"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Il dialogo interreligioso monastico in India: 
un profilo teologico dei protagonisti
 

di Paolo Trianni

(Pontificia università gregoriana - Pontificio ateneo Sant'Anselmo)


 

 

[Conferenza tenuta a Roma il 15 Maggio 2007, presso l'Istituto di studi interdisciplinari su religioni e culture della Pontificia università gregoriana]

 

          

            Il dialogo interreligioso in India è stato ed è profondamente monastico. Come era inevitabile che fosse, dal momento che le religioni indiane hanno un'impronta fortemente monastica, ascetica e mistica.

            Va sottolineato, inoltre, che il dialogo interreligioso in India, almeno quando lo si intende come tentativo di assunzione culturale, ha delle radici antiche. Esse, per esempio, si possono far risalire a un personaggio come il gesuita Roberto De Nobili, che, già nel 1500, assunse il costume vegetariano, indossò l'abito arancione dei monaci indiani, imparò le lingue del posto, e fece molti altri sforzi di adattamento. La sua "simpatia" verso la cultura indiana fu tale che ebbe anche dei conflitti con le autorità, a cui poté sfuggire solo grazie alle influenti amicizie che aveva la sua famiglia a Roma.

 

 

Brahmabandhav Upadhyaya

 

            Il vero precursore, però, di quello che oggi viene definito dialogo interreligioso monastico, è stato Brahmabandhav Upadhyaya, un brahmano che si convertì al cristianesimo alla fine dell'Ottocento. Brahmabandhav voleva combinare Shankara con Tommaso e Benedetto, e a tal fine si diede a un'intensa vita culturale pubblicando anche due riviste. Soprattutto, però, intuì che il monachesimo cristiano, per essere accolto dall'India, doveva adattarsi ai suoi modelli ascetici. Istituì, quindi, ma sarebbe meglio pensò di istituire, un Ordine con due diversi tipi di monaci: uno itinerante, a mo' dei samnyasin indù, e uno cenobitico, come i benedettini appunto. Gli ashram di questo Ordine, inoltre, per quanto riguarda il cibo, l'atteggiamento nei confronti delle caste, l'abbigliamento e anche la liturgia, avrebbero dovuto fare ogni sforzo per assimilare i costumi sociali e la cultura indiana.

I problemi per Upadhyaya arrivarono alla fine dell'Ottocento quando il delegato apostolico in India segnalò alcuni suoi presunti errori teologici. Upadhyaya venne perfino a Roma per difendersi, ma i tempi non erano ancora maturi per degli sforzi dialogici così innovativi. Il progetto di creare l'innovativo ordine monastico quindi tramontò, e le persone che egli aveva già iniziato a coinvolgere si dispersero.

 

            Non è un caso, per sottolineare comunque la sua rilevanza, che i tre veri fondatori del dialogo interreligioso monastico in India: Jules Monchanin, Henri Le Saux e Bede Griffiths abbiano tutti guardato a lui non soltanto come a un precursore, ma anche come a un vero e proprio padre spirituale.

            Quando Jules Monchanin e Henri Le Saux fondarono l'ashram di Shantivanam, per esempio, di cui ha poi preso le redini Bede Griffiths, assunsero esplicitamente Brahmabandav Upadhyaya come modello (tanto è vero che l'altro nome dell'ashram Saccidananda, deriva da lui). Le Saux e Monchanin, cioè, cercarono di imitare i suoi adattamenti, ma anche di evitare gli errori e gli eccessi che lui aveva commesso.

            Sulla scia antesignana di Upadhyaya, quindi, al di là del fatto che ci sarebbero anche altri personaggi di cui parlare, sebbene meno rilevanti, si possono presentare le tre figure principali che emergono indubbiamente per la loro preparazione teologica, per il coraggio, per l'originalità e per l'incidenza che hanno poi avuto non solo sulla Chiesa indiana, ma su tutta la spiritualità cristiana degli ultimi decenni: Monchanin, Le Saux e Griffiths.

