"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Il monachesimo indù

 

di Paolo Trianni

(Pontificia università gregoriana - Pontificio ateneo Sant'Anselmo)


 

 

[Lezione tenuta presso l'abbazia benedettina di Seregno (mi) il 7 novembre 2005]

 

 

 

Iniziamo col dire una cosa molto semplice, ma anche molto vera: che la spiritualità indiana ha una tradizione monastica molto antica. Voi sapete che, un po' come nel cristianesimo, l'induismo conosce una rivelazione (loro la chiamano úruti, che vuol dire appunto qualcosa che uno ha semplicemente udito) e una tradizione (smrti). Questa rivelazione è divisa in quattro parti: la parte più corposa si chiama Veda, composta da raccolte che si chiamano Samhitâ (poi arricchita e completata da altri gruppi di testi che si chiamano Brâhmana, Âranyaka e poi le Upanisad, sono le più famose perché sono la parte finale dei Veda e la parte più metafisica e mistica). I Veda in se stessi sono composti da quattro raccolte, di cui la raccolta più antica si chiama Rg-Veda. Il Rg-Veda, che è composto principalmente da inni, risale circa al 1200 a.C., ma a livello orale è sicuramente molto più antico. Uno dei suoi inni disegna il ritratto mitico dell'asceta. Questo dimostra che 3500 anni fa l'India conosceva già una tradizione ascetica consolidata.

 

Non dobbiamo però pensare a un ascetismo e meno che mai a un monachesimo organizzato. Una prima caratteristica di fondo del monachesimo indiano è che per tremila anni ha vissuto in uno stato, dal punto di vista amministrativo, informe, un po' come quello cristiano prima di Calcedonia. Un elemento da non dimenticare mai, infatti, è che l'India non ha un'autorità centrale come la chiesa. In India ci sono religioni diverse, scuole filosofiche diverse, e quindi anche una vita monastica e religiosa diversa. È vero che tutti gli indù hanno in comune il riferimento ai Veda, ma è altrettanto vero che lo interpretano in maniera anche opposta, e quindi noi non possiamo parlare che di alcuni aspetti generali.

 

Prima di parlare del monachesimo in se stesso, però, bisogna parlare della società indiana, del sistema sociale indiano, perché nella società indiana l'ideale del monaco non era un appendice, una realtà al margine della società, come è forse in Occidente, ma è il modello, la chiave, la colonna portante della vita sociale in se stessa.

La società indiana è composta da quattro famose caste, o categorie sociali (si chiamano varna): i brâhmana (cioè i sacerdoti), gli ksatriya, (cioè i principi e i guerrieri nobili), i vaiúya, (cioè la gente del popolo), e poi gli úûdra (che devono servire le tre categorie più elevate). Ma soprattutto conosce tre stadi di vita (per le classi nobili) che si chiamano âúrama. Il primo stadio di vita è quello del brahmacarya, durante il quale il giovane deve vivere come uno studente religioso nella casa di un maestro (quasi come un seminarista, in perfetta castità). Poi viene il grhastha, in cui uno fa l'esperienza della vita di famiglia, poi viene la fase del vânaprastha, uno che si deve ritirare dal mondo e vivere nelle selve o comunque ai margini del villaggio; può farlo con la moglie, ma deve dedicarsi alla lettura dei testi sacri (gli Âranyaka) e alla meditazione. Ma questa fase può essere solo la preparazione, il preludio, a un quarto stadio, quello del samnyâsa, in cui un uomo diventa samnyâsin, un rinunciante nel senso più vero della parola.

Se vogliamo, in questa struttura sociale possiamo vederci una duplice saggezza: la prima è un concetto tipicamente indiano, cioè che ogni uomo incarna una via religiosa diversa. O meglio, si pensa che l'evoluzione spirituale abbia bisogno di momenti di vita diversi, e quindi non ci possa essere un modello troppo particolare che vale indistintamente per tutti, ma anzi, in base al temperamento e alle esigenze personali, si adatta il cammino spirituale. La seconda, e questa è bellissima, è che ogni uomo è destinato a farsi monaco. La vita escatologica non è una cosa per pochi, riservata a un'élite, a pochi eletti, ma era l'ideale, lo sbocco esistenziale di tutti (o quasi tutti, non degli úûdra).

