"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

I monaci di Tibhirine e il dialogo con i musulmani.
La presenza di monaci trappisti in un giardino di islam

 

di Guido Dotti, monaco di Bose



[Conferenza tenuta dall'autore presso il Monastero benedettino di San Benedetto a Milano il 28 novembre 2011, all'interno del ciclo di incontri sul tema "Il dialogo interreligioso: implicazioni ecclesiali e monastiche"]

 

Declinerei il tema che mi è stato affidato, "I monaci di Tibhirine e il dialogo con i musulmani", in un sottotitolo: "La presenza di monaci trappisti in un giardino di islam".

Qualcosa della vicenda di Tibhirine continua ancora oggi, sia a Tibhirine stesso, dove un prete francese si reca regolarmente e si ferma sempre più a lungo, sia in Marocco, a Midelt, dove si è trasferita la piccola fondazione che i monaci trappisti avevano al momento del rapimento e dell'uccisione. In questo luogo solitario, sull'altro versante della montagna dell'Atlante, è ripresa un'esperienza di dialogo con il mondo musulmano.

La chiave attraverso la quale vorrei percorrere quattro assi del ruolo e della modalità del dialogo dei monaci trappisti con l'islam è quella che loro avevano dato a un gruppo che si riuniva per pregare e riflettere e che si chiamava "Legame di pace". Il gruppo è sorto non per iniziativa della comunità come tale, ma di alcune figure della chiesa cattolica di Algeria, tra i quali fr. Christian, il priore. Questo gruppo veniva ospitato spesso anche in monastero, ed era composto di cristiani, la maggior parte religiosi, e da musulmani, in particolare, una confraternita sufi, che proveniva da Medea, una città vicina a Tibhirine.

La notte del rapimento si erano ritrovati i cristiani di questo gruppo "Legame di pace" a riprova del fatto che sembrava che la tensione si fosse un po' allentata. Tra cristiani si erano ritrovati, ma non erano ancora riusciti a ritrovarsi anche con i musulmani;  per la prontezza di riflessi di fr. Luc non ci furono conseguenze per gli altri ospiti che erano in monastero, e che si erano affacciati, avendo sentito rumori. Fr. Luc avendo capito cosa stava succedendo, disse loro che non c'era nulla,  si ritirò ancora e  chiuse a chiave la porta che dava dalla foresteria al monastero. I rapitori ignoravano la presenza degli ospiti in monastero.

Questo gruppo "Legame di pace" si ritrovava regolarmente a Tibhirine, che significa appunto "giardino" in lingua berbera. L'idea del nome dice una realtà che può produrre belle cose a condizione che sia curato, custodito, innaffiato, tenuto in ordine. Questa presenza dei monaci, secondo me, è una presenza che in un certo senso continua ancora oggi in quel dialogo che loro hanno avviato, anche se in una forma che non è più quella che essi erano riusciti a dare quando vivevano lì.

I quattro assi in cui si articola il dialogo con i musulmani sono innanzitutto: quello della vita quotidiana, cioè un'intera comunità che, poco alla volta, progressivamente impara a vivere e a convivere con una più grande comunità di credenti, che sono i musulmani credenti attorno a loro. Questo, per certi versi, era cominciato con l'indipendenza dell'Algeria. La presenza dei trappisti in Algeria risale alla fine del secolo XIX in un'altra realtà, poi negli anni '20-'30 si spostarono a Tibhirine, dove possedevano un'enorme quantità di terreno, boschi, terreno coltivabile. Al momento dell'indipendenza dell'Algeria, nel '62-'63, l'ordine trappista e la comunità, decisero di dare la maggior parte dei terreni allo Stato nascente algerino, trattenendone quanto poteva servire a  mantenere una comunità, limitandosi a curare quel terreno che era più vicino al monastero. Il primo problema grosso che si manifestava con il venir meno di una presenza cristiana significativa in Algeria con la partenza di tutti i francesi verso la patria, era il venir meno della possibilità di reclutamento al monastero. E da quel momento il monastero praticamente è vissuto  attraverso l'arrivo di monaci dalla Francia che condividevano l'idea di un certo tipo di presenza nel monastero. Di fatto l'unico che era già nel monastero precedente e che era rimasto lì dagli anni subito dopo la guerra era fr. Luc, che aveva anche conosciuto un altro rapimento durante la guerra di indipendenza dell'Algeria, pur avendo curato alcuni guerriglieri feriti. Poi c'era fr. Amedée, che era un figlio di francesi, nato e cresciuto in Algeria.