            Al di là della loro vita, sulle quali darò comunque delle indicazioni, vorrei piuttosto soffermarmi sulle loro innovative piste teologiche.

            Presento, quindi, questi tre autori secondo una linea cronologica, che però è anche, su un piano teologico, necessariamente gerarchica. Jules Monchanin, cioè, è stato il primo ad arrivare in India, e, dal punto di vista di ciò che ha seminato teologicamente, è il personaggio più importante. È doveroso dirlo, proprio perché la sua figura è un po' emarginata, anche se in verità la sua teologia ha formato quella di Le Saux e, a sua volta, quella di Le Saux ha influenzato, non però senza note critiche e distinzioni, quella di Griffiths.

 

 

Jules Monchanin

 

            Jules Monchanin è stato senza dubbio uno dei grandi teologi del Novecento. Anche se ha scritto pochi articoli, i suoi lavori sono tutti di una grande profondità e lungimiranza. Era nato nel 1895 nei pressi di Lione ed è morto a Parigi nel 1957. È possibile portare due esempi della sua notevole cultura e intelligenza teologica. De Lubac, che divenne suo amico e scrisse poi un saggio su di lui, un giorno, agli inizi degli anni Trenta, venne incaricato di tenere dei corsi di Storia delle religioni su cui si sentiva impreparato. Gli dissero: "Perché non vai in quella parrocchia di periferia – Monchanin era allora un giovane prete di periferia molto impegnato nella difesa dei diritti dei minatori immigrati – vedrai che potrà aiutarti". De Lubac ci andò e rimase impressionato, perché lo accolse con un testo in sanscrito e lo intrattenne spiegandogli la metafisica di Nagarjuna. Un secondo esempio lo possiamo ricavare quando un giorno si recò da Bulgakov, uno dei massimi esponenti del pensiero ortodosso. Quando terminarono il loro dialogo, Bulgakov disse a uno dei suoi assistenti che non aveva mai trovato nessuno in grado di comprenderlo così profondamente.

            Monchanin, tuttavia, benché tutti lo volessero avviato a una carriera accademica, volle andare missionario per l'India. Nel 1939 partì per questo paese, e, una volta arrivato, il vescovo lo assegnò a un villaggio sperduto. Lì Monchanin visse degli anni di grande isolamento, acuito anche dalla guerra. Poi gli arrivò la lettera di un monaco francese che aveva saputo della sua volontà di creare un monastero che riproducesse la struttura degli ashram indiani, e Monchanin ne fu felicissimo.

            I due francesi si accordarono, e, grazie al consenso e all'adesione del vescovo Mendonca, che va celebrato perché concesse loro delle libertà straordinarie per l'epoca, come quella di indossare la kavi (l'abito color zafferano), di soggiornare presso ashram indù o di costruire la cappella in stile indiano, iniziarono una vita poverissima e di grandi sacrifici. Questo va detto perché si rischia di idealizzare la loro iniziativa, e invece tra zanzare, umidità e disagi di ogni tipo la loro vita era veramente difficile.

            Insieme scrissero un libro sul monachesimo cristiano in India, An Indian Benedectine Ashram, tuttavia i rapporti tra loro si deteriorano progressivamente. Sebbene la stima reciproca, forse finanche ammirazione, rimarrà sempre, sia sul piano della convivenza che su quello teologico si manifestarono delle differenze quasi inconciliabili. Sul piano della convivenza va detto che Monchanin era un contemplativo poco adatto alla vita pratica e quindi toccavano a Le Saux tutte le incombenze materiali. Sul piano teologico, invece, Le Saux incominciò a sentire fortemente l'attrattiva per l'ideale itinerante del samnyasin e la seduzione verso l'advaita (la non dualità).

