiaramente l'intento di ritornare al puro, originale monoteismo di Abramo a monte delle sue varie corruzioni, non solo quelle del paganesimo idolatrico, ma anche quelle dei "figli deviati" di Abramo, cioè degli ebrei e dei cristiani. Questi infatti, secondo il testo coranico, avrebbero corrotto in vari modi la pura fede monoteista di Abramo. L'islam quindi intende essere un ritorno alla prima radice della fede monoteista che è abramitica.
 
b. Il puro monoteismo (tawhîd) nella sua origine trascendente: il patto eterno (mîthâq) con Dio
 
Ma nel testo coranico c'è un altro riferimento importante per il puro monoteismo islamico (tawhîd). In un unico passo viene affermato che Dio prima della creazione del mondo fece comparire davanti a sè tutte le anime umane, le fece testimoni della sua unicità come il loro unico Signore nel famoso colloquio riportato dal testo coranico: "Non sono forse Io il vostro Signore?"; e quelli risposero "Sì, certamente!" (Corano 7,172). Al giorno della resurrezione infatti sarà chiesto conto agli uomini di tale fede originale che costituirebbe, nella visione islamica, il deposito originario (amâna) affidato da Dio all'uomo ricordato in Corano 33,72.
Questo passo sul patto originario, in sè alquanto misterioso, ha avuto poco spazio nella riflessione della teologia speculativa dell'islam, mentre ne ha avuto molto nella speculazione mistica dei sufi. Per i sufi tale passo testimonia che l'essere umano in quanto tale porta nelle profondità della sua coscienza la testimonianza del puro monoteismo (tawhîd) ricevuta in tale visione (mushâhada) originaria nella pre-eternità. In altre parole, la natura umana originale (la fitra, altro importante concetto nella teologia islamica) è configurata da sempre e per sempre "monoteisticamente". Solo per circostanze storiche varie l'essere umano ha deviato da tale puro monoteismo di origine divina perdendosi dietro ideologie di fattura umana. In tale luce si può capire il senso profondo di un famoso hadith che afferma: "Ogni uomo nasce secondo la sua natura originale (fitra, che è quella di essere musulmano); sono poi i suoi genitori che lo fanno un ebreo o un cristiano".
L'islam quindi, con la sua testimonianza e la sua proclamazione del puro monoteismo (tawhîd), intende non solo restaurare la pura fede di Abramo, il primo dei monoteisti, ma anche rivivificare e portare a piena coscienza il patto primordiale che Dio stesso siglò con tutti gli esseri umani in tale visione pre-eterna, e cioè la testimonianza del monoteismo che Dio stesso ha impresso nel profondo di ogni essere umano fin dall'eternità.
L'affermazione monoteista islamica si articola poi in due momenti fondamentali: il momento delle negazione purificatrice o apofatico (nafî - tanzîh) e il momento dell'affermazione o catafatico (ithbât - tashbîh).
 
 
2.2. Il Dio-Uno, o il momento apofatico della negazione purificatrice ("nafî – tanzîh")
 
Per comprendere meglio il senso del monoteismo islamico occorre leggerlo nella dinamica della sua formulazione linguistica che va dalla negazione all'affermazione: dalla negazione "non c'è dio..." (lâ ilâha...) all'affermazione "... se non Allâh" (... illâ Allâh).
Queste formulazioni negative, con altre equivalenti come "se non Lui..., se non Tu..., se non Io...", scandiscono frequentemente il testo coranico conferendogli una suo tipico carattere monoteista, che lo differenzia pure rispetto alla Bibbia. Importante per le discussioni teologiche dei secoli seguenti è la formula: "Nulla è simile a Lui... (laysa ka-mithli-hi shay')" (Corano 42,11), e molte altre coniate secondo la forma "Dio non è... (laysa...)".
Da tali formulazioni appare chiaro che il puro monoteismo o tawhîd nel pensiero islamico può essere avvicinato solo mediante una radicale negazione purificatrice (tanzîh). Il nostro parlare di Dio deve prima di tutto essere purificato mediante la negazione di ogni somiglianza (tashbîh) pensabile fra Lui e le sue creature: Dio è il completamente Altro, diverso da tutto ciò che è creato. Perciò per prima cosa occorre togliere dal nostro linguaggio e dai nostri concetti ogni pretesa di comprendere e di descrivere in qualche modo Dio. Occorre una radicale purificazione linguistica che deve diventare anche una radicale purificazione esistenziale. L'uomo infatti corre sempre il pericolo di forgiarsi un Dio a sua immagine e somiglianza, divinizzando una creatura o un'immagine di Dio forgiata da lui stesso e cadendo così nell'idolatria. L'islam brandisce, contro ogni simile tentativo, la spada fiammeggiante della negazione più radicale di ogni somiglianza fra Dio e le creature: "Dio non è... (laysa...)", così incomincia il suo primo parlare di Dio. In tale approccio negativo alla trascendenza di Dio si possono facilmente riconoscere molti paralleli nel testo biblico e nella tradizione teologica cristiana.
I sufi leggeranno volentieri, nell'ordine che Dio dà a Mosè di togliersi le scarpe prima di avvicinarsi al roveto ardente da cui Egli lo chiama, il simbolo di tale negazione assoluta e purificatrice. L'uomo infatti deve purificarsi da tutto ciò che non è Dio per avvicinarsi esistenzialmente (e non solo verbalmente come, secondo i sufi, fanno la maggior parte dei musulmani) a Dio. Egli fa questo mediante uno stato di annientamento assoluto (fanâ'), che significa annientare le proprie qualità creaturali nel fuoco dell'unità divina: solo allora il sufi potrà avvicinarsi alla fiamma eterna dell'unità divina e il sole dell'unità divina potrà rispecchiarsi nel suo cuore illuminandolo di luci nuove... Ma in tale stato avvengono cose che non è lecito ai profani manifestarle. Questo è il segreto dei sufi (sirr) che ha attirato molte volte la condanna, fino all'eliminazione fisica, da parte dei giuristi-teologi musulmani (ulema'ulamâ'). In ogni caso molti gesti di purificazione rituale, comuni nelle pratiche di devozione islamiche, vengono interpretati e vissuti dai sufi secondo un profondo senso simbolico, per indicare tale radicale purificazione esistenziale, condizione unica per avvicinarsi alla soglia della trascendente unità divina.
 