Questa vita quotidiana è stato il luogo in cui i monaci hanno imparato a conoscere la presenza dell'altro, come musulmano, dell'altro che è credente e vive accanto a te, e vive un'esperienza di fede e qui hanno  imparato questa somiglianza e differenza profonda che c'è tra un gruppo di monaci cristiani e una comunità di villaggio musulmana. E questo li ha portati in modo estremamente naturale ad alcune forme di condivisione di vita, pur nel rispetto delle rispettive scelte e strutture di vita. Già per un monastero cristiano in contesto sociale cristiano ci sono dei limiti alla condivisione con il mondo esterno; si può immaginare quindi come possa essere in un contesto dove non c'è un'altra presenza cristiana esterna, se non forse a diversi chilometri di distanza.

Ma questo è avvenuto in modo molto spontaneo attraverso la condivisione anche della terra. Sul terreno che avevano mantenuto i monaci hanno creato una cooperativa i cui soci erano alcuni monaci e alcuni capifamiglia del villaggio vicino, i quali continuano anche adesso a coltivare la terra e a ricavarne i prodotti per dare da mangiare alle loro famiglie.

Si capisce che per una comunità monastica che ha il suo equilibrio nel rapporto tra la preghiera e il lavoro, e tra la comunicazione fraterna e la solitudine l'accettare che ci fosse un lavoro in comune con altre persone voleva dire non potersi limitare al solo aspetto del lavoro. Questo diventò una forma di condivisione in cui, rispettando l'alterità dell'altro si entrava in dialogo. Per questo i monaci avevano trovato normalissimo per esempio il mettere a disposizione una stanza nel loro grande monastero perché fosse usata come luogo di preghiera, dove regolarmente la comunità musulmana del villaggio poteva trovarsi a pregare ai suoi ritmi. C'era una entrata che non sconvolgeva le regole della clausura del monastero e da lì i musulmani potevano entrare per accedere alla loro casa di preghiera, all'interno di quella "casa di preghiera" che è un monastero.

Il primo muro caduto, si può dire, è il fatto di scoprire che un luogo di preghiera può diventare luogo di preghiera di tutti. Nel rispetto di spazi distinti, di tradizioni e modalità, ma è possibile che dal luogo dove sale la preghiera cristiana salga anche una preghiera musulmana all'unico Dio.

Poi, ancora a partire dal quotidiano come luogo di dialogo, c'era anche la partecipazione al vissuto quotidiano attraverso il lavoro di fr. Luc come medico. In un luogo nei dintorni del quale non c'erano servizi sociali, medici, ambulatori, nessuna possibilità di farsi curare, si può capire che cosa voleva dire una persona che si dedica, si può dire, giorno e notte (era fratello converso, libero da alcuni obblighi di presenza in coro) a prendersi cura di chi era bisognoso. Ancora oggi la sua tomba a Tibhirine è la più "onorata" dalle donne musulmane del posto, perché lui le aveva seguite e aiutate quasi tutte per i loro parti, nonne, mamme e anche le più giovani.

I monaci hanno condiviso anche i momenti di festa della comunità musulmana: le circoncisioni, le feste di maggior età, le festività per i matrimoni dei figli. Queste erano partecipazioni normali, che non implicavano nessun riconoscimento canonico di quello che succedeva, ma semplicemente una condivisione  delle gioie e dei dolori della comunità locale. 

Ma questa condivisione, soprattutto da parte di monaci, quindi persone che in teoria dovrebbero anche avere tempo e voglia e capacità di riflettere su quello che fanno, li porta anche a riflettere sul significato di queste feste, su che cosa vuol dire la circoncisione per i musulmani, cosa vuol dire la festa del sacrificio: non è come andare a condividere un rinfresco. È un capire piano piano in che cosa è diverso, in che cosa si ritrovano le fondamenta comuni che nascono da testi sacri diversi e tradizioni diverse, ma che hanno uno spessore non solo antropologico ma spirituale, che, anche se non è simile, è  tuttavia chiaramente riconoscibile a chi lo voglia riconoscere.