            Monchanin, in altre parole, aveva un suo messaggio teologico da proporre all'India nutrito dai padri greci, come Gregorio di Nissa, dai mistici neoplatonici, come Ruysbroeck, o anche da teologi moderni come Teilhard de Chardin. Grazie a questa, e ad altre fonti, proponeva all'India una visione di cristianesimo vicina alla sensibilità indiana, ma comunque a essa alternativa. Le Saux, invece, sentiva il bisogno di un'integrazione maggiore, sia teologica che esistenziale. Al di là di queste divergenze, comunque, nel 1957, venne scoperto un tumore a Monchanin. Le Saux lo accompagnò all'aeroporto perché la sua idea era quella di fare un'operazione chirurgica in Francia e poi rientrare; invece era troppo tardi e vi morì.

            La vita di swami Parana Arubi Anandam, questo era il suo nome indiano, può quindi sembrare un fallimento, perché Shantivanam, all'epoca, non avuto avuto alcuna vocazione indiana, e i suoi scritti non erano conosciuti che da pochissimi amici. All'opposto, invece, egli è stato veramente un seme essenziale: Shantivanam, infatti, con l'arrivo di Griffiths ha conosciuto un grande sviluppo e, negli anni successivi, tutta la teologia indiana ha finito con l'attingere alle sue intuizioni.

 

            Per citare direttamente alcune sue espressioni:

Ø                   L'ortodossia teologica: «Cristo è nella sua unica Persona, Dio assoluto e uomo assoluto, Mediatore tra il Creatore e la creazione, Unificatore del mondo in Dio».

Ø                   L'ecclesiologia non monadica: «L'unità del Corpo mistico della Chiesa temporale ed eterna è unità non di assorbimento ma di comunione, non monadica ma pleromatica: Dio "tutto in tutti"».

Ø                   La Chiesa come sacramento verso lo spirituale: «La Chiesa, suo corpo, è – dalla Pentecoste alla Parusia – il posto dove lo spirituale diventa incarnato, dove lo storico diventa pourous verso l'eterno».

Ø                   L'induismo per Monchanin: «L'induismo è una forma religiosa oscillante tra monoteismo e panteismo […] e non riesce a trovare un proprio equilibrio neppure nelle sue tre forme cristallizzate: Úankara, bhakti, Râmânuja».

Ø                   La strategia interreligiosa: «La Chiesa, nei primi venti secoli della sua storia si è foggiata – nella sua struttura esteriore – sulla civiltà occidentale: oggi invece l'esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa quello di altre civiltà, implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione dell'essenziale dall'accidentale, e soprattutto una interiorizzazione tramite una intensa vita contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e sulle istituzioni».

Ø                   Il ricorso ai padri greci: «La teologia dei padri greci ... specialmente quella di Gregorio di Nissa, mi è così congeniale che parrebbe quasi uscita dalla mia mente. Questa è la sola forma (con alcune riserve sui dettagli) in cui io posso pensare il cristianesimo. Non riesco a convincermi che la forma indiana del pensiero cristiano (per lo meno quella di cui ho potuto iniziare l'elaborazione) debba essere sostanzialmente diversa da questa: piuttosto [sono convinto che si debba] riscoprirla per una via totalmente diversa e portarne alla luce il rigore e la perfezione».

Ø                   Il ricorso alla mistica di Ruysbroeck: «È la perfetta sintesi tra un apofatismo spinto all'estremo e una profondissima visione trinitaria. Nel punto più alto dell'esperienza dell'unione indifferenziata, resta però sempre la distinzione tra l'essenza di Dio e l'essenza dell'anima, fondata com'è proprio sulla distinzione trinitaria». «Taulero, Suso e soprattutto Ruysbroeck, pur conservando la distinzione eckhartiana tra Dio immanente e deità trascendente, e pur continuando anche ad applicare a questa deità l'appellativo di "Niente sovraessenziale", rettificano la teologia di Eckhart. Persino nell'appercezione dello stato mistico finale, l'unione senza intermediario e senza differenza, Ruysbroeck resta pienamente trinitario».