 

Però prima di parlare del monaco, del rinunciante, dobbiamo prima parlare del valore e dell'importanza della rinuncia, come atto fondamentale del monaco, nei testi sacri indiani. L'India, come abbiamo detto, ha un patrimonio di scritture le cui radici si perdono nella notte dei tempi (almeno a livello orale), quindi è ovvio che al suo interno, su tanti temi, ci sia un'evoluzione, ci siano cambiamenti anche grandi. Nei testi più antichi dei Veda non si parla che eccezionalmente di rinuncia e, in modo del tutto simile ai salmi della tradizione ebraica, si chiede piuttosto una vita lunga vissuta in prosperità e pienezza. Ma con la fine dell'epoca vedica, con le Upanisad, emerge con forza la figura dell'asceta rinunciante, di cui questi testi tessono l'elogio, mentre prima il centro era sicuramente rappresentato dal rito celebrato dai sacerdoti.

Da questi testi in poi la parola "rinuncia" prevale su tutti gli altri vocaboli del dizionario spirituale. È interessante e significativo, da questo punto di vista, elencare con quanti sostantivi diversi è indicato il monaco, l'asceta. Ci sono termini generici come parivrâjaka (monaco errante) e sâdhu (retto, virtuoso, buono), e poi ce ne sono di specifici, come muni (colui che ha fatto voto di silenzio, mauna) avadhûta (colui che ha rinunciato a tutto), yati (colui che ha messo sotto controllo le passioni), yogin (colui che segue lo yoga), pâtrin (colui che porta la tazza per le elemosine), dandin (colui che porta un bastone), tapasvin (colui che pratica il tapas, cioè l'ascesi che genera calore).

La rinuncia quindi è un imperativo della vita spirituale degli indù, e forse non c'è un testo più sinteticamente bello di quello della Mahânârâyana Upanisad, che al versetto 530 dice: "Rinuncia, così è chiamato Brahman [cioè Dio] da coloro che pensano".

Ci potremmo chiedere: ma la rinuncia indiana è uguale o è diversa da quella cristiana? Qui il discorso si complica un po'... La rinuncia indiana è legata più alla logica che alla croce. Non è un sacrificio, non è neanche tanto una violenza che si fa a se stessi, è qualcosa di semplicemente inevitabile e logico per la persona che ha compreso la natura illusoria del mondo. Non che manchi una rinuncia teistica, cioè legata a un sacrificio, a una penitenza, a un voto che si fa alla persona divina, però prevale una sorta di rinuncia oggettiva. L'indù sa che per scoprire la realtà vera deve rinunciare all'illusorietà del mondo. Un indù consapevole, cioè, direbbe: "Non soffro a rinunciare alle ricchezze, a una compagna o compagno, all'orgoglio dell'ego, perché queste cose sono sciocchezze. Il termine tecnico è mâyâ, qualcosa che equivale al sogno.

 

Una breve carrellata di testi sul monachesimo indù consente di avere un quadro di tale logica ascetica.

 

 

Il prototipo del monaco

 

In lui c'è il fuoco, in lui l'acqua,

la terra e il cielo sono in lui.

Egli è il sole che il mondo intero contempla,

la luce stessa, l'asceta dai lunghi capelli.

Cinti di vento, fango d'ocra è il loro vestito.

Da quando dei sono in essi penetrati

vanno seguendo le ali del vento

gli asceti del silenzio.

Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,

i venti abbiamo soggiogato come destrieri.

E voi, comuni mortali, quaggiù,

non potete vedere oltre i nostri corpi.

Fra cielo e terra, librandosi nell'aria,

dall'alto egli mira la forma di ogni cosa.

Si è fatto, l'asceta silenzioso,

amico e collaboratore di tutti gli dei.

Cavalca i venti, compagno del loro soffio,

dagli dei inspirato.

Sta nei due mari,

a oriente e a occidente, il silenzioso asceta.

L'orma segue di tutti gli spiriti,

delle ninfe e degli animali della foresta.

I pensieri loro conosce e, con l'estasi innalzato,

ne diviene dolce amico, l'asceta dai lunghi capelli.

(Inno del Rg-Veda X,136, ca. 1200 a.C.)

 

 

Il principio generale

 

Rinuncia, così è chiamato Brahman da coloro che pensano (Mahânârâyana Upanisad 530).