Questo è un primo asse: una condivisione sapiente della vita quotidiana che permette di conoscere sostanzialmente che cosa fa gioire, che cosa fa soffrire l'altro, che cosa l'altro spera, che cosa desidera. Questo lo possiamo apprendere solo stando accanto all'altro. Se non conosciamo le sue fatiche quotidiane, non possiamo entrare in una empatia con lui. E questo quando l'altro "appartiene" ad una tradizione religiosa diversa significa anche conoscere attraverso le persone concrete un islam concreto, reale, non un islam dei libri, non un islam come potrebbero dipingerlo i mezzi di comunicazione, o come si potrebbe immaginare dalle cose che si sono sentite. Questo, secondo me, rimane un elemento fondamentale nel dialogo interreligioso: riuscire ad accostare il vissuto gli uni degli altri e la teoria, la teologia gli uni degli altri, perché noi nel dialogo siamo tentati a confrontare la nostra teoria con la pratica degli altri.

Ora, la teoria è sempre più bella della pratica. Noi cristiani abbiamo come primo comandamento l'amore; i musulmani invece propugnano la guerra santa. Ma noi, con il precetto dell'amore cosa facciamo? Loro, cosa fanno con la loro confessione di fede in un Dio clemente e misericordioso? La vita quotidiana obbliga a confrontare il proprio vissuto con il vissuto dell'altro; dal vissuto risali al perché ti comporti o non ti comporti in un certo modo, ai principi, cioè che arrivano dal vissuto reale, e questo, credo, anche per i monaci è stato un cammino lento, progressivo, poi fatto da persone molto diverse l'uno dall'altro.

Fr. Christian, il priore, molto intellettuale, conosceva l'arabo, leggeva il Corano, aveva frequentato l'Istituto di studi islamici a Roma. Altri erano persone molto semplici, un ex idraulico, un falegname, gente che sapeva far funzionare la tubatura per l'irrigazione del terreno in coltivazione, ma non riusciva a leggere una pagina del Corano. Fr. Luc conosceva i principi e la pratica della medicina, ma conosceva meno i problemi della teologia. Ma proprio attraverso la vita quotidiana, attraverso gli insegnamenti del Priore in comunità, hanno imparato.

 

Il secondo asse interessante per noi nel nostro approccio al dialogo interreligioso è il gruppo "Legame di pace". Avrete sentito dire, e in parte è vero, che non si può mettersi a discutere su questioni teologiche; dobbiamo limitarci all'aspetto pratico, etico: troviamo un'etica comune, e lasciamo perdere ciò che ci sta dietro. Oppure si trovano a discutere i teologi tra loro, si accordano, o non si accordano … Però, non si può pregare insieme. Non si può entrare in una dimensione di dialogo spirituale.

L'esperienza che hanno fatto i monaci di Tibhirine e questo gruppo, più largo della comunità dei monaci, è proprio il contrario. Loro si sono detti: "Ci mettiamo insieme per alimentare tra di noi dei legami spirituali e non solo etici, di comportamento, e per condividere la nostra preghiera, lasciando da parte le discussioni teologiche". Vi leggo un documento, una serie di proposizioni che loro si erano dati insieme, cristiani e musulmani, una sorta di costituzione del gruppo, sono sei punti che hanno una dimensione fondamentalmente spirituale.

"Primo: facciamo memoria giorno dopo giorno del tema che scegliamo, perché sia tra un incontro e l'altro il nostro legame di pace nella preghiera, nel servizio e nella fedeltà reciproca".

 Fissavano un argomento che nasceva dalla vita quotidiana e poi se lo davano come motivo durante tutto il tempo in cui non si vedevano e quando si ritrovavano ciascuno diceva la sua esperienza rispetto a quella tematica.

"Secondo: lasciamoci interpellare, destabilizzare, arricchire dall'esistenza dell'altro, ascoltiamolo, cerchiamo di capire meglio la sua tradizione, così come la proclama, e di rispettarla così come la vive".

La teoria e la pratica: come proclama la sua tradizione lui, una persona vivente, che ho di fronte, non un libro di teologia. Come lui la vive: come vorrebbe e come riesce a viverla.

"Terzo: restiamo aperti a tutto ciò che ci rende prossimi al cammino della fede, condividendo la speranza di questa unità che Dio promette alle nostre differenze. Rivestiamoci della sua pazienza in questo itinerario".

Sono tutte cose che ritorneranno, echi di parole che ritroveremo nel Testamento di fr. Christian: "Dio che si diverte nel mettere insieme le differenze".

"Quattro: in questo spirito preoccupiamoci di promuovere, per quanto modesti, gruppi di preghiera e d'incontro di uomini e donne sinceri e benevoli".