Ø                   L'assunzione di Teilhard de Chardin contro il panteismo: «Dal punto di vista sia della filosofia della persona che del pancristismo, l'unione ipostatica della Parola con ogni coscienza è realtà, ma non attraverso l'equivalenza delle coscienze tra loro stesse e con Dio».

Ø                   Contro l'idealismo della maya indù: «Il mondo non è illusione, ma è reale, della stessa realtà di Dio».

Ø                   La cosmologia creazionistica rispetto all'acosmismo indù: «La creazione non ha essere eccetto quello della sua relazione intemporale con Dio».

Ø                   Il personalismo, contro il relativismo personale del Vedanta: «Il vero essere è persona». «L'India non è stata tratta in errore quando ha intuito che l'io in quanto tale non ha consistenza in sé, che la sua genesi, la sua crescita, il suo termine, il suo movimento spirituale è dapprima evasione fuori dall'individualità empirica e finalmente di perdita trasfigurante in colui che è soltanto Essere, Pensiero, Gioia: Saccidânanda. Per l'uomo il divenire è una teopatia, una personalizzazione nel e in virtù del corpo del Risorto, un'inserzione trinitaria. Un tale cristocentrismo è il solo "uno nel molteplice" in grado di fissare millenarie oscillazioni riassorbendo il sincretismo nella plenitudine».

Ø                   La specificità della mistica trinitaria cristiana rispetto a quella indù: «Essenzialmente il misticismo cristiano è perciò partecipazione a Dio, cioè partecipazione alla vita trinitaria. Si tratta di una intuizione che va al di là dell'immagine e del concetto, di una esperienza diretta – frutto non di operazione umana, ma dono di Dio -, di un contatto essenziale con ciò che Dio è in se stesso e per se stesso ... Analogamente l'esperienza mistica dell'Essere divino trino non è un appello a riconsiderare la nostra idea dell'esse? L'esistenza divina è un'esistenza personale. Dio non è né ciò, né egli, né io, ma piuttosto egli è io e io e io. La sua essenza stessa è identica alla sua relazione tripersonale. Ogni esse non è quindi un co-esse, ogni sat un samsat[1], ogni essere un essere insieme? Forse anche la nozione di persona deve essere riformulata. Poiché in Dio la persona è essenzialmente relazione, esse ad alterum un essere per e verso l'altro in quanto altro (e l'alterità di ogni Persona divina rispetto alle Altre è necessariamente infinita), sembra che l'essenza della personalità risieda nella relazione con le altre persone e principalmente con le Persone divine».

Ø                   Le due certezze teologiche di Monchanin: «La beatitudine non consiste soltanto in una visione o conoscenza diretta "facciale", dell'essenza divina, ma anche una partecipazione reale alle stesse relazioni trinitarie ... Il ritmo eterno di Dio diventerà, per partecipazione, il ritmo stesso dell'anima deificata. La seconda verità che ci viene rivelata è che questa partecipazione non sarà affatto un'identità di essenza: Dio resterà sempre il Trascendente, il Totalmente Altro. Per quanto diretta sia la conoscenza e per quanto intima sia l'unione d'amore, la distinzione ontologica tra conoscente e conosciuto non verrà mai meno, ché diversamente si annullerebbe ogni conoscenza, come non verrà mai meno la distinzione ontologica tra amante e amato».

 

 

Henri Le Saux

 

            Il destino di Le Saux è legato profondamente a quello di Monchanin. Il rapporto con lui, anzi, è in fondo la vera chiave della sua vita teologica.

            Le Saux era nato nel 1910 in un paesino della Bretagna, e aveva avuto giovanissimo una vocazione monastica. Però anche lui, benché abbia poi parlato di "pace gregoriana", sentì un'attrazione irresistibile verso l'India. Quando venne a sapere che un prete lionese viveva in India e cercava dei compagni per creare un ashram, si mise in contatto con lui e, ottenuta l'autorizzazione ecclesiastica, nel 1948 partì.