 
2.3. Il Dio-Molteplice, o il momento catafatico dell'affermazione ("ithbât – tashbîh")
 
Il monoteismo islamico non si ferma alla negazione. Non è come il buddhismo che punta alla negazione assoluta come al momento di liberazione che introduce nell'Altro assoluto (nirvâna) (comunque questo concetto possa essere inteso, naturalmente).
L'islam, simile in questo alle due altre religioni abramitiche, l'ebraismo e il cristianesimo, ha un ricco linguaggio positivo su Dio. In esso quindi il momento apofatico o della negazione: "Dio non è...", è seguito dal momento catafatico o dell'affermazione: "Dio è...". E lungo è l'elenco delle qualità positive che vengono attribuite a Dio dal testo coranico e dalla tradizione islamica. L'affermazione positiva su Dio comprende due aspetti: l'affermazione della sua unità assoluta insieme e l'affermazione della molteplicità dei suoi attributi.
 
a. L'unità assoluta di Dio, oggetto della contemplazione/meditazione dei sufi
 
La prima e fondamentale qualità che viene attribuita a Dio è l'unità (wahda): "Dio è uno, il vostro Signore è uno (wâhid)", ripete continuamente il Corano. In arabo ci sono due termini per dire uno: wâhid e ahad.
Il primo termine wâhid indicherebbe, secondo una comune spiegazione teologica, l'unità in rapporto ad una molteplicità esteriore. Applicato a Dio questo termine significa che non ci sono molti dei: Dio è uno, Egli non ha né associati (sharîk), né pari (nidd), né oppositori (didd). Coloro infatti che attribuiscono a Dio degli associati sono i "politeisti" (in arabo mushrikûn, lett. gli "associatori"), e il più grande peccato che l'uomo può commettere è appunto quello di politeismo (shirk, lett. "associazionismo", cioè l'atto di associare altri dei a Dio); questo è l'unico peccato che, secondo l'islam, Dio non può perdonare.
L'altro termine ahad, di per sé in arabo è un sinonimo di wâhid, ma nel linguaggio teologico è stato comunemente usato per indicare l'unità interna di Dio: Dio non è composto di parti. Questo termine è infatti ricorre nel Corano nel capitolo (sûra) 112, detto appunto "La sûra della fede sincera (ikhlâs)", in concomitanza con il termine samad: "Di': Egli è il Dio, l'Uno (ahad); il Dio permanente-immutabile (samad); Egli non generò né fu generato; nessuno è pari a Lui" (Corano 112). L'aggettivo samad denota la permanenza, l'immutabilità, la saldezza di una cosa che, di conseguenza, diviene il saldo sostegno per altri. Con tale termine viene esclusa da Dio ogni forma di molteplicità e cambiamento interni. Attorno a questo concetto si accenderanno, come vedremo, le dispute dei teologi sul modo di spiegare l'unità di Dio in rapporto alla molteplicità delle qualità e delle azioni che gli sono attribuite.
L'affermazione dell'unità di Dio (tawhîd) costituisce quindi il centro della fede islamica, in qualche modo "la sua passione". In tale contesto occorre sottolineare l'aspetto "rivoluzionario" che ha il tawhîd coranico, in continuità con quello biblico. Esso significa infatti spodestare qualsiasi creatura, cose o esseri umani, dalla pretesa di mettersi al posto di Dio: esso costituisce quindi una radicale contestazione di ogni paganesimo antico e moderno, in cui degli esseri creati, umani e no, venivano e vengono tuttora messi al posto di Dio. È facile constatare che quando la coscienza di tale puro tawhîd diminuisce, il paganesimo, in tutte le sue forme anche le più criptiche, ritorna in vigore.
Da questo punto di vista uno può e deve riconoscere che la professione del tawhîd fatta dall'islam è una continuazione del messaggio biblico, radicato nella fede abramitica che proclama l'assoluta centralità di Dio nell'essere e nell'agire. Viva espressione di tale fede abramitica è quanto proclama Paolo ai pagani ateniesi: "In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28). Per tale motivo il sufi cercherà in tutte le creature, le opere di Dio, i segni che ne proclamano l'unità e la signoria assolute. In tutte le creature ci sono chiari segni dell'unità divina, per chi a occhi per vedere.
 