Una dilatazione di questo piccolo gruppo, in tutto forse una trentina di persone, in modo da creare gruppi di preghiera e di incontro tra persone.  

"Cinque: nelle nostre relazioni quotidiane prendiamo apertamente le parti dell'amore, del perdono e della comunione contro l'odio, la vendetta e la violenza che ai nostri giorni colpiscono tutti. E viviamo così nell'atteggiamento del Dio di tenerezza e di misericordia con ogni uomo che soffre".

E questo è una sorta di impegno dei membri del "Legame di pace" nella vita quotidiana in qualsiasi luogo, al di fuori dei rapporti con i membri del gruppo.

"Sesto e ultimo: crediamo al dono della pace che ciascuno porta in se stesso, per sé, per l'altro; impariamo a contemplarla al di là delle apparenze. Sia per noi sorgente di gioia, di fiducia e di perseveranza nel legame che ci unisce".

Anche qui, c'è la pace come coronamento, c'è l'imparare a contemplare la pace al di là delle apparenze. Mi pare una delle intuizioni più chiare che fr. Christian ha avuto di che cosa sia la contemplazione, la contemplazione cristiana. La contemplazione cristiana non è "vedere Dio faccia a faccia"; credo che sia la capacità di riuscire a vedere gli eventi, le altre persone, e se stessi "con lo sguardo di Dio", come Dio vede le cose. E questa capacità di contemplare la pace al di là delle apparenze! In quelle condizioni in Algeria, la pace era invisibile; nessuno la poteva vedere o contemplare, se non andando al di là delle apparenze, al di là delle scene di violenza, di guerra e di assassinio, che costantemente apparivano come l'unica realtà.

 Sembra che fr. Christian dica che il contemplativo cristiano o musulmano dovrebbe essere capace di andare al di là delle apparenze per scorgere il mondo come Dio lo vede. È un'espressione che nel Testamento ritorna con forza: "Alcuni mi accuseranno di essere ingenuo, ma sappiate che in quel momento la mia più grande curiosità sarà soddisfatta, vedere i figli d'islam come Dio li vede": questa è la fede cristiana.

"Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre  stabilire la comunione e ristabilire la somiglianza, giocando con la differenza". Per me questa è la più significativa definizione della contemplazione cristiana.

 

Il terzo asse del dialogo vissuto a Tibhirine è illustrato da un articolo scritto da uno dei sopravvissuti sull'evento della Visitazione come chiave di lettura della presenza minuscola di cristiani in un mondo musulmano. Questa è un'intuizione che risale a Charles di Foucauld, il predecessore di una presenza cristiana nella marea musulmana dell'Algeria. Fr. Charles disse che dovevamo essere come Maria, che porta in grembo Gesù, quando visita Elisabetta. Quindi attraverso la Visitazione e il servizio reso all'altro noi portiamo un Cristo che ancora non si vede, ma che già portiamo. E questa è stata una delle grandi intuizioni di fr. Charles nell'approccio con i musulmani, che fr. Christian ha ripreso e ha rielaborato con un'aggiunta ulteriore, e l'ha sviluppato in diversi interventi che egli ha fatto predicando i ritiri delle Piccole sorelle di Gesù, tenendo conferenze ai vescovi dell'Algeria, in varie occasioni in cui lui ha avuto la possibilità di parlare con loro. Egli aggiunge a questa dimensione di Cristo nascosto nel grembo di Maria, e che si fa prossimo attraverso il servizio attraverso Maria che aiuta Elisabetta, il fatto che Elisabetta ha qualcosa in sé che la mette in grado di riconoscere il Cristo: porta in grembo Giovanni Battista.

Fuor di metafora, il non cristiano, che noi accostiamo attraverso il servizio e al quale senza neanche parlargli esplicitamente di Cristo, ha in sé qualche cosa, una presenza che lo mette in grado di riconoscere il Cristo che viene, portato da noi. Tanto è vero che come avviene nella vicenda della Visitazione, "non appena è risuonata la tua voce, il bambino che ho in grembo ha sussultato di gioia", è il Battista che riconosce Cristo, non è Elisabetta che riconosce Maria. Questa è stata una comprensione ulteriore di fr. Christian, ed è divenuta quasi una comprensione generale per tutta la chiesa di Algeria man mano che le vicende la portavano a ridursi sempre di più. Alcuni dei servizi che i religiosi e le religiose rendevano alla società algerina (come le scuole) si erano infatti ridotti al minimo. 