            Le Saux aveva una buona cultura teologica, era stato anche professore di patristica e bibliotecario, ma una volta incontrato Monchanin, per lui divenne una sorta di maestro. È dal lionese, infatti, che imparò le grandi prospettive metafisiche attraverso le quali si poteva sperare di creare un ponte di dialogo tra Oriente indù e Occidente cristiano.

            Sottolineo questo perché, dopo una fase iniziale nella quale Le Saux si scoprì molto più rigido e conservatore di Monchanin, si aprì all'India con uno spirito di assimilazione che il lionese finì per criticare. Le Saux, dunque, anche a causa di queste incomprensioni lasciò Shantivanam per dei lunghi soggiorni presso Arunachala, la montagna sacra dove aveva vissuto anche Ramana Maharishi. Qui ebbe la prima vera immersione con la cultura spirituale indiana e con la mistica dell'advaita, ovverosia la contemplazione non dualistica che impone di mettere da parte ogni dualismo rituale e devozionistico. Consapevole di quanto questa prospettiva religiosa sia inconciliabile con la teologia cristiana entrò quindi in una crisi profondissima. Ciò nondimeno, continuò il suo percorso attraverso la religiosità indiana ed ebbe numerosi contatti: come swami Gnananda, Dinshaw Mehta, Harilal Poonja e altri ancora. Fece anche un pellegrinaggio alle sorgenti del Gange con Raimon Panikkar che fu il suo più grande amico.

            Negli ultimi anni di vita, però, Le Saux individuò una linea teologica nella quale la visione cristiana, filtrata dall'esicasmo, da Teilhard de Chardin e dal neoplatonismo poteva dialogare con l'induismo del tantrismo. Anche sul piano spirituale, inoltre, ebbe grandi esperienze mistiche insieme a un seminarista francese che lo aveva raggiunto in India nel 1972. Il 14 luglio del 1973, dopo un ritiro spirituale, fu colpito da infarto. Quel momento è però coinciso con un risveglio spirituale che lo ha accompagnato fino alla morte sopraggiunta a Indore il 7 dicembre. I diari illustrano appunto il suo tentativo di rileggere in chiave trinitaria tale stato mistico.

 

            Per citare direttamente alcune sue espressioni:

Ø                   Il senso di un incontro con l'India: «Credo si debba andare alle sorgenti indù soprattutto per diventare capaci di abbeverarsi alle più profonde sorgenti cristiane».

Ø                   La necessità dell'esperienza: «Prima di confrontare [teologicamente] e collegare due approcci del mistero divino, il cristiano deve innanzi tutto tentare di comprendere la profondità dell'esperienza religiosa orientale».

Ø                   Il vero dialogo: «Il dialogo vero è possibile solo nell'al di là del dialogo, cioè nel silenzio dello Spirito, là dove si eleva ogni preghiera e comunicano tutti i cuori». «La Verità è il suo solo principio, e l'amore la sola via per arrivarvi».

Ø                   «Il dialogo interreligioso non può rimanere a livello delle mere relazioni sociali ... Esso deve avere come obiettivo la condivisione del meglio e degli aspetti più interiori nella vita delle persone che arrivano al dialogo, perché la religione è in primo luogo un'esperienza viva del divino».

Ø                   Il mondo non idealistico perché permeato dalla shakti (energia divina): «Maya è anche shakti nella sua funzione evolutiva di ritorno all'Uno. Dispersione nella molteplicità, concentrazione nell'advaita. Afferrare con ogni mezzo questa forza della shakti diffusa nel corpo, nella mente, nel mondo».

Ø                   L'importanza della religiosità sacramentale: «Le tappe preliminari non sono pura illusione, come si afferma talvolta in modo troppo semplicistico: la verità che vi è contenuta ha il suo valore, ma esso è limitato al piano nel quale è sperimentata. Questa verità non perde il suo valore e non scompare allorché l'esperienza suprema prende possesso dello spirito».

Ø                   Una lettura indiana di Cristo: «Gesù è il guru che dà la propria carne da mangiare».