b. I 99 "bei nomi" (al-asmâ' al-husnâ) nella contemplazione/meditazione sufi
 
Accanto alla proclamazione dell'unità assoluta di Dio, la fede islamica non cessa di proclamare gli infiniti attributi positivi di Dio. Molti sono i nomi e le immagini di carattere antropomorfico con cui il Dio-Uno è qualificato e descritto nel testo coranico: si parla del "volto di Dio", del "trono di Dio", della "mano di Dio", ecc. Tutte queste qualità sono state riassunte dalla tradizione islamica nei famosi "99 bei nomi" (al-asmâ' al-husnâ). La recitazione di questi "99 bei nomi" è diventata una pratica di devozione molto popolare fra i musulmani, soprattutto fra i sufi. Essi si aiutano nel conto dei nomi di Dio con una corona di grani detta subha (nella lingua corrente sibha) che significa "l'atto di lodare Dio", e non "rosario" come è tradotto talvolta impropriamente.
I 99 "bei nomi" costituiscono per il credente musulmano una specie di "somma teologica popolare" della sua fede, e la loro meditazione aiuta i credenti ad approfondire la loro vita spirituale. Per i sufi inoltre ogni nome divino è carico di molti significati interiori che possono essere trasmessi solo mediante una speciale iniziazione durante il noviziato sufi.
La speculazione teologica islamica ha cercato di trovare un ordine ai nomi divini riportati in tali liste che ne giustifichi l'uso. Alcune delle divisioni più comuni sono le seguenti:
 
  • Una tradizione teologica, in particolare la sunnita ash'arita, fissa dopo il nome Uno (wâhid) sette nomi detti "capitali", di cui tutti gli altri sarebbero solo dei derivati. Dio è essenzialmente Colui che sa ('âlim), che può (qâdir), che è vivo (hayy), che vuole (murîd), che parla (mutakallim), che ode (samî'), che vede (basîr). Questi sette nomi "capitali" riguarderebbero Dio in se stesso, in qualche modo la sua vita intima, ed essi sarebbero quindi dei nomi "assoluti". Mentre gli altri nomi come il Creatore, il Provvidente, il Soccorritore, ecc., riguarderebbero Dio in rapporto alle creature, e quindi sarebbero nomi "relativi".
  • Un'altra tradizione, comune soprattutto tra i sufi, intende distinguere fra i nomi divini: (1) nomi che mettono in risalto la potenza e maestà (jalâl) di Dio (Dio è il Possente, il Dominatore, l'Invincibile, Colui che fa vivere e morire, Colui che abbassa ed eleva, ecc.), questi nomi metterebbero in risalto l'aspetto maschile di Dio; (2) nomi che mettono in risalto il suo aspetto di misericordia e di bellezza (jamâl) (Dio è il Misericodioso, il Perdonatore, il Gentile, il Paziente, ecc.), questi nomi metterebbero in risalto l'aspetto femminile di Dio.

La perfezione dell'essere umano consisterebbe nell'assimilazione dei due aspetti della divinità: quello maschile e quello femminile. Anche a tal riguardo alla speculazione sufi ha sviluppato una sua mistica che non può essere sviluppata qui.

In conclusione, l'immagine coranica di Dio attraverso i suoi attributi può essere chiaramente percepita nel seguente testo in cui vengono ricordati alcuni dei principali attribuiti di Dio, cioè i suoi "nomi più belli" (Corano 59,1.22-24):

 

"Tutto ciò che vi è nei cieli e sulla terra celebra le lodi di Dio,

Egli è il potente e il sapiente.

Egli è Dio — non c'è divinità se non Lui —

Egli conosce l'invisibile e il visibile:

Egli è il clemente e il misericordioso.

Egli è Dio — non c'è divinità che Lui — il Re, il Santo,

la Pace, il Fedele, il Vigilante, il Possente, il Forte, il Grande.

Dio sia esaltato sopra tutto ciò che gli associano.

Egli è Dio, il Creatore, il Plasmatore, il Formatore:

a Lui spettano i nomi più belli.

Lo glorifica quanto è nei cieli e sulla terra:

Egli è il Possente, il Sapiente".

 
     Questo come pure moltissimi altri testi coranici esortano il credente alla riflessione, meditazione e contemplazione delle qualità divine, a immergersi in esse fino a venire trasformato da esse, o come dice un famoso hadith, divenuto un dei principi fondamentali della vita mistica islamica: "Rivestitevi delle qualità di Dio".

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