Progressivamente è cresciuta questa comprensione, cioè che l'altro, in questo caso l'altro musulmano, ha già in sé, messa da Dio, una presenza che lo rende capace di riconoscere Cristo, anche senza una predicazione esplicita. A me sembra decisivo, sia nel dialogo interreligioso, in particolare nel dialogo con i musulmani, sia nel dialogo con chiunque non confessa Gesù Cristo a propria salvezza: se noi crediamo che ogni essere umano ha impressa in sé l'immagine e la somiglianza di Dio, e può perdere la somiglianza ma non può cancellare l'immagine,  noi dobbiamo anche essere convinti che questa immagine che rimane è una presenza che rende l'altro capace di ritrovare la somiglianza di Dio in Cristo. E questo è qualcosa che forse solo vivendo in certe situazioni come quelle dei monaci di Tibhirine, o della chiesa in Algeria in generale, o dei nostri fratelli e sorelle cristiane che vivono in contesti in cui sono un'infima minoranza irrilevante a cui è impedita la predicazione ufficiale, questa mi sembra una dimensione, una portata evangelizzatrice che dipende solo da noi, acquisita la consapevolezza, innescarla, renderla possibile, metterla in movimento.

Si capisce che con questa comprensione anche quello che dicevamo prima sulla vita quotidiana, sulla condivisione del lavoro, rientri in questo tipo di annuncio implicito, ma che sollecita qualcosa che l'altro ha in sé in germe, e deve solo svilupparsi.

 

Infine, vi è una riflessione sulla quale fr. Christian ha lavorato a lungo e ha scritto parecchio: l'immagine della scala mistica. La scala di Giacobbe, che ritorna anche nella Regola di Benedetto, ha due montanti appoggiati a terra e la sommità arriva in cielo. Fr. Christian rilegge questa scala di Giacobbe in modo originale: i due montanti sono le due fedi, quella cristiana e quella musulmana. Naturalmente lo spazio tra l'appoggio della scala e la sommità è il mondo spirituale, simboleggiato nella scala di Giacobbe dagli angeli che salgono e scendono gli scalini, che allo stesso tempo tengono insieme e tengono distanti i due montanti che non s'incontrano, e contemporaneamente formano la scala: senza gli scalini, non c'è una scala.

Fr. Christian osserva che gli scalini ben fissati nei due montanti delle due fedi sono una serie di elementi della vita spirituale che noi abbiamo in comune; vi è perciò una modalità cristiana e una modalità musulmana di fare entrare lo stesso scalino nella scala. Egli enumera queste dimensioni spirituali presenti nelle due fedi, che non si confondono, ma sono della stessa natura, e che sono, secondo lui: “Il dono di sé all’assoluto di Dio”; “islam” significa “abbandonarsi”: il musulmano è colui che è abbandonato in Dio. Ma la capacità di lasciare tutto da parte per immergersi in Dio è esigenza richiesta anche al cristiano.

Il secondo scalino è la preghiera regolare, l’aver dei momenti determinati di preghiera durante il giorno, durante l’anno. Questo vale ancora di più per un monaco cristiano, ma anche ai laici è necessaria la preghiera alla mattina e della sera, come è sempre stato insegnato, fin da piccoli.

Il terzo scalino è il digiuno, anche se con significati diversi. Per noi è qualche cosa che risale al digiuno già veterotestamentario, ma che si riferisce anche al digiuno di Gesù nel deserto e che assume anche una finalità caritativa. Riconoscere questo elemento di ascesi che è il digiuno, comune agli appartenenti alla fede musulmana, ci aiuta a capire una pratica cristiana che ormai è stata quasi completamente abbandonata: nel mondo cristiano occidentale, cattolici e protestanti, praticamente non si digiuna più. Se invece si va nel mondo ortodosso, in contatto più stretto con il mondo musulmano, i cristiani vivono il digiuno con un’intensità pari al quella dei musulmani nel loro Ramadan, anche se con un significato e un’interiorità diversa.

In questo senso il dialogo può non farmi cambiare la mia fede, ma farmi riscoprire elementi della mia fede che io avevo trascurato, ritenendoli secondari, non così significativi. Poi vedendo l’altro come lo vive, capendo il senso di ciò che sta dietro una certa pratica, prendo atto della sua importanza per la mia fede. Nel mondo cristiano copto ci sono più di duecento giorni di digiuno all’anno: “digiuno” vuol dire non mangiare nulla fino a sera e poi a sera non mangiare la carne e i latticini; solo i legumi. Si mangia un solo pasto, come dice san Benedetto nella Regola, verso sera, senza la carne. Questo è quello che fanno i musulmani a Ramadan. I musulmani  avevano copiato dai cristiani copti già presenti nella penisola arabica come fare il digiuno.