Ø                   Il mistero di Cristo e il mistero dell'uomo: «L'immagine più vera di Gesù è l'advaita-aham (io-non-duale) al fondo di me.

Ø                   Il cristianesimo e l'advaita (non-dualità): «Cristianesimo e advaita. Né opposizione né incompatibilità, due piani differenti».

Ø                   L'apofatismo di fondo: «Non una soluzione concettuale, razionale. Se l'advaita è indescrivibile, quanto più lo è il mistero della sorgente ... Noi prendiamo troppo sul serio le nostre verbalizzazioni. Che non decidono né della realtà né delle nostre esperienze».

Ø                   Teologia e ortoprassi: «La trinità non si comprende che nell'esperienza dell'advaita».

 

 

Bede Griffiths

 

            Griffiths è importante perché è una figura di sintesi. A mio avviso nel suo pensiero teologico non c'è una vera originalità, perché tre quarti delle sue idee c'erano già in Monchanin e in Le Saux, però lui le ha rielaborate attraverso una sintesi personale arrivando a una presentazione armonica che manca ai due predecessori. Griffiths, in un certo senso, ha assunto completamente Monchanin, e ha poi cercato di correggere alcune affermazioni "eccessive" di Le Saux dentro l'orbita dell'ortodossia.

            L'aspetto più originale del suo pensiero, da questo punto di vista, è stata l'assunzione della teologia dei suoi due predecessori per poi metterla a contatto con le nuove scienze, nelle quali lui credeva molto: come la psicologia transpersonale di Wilber, la fisica di Capra, Shaldrake e altri ancora.

 

            Griffiths era nato nel 1906 in una famiglia anglicana, e sin da giovane aveva dimostrato una sensibilità mistica. A 16 anni, per esempio, durante una passeggiata in un bosco al tramonto, fece un'esperienza mistica di unione con la natura. Studiò a Oxford e grazie all'amicizia con Clive Staples Lewis si avvicinò progressivamente al cattolicesimo finendo poi con l'entrare nella abbazia benedettina di Prinknash, presso Gloucester. Prima di questo passo, però, si era ritirato con degli amici a vivere in campagna condividendo gli ideali di semplicità insegnati da Gandhi di cui fu sempre un grande ammiratore.

            Anche per Griffiths l'attrazione per l'India, anzi il bisogno dell'India, come dirà lui stesso, fu fortissimo. Fu così che nel 1955 partì per questo paese, e insieme a un cistercense, Francis Mahieu (conosciuto come Francis Acharya), fondò l'ashram cistercense di Kurisumala, sui monti del Kerala. Quando Le Saux lasciò Shantivanam lo chiamò alla guida di questo ashram, che lui fece poi diventare camaldolese. Con swami Dayananda, questo il suo nome monastico indiano, l'ashram-monastero camaldolese ha avuto un grande successo, e sono arrivate anche quelle vocazioni indiane che Le Saux e Monchanin avevano atteso inutilmente.

            Bede fu un grande protagonista del dialogo interreligioso monastico, viaggiò e scrisse molto. È morto nel 1983 rifiutando qualunque tipo di cura che non fosse naturale.

 

            Per citare direttamente alcune espressioni:

Ø                   Cristo centro dell'essere: «Questa esperienza di Cristo come substrato di tutto l'essere deve costituire l'ispirazione del monachesimo cristiano. Infatti ciò significa che in Cristo noi non solo scopriamo il centro o substrato del nostro essere, ma che vi ritroviamo il punto d'incontro con tutti gli altri uomini e con l'intero mondo della natura».

Ø                   La sintesi tra i padri greci e il tantrismo: «La Parola o Figlio, come Logos, è la Forma esemplare di tutta la creazione, il principio di tutte le forme nella natura, mentre lo Spirito è la shakti».