Un altro scalino è la condivisione, che si collega allo scalino successivo che è l’elemosina. Una delle cinque pratiche dell’islam è il fare elemosina. Per molti versi, il modo di vivere la povertà cristiana è innanzitutto quello della condivisione dei beni, e del dare il superfluo.

Un altro elemento spirituale è la conversione del cuore, un altro ancora è la memoria incessante della divina presenza, la memoria Dei, che troviamo in san Benedetto e in tutta la tradizione cristiana. Nella tradizione musulmana troviamo il richiamare alla memoria i 99 nomi di Allah, il fare memoria costantemente della presenza del Signore, e il comportarsi come se Dio ci vedesse.

La pratica dell’ospitalità: anche questo è chiesto al fedele musulmano, come al cristiano. Ci sono dei contesti socioculturali che lo richiedono perché per tutti i popoli semitici che abitano nel nord dell’Africa, ebrei, musulmani, cristiani, l’ospitalità è sacra. Se nel deserto tu non fai entrare nella tua tenda chi si è perso e bussa alla tua tenda, tu lasci che quell’altro muoia. Se non apriamo una porta all’altro, lui sta fuori e muore. Com’è oggi la situazione nella nostra società? L’ospitalità ci mette davanti il fatto che il mio essere aperto o chiuso è motivo di vita o di morte per l’altro. E questo lo sanno anche le popolazioni animiste dell’Africa. Se io vivo in condizioni difficili in ciò che possiamo chiamare “casa” – un semplice riparo, una tenda, una capanna di frasche -  dove io ho trovato la possibilità di vita, e se lo chiudo all’altro, lo condanno a morte. L’ospitalità è sacra, e comune a tutte e due le fedi.

E poi la chiamata alla lotta spirituale, presente nella tradizione cristiana e particolarmente nella vita monastica. La tradizione musulmana la chiama la “grande jihad”, la lotta personale, e poi c’è quella che noi traduciamo come “la guerra santa”, la “piccola jihad”

Comune a entrambe le tradizioni, cristiana e musulmana, è la dimensione del pellegrinaggio. Bisogna andare alla Mecca almeno una volta nella vita. Ma la dimensione del pellegrinaggio che vivono anche quando non possono permettersi di andare alla Mecca, e a cui sono chiamati tutti è quella interiore che si collega alla conversione del cuore, al ritornare al Signore.

 

Questi mi sembrano i quattro assi più significativi. Che cosa ciò può dirci oggi, qui? Alcune cose  già sono state indicate. Credo che sia ancora più fondamentale questo tipo di approccio, cioè l’affrontare il problema del dialogo come qualcosa che non ci inventiamo, ma è un essere attenti a dove viviamo, accanto a chi viviamo, che cosa brucia nel cuore dell’altro. Se noi ci esercitassimo in questo ci verrebbe spontaneo l’esigenza del dialogo, del conoscere l’altro, del capire perché fa quello che fa. Secondo me, i bambini ci sono maestri in questo. Con la loro curiosità e con i loro “perché” hanno una naturalezza di approccio che servirebbe a noi per cogliere, per discernere le opportunità che ci vengono date, proprio perché il dover rendere conto all’altro mi obbliga a riscoprire le motivazioni di fondo di tante cose che o non facevo più, o facevo per abitudine. Se l’altro ti fa una domanda: “Perché si fa digiuno il venerdì santo e si fa festa a Pasqua?” e così via, bisogna spiegare tutto a qualcuno che non sa niente di tutto quello, non si può rispondere: “Perché si fa così”. Non va più bene neanche con i bambini.

Ci aiuta poi a porre le giuste domande anche all’altro. Questo vale per i fedeli delle altre religioni, e anche per i non credenti. Sono i non cristiani che ci chiedono conto della speranza che è in noi. Non serve un prontuario di risposte, ma  una revisione dei motivi che ci fanno vivere in un certo modo o non vivere in un altro modo. Questo dovrebbe aiutarci a far capire che vale di più motivare qualcosa, che non affermare e gridare un assoluto di cui non sappiamo dare la motivazione.

Guido Dotti, monaco di Bose

 

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