Ø                   Il collegamento con l'esicasmo: «Lo Spirito è l'energia in Dio, la shakti o potenza in termini indù, corrispondente all'energia increata di Gregorio Palamas ... L'energia delle piante e degli animali diviene cosciente nell'uomo».

Ø                   La riflessione pneumatologica: «Nel cristianesimo parliamo dello Spirito, comprendendo che dal fondo originario si sprigiona lo Spirito che è energia increata. Come il Verbo, o Figlio, è la sorgente di ogni forma della natura, così lo Spirito è la sorgente di ogni energia. È l'energia increata, che fluisce eternamente dalla Divinità e che porta poi all'esistenza le energie della materia e della natura. Così natura e materia sorgono come energie create scaturendo dall'energia increata dello Spirito. Si può pensare che l'universo venga all'esistenza come una sovrabbondanza di questa energia, che è amore. L'energia d'amore di Dio è precisamente lo Spirito e quest'energia d'amore fluisce all'esterno per esprimersi nell'universo».

Ø                   Cristo come Atman: «È necessario effettuare la scoperta di Cristo come Atman», «come vero sé di ogni essere».

Ø                   Il ricorso alla teologia negativa: «Dio non è persona nel senso umano. Jhwh, Allah, Vishnu, Shiva sono nomi dati a ciò che non può essere nominato. Gesù stesso è un'espressione di Dio, l'innominabile, in termini umani».

Ø                   Teologia negativa e monachesimo: «Le religioni sono sistemi di miti e riti, di dottrina e sacramenti, che derivano da questo mistero trascendente e cercano di esprimerlo attraverso segni. La Rivelazione è la comunicazione del mistero sotto i segni del linguaggio e del culto di ciò che è al di là di tutti i segni. È compito del monachesimo testimoniare, all'interno di ogni religione, ciò che è al di là della religione, che è essere al di là di tutti i segni».

Ø                   Il ritorno all'Uno: «Ogni persona e ogni cosa vengono reintegrate nell'Uno in un'unità totale, che trascende la nostra attuale comprensione». «Nel Signore cosmico e per mezzo di lui ogni cosa ritorna all'unità trascendente, al di là di ogni concetto».

Ø                   La cristologia come soluzione al panteismo: «Nella visione indù spesso si sente dire che tutte le differenze scompaiono nello stato finale. Noi vorremo dire che queste differenze sono eternamente nella Parola». «Credo che una visione più profonda, in accordo con la visione biblica, sia che il Figlio viene generato dal Padre nell'eternità e che, nella generazione della Parola, viene generata l'intera creazione». «In questa Persona cosmica, nel Verbo, nel Figlio, sono contenuti tutti gli archetipi di ogni essere creato».

Ø                   La creazione come divenire opposto all'idealismo vedantico: «La creazione veniva rivelata per quello che è, un simbolo della realtà eterna manifestato nel tempo, un processo di "divenire" che va sempre verso la sua realizzazione nell'essere assoluto, in cui ogni creatura parteciperà, secondo la sua capacità, alla gloria divina».

 

 

Conclusione

 

            Per cercare di fare una lettura di sintesi dei tre autori, si può dire che sia Monchanin che Le Saux e Griffiths, hanno risposto alle grandi sfide teologiche dell'India: in particolare il panteismo, il relativismo e l'idealismo. Ciascuno di loro ha sicuramente delle peculiarità, e tuttavia c'è in fondo una linea e una continuità di fondo, dal momento che Le Saux e Griffiths hanno sostanzialmente sviluppato in modo personale intuizioni che risalivano a Monchanin. Attraverso una cristologia e una cosmologia che ha le sue radici nei padri greci e in Teilhard de Chardin. Tutti e tre, cioè, hanno dialogato con l'India cercando di arricchire, attraverso il dialogo, sia il cristianesimo che l'induismo, al di là delle differenze dogmatiche di fondo insuperate e forse insuperabili.

 

Paolo Trianni



[1] È questo un neologismo inventato da Monchanin per esprimere al tempo stesso una verità antropologica e teologica.

 

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