 

Distacco dagli oggetti del senso, umiltà, percezione del male, della nascita, della morte, della vecchiaia, della malattia e del dolore, distacco da ogni cosa, anche dalla moglie, dai figli, dalla casa; disposizione uguale e costante per tutti gli avvenimenti sia desiderabili che non desiderabili, devozione a me (Signore Krsna) con sincerità e disciplina; ritiro in luoghi solitari, senza prendere alcun piacere dalla compagnia degli uomini; costanza nella conoscenza dello spirito; retta visione dell'oggetto della vera conoscenza: questa è vera saggezza (Bhagavad gîtâ 13,8-11).

 

 

La rinuncia legata alle fasi della vita

 

Allorché un capo famiglia vede la pelle coprirsi di rughe e i capelli incanutirsi, e si vede attorniato dai nipoti, allora può ritirarsi nella foresta (Mânava-dharma-úâstra o Manu-smrti VI,2).

 

 

Lo stato finale che è un non-stadio

 

Dopo aver trascorso la terza parte della sua vita in eremitaggio nella foresta, egli può, rinunciando ad ogni attaccamento, vivere da asceta nel quarto periodo della sua esistenza (Mânava-dharma-úâstra o Manu-smrti VI,33).

 

 

Il monaco deve stare solo e in silenzio

 

Vada in giro in silenzio assoluto, non interessandosi affatto dei divertimenti che gli possono venire offerti (Mânava-dharma-úâstra o Manu-smrti VI 6,39).

 

Cammini sempre da solo, senza alcun compagno (Ibid. VI,42).

 

Il vero asceta sta sempre da solo; se due stanno insieme, formano un paio; se tre stanno insieme, sono come un villaggio; e se più (di tre), diventano come una cittadina. Agendo così si allontanano dal loro dharma, perché cominciano a scambiarsi notizie del principe attuale, delle elemosine ricevute e, tramite un contatto intimo, si accrescono tra di loro sentimenti di affetto, di gelosia o di malvagità (P.V. Kane, History of Dharmaúâstras, vol. II, Poona 1941, p. 933).

 

 

La descrizione classica del samnyâsa

 

Egli non deve più dire alcunché suo ... Non deve né desiderare di vivere, né desiderare di morire, deve attendere il tempo giusto, come un salariato attende il suo salario. Deve peregrinare sempre solo, sempre tacere ... Non ripagare mai l'ira con l'ira, ma benedire piuttosto coloro che lo maledicono. Veritiero quando parla, deve trovare la gioia nell'assoluto (Jâbala Upanisad 5 e Manu-smrti VI,45-49).

 

 

Lo spogliamento di tutto come atto razionale

 

Il brahmano che considera i mondi costruiti (attraverso le opere) dovrà arrivare all'indifferenza, perché ciò che non è fatto non lo si ottiene attraverso ciò che è fatto (Mundaka Upanisad I,2,12).

 

Il giorno stesso in cui si libera dall'illusione (del mondo), quello stesso giorno egli lascia tutto e diventa un asceta (Jâbâla Upanisad 4).

 

 

Quella del monaco è via apofatica per eccellenza: sia sul piano esistenziale che intellettuale

 

Egli [âtman brahman] non può essere raggiunto né con la parola, né con la mente, né con la vista. Come lo si può afferrare se non esclamando: Egli è? (Katha Upanisad VI,12).

 

Coloro che sono giunti alla conoscenza dell'âtman superano il desiderio di avere dei figli, il desiderio delle ricchezze, il desiderio dei beni di questo mondo e conducono una vita da asceti mendicanti. In effetti, il desiderio di avere figli è un desiderio di ricchezza e il desiderio di ricchezza è desiderio dei beni di questo mondo; tutto ciò non è che desiderio. Che il brahmano dunque vada oltre il sapere e che conduca una vita da bambino. Quando è al di là tanto del sapere che dello stato d'infanzia, egli diviene un asceta silenzioso. È soltanto quando è giunto al di là dell'ascesi e della non-ascesi che egli conosce veramente il brahman (Brhadâranyaka Upanisad III,5).

 

 

Il rinunciante ottiene infine l'immortalità

 

Conosci il brahman attraverso la fede, la devozione, la concentrazione. Non è attraverso l'azione né la progenie o la ricchezza, ma soltanto attraverso la rinuncia che si raggiunge la vita eterna (Kaivalya Upanisad 2).

 

In verità coloro che nella foresta vivono nell'ascesi e nella fede, pacificati, sapienti e nutrendosi delle offerte, privi di passioni, vanno per la porta del sole, là dov'è l'âtman imperituro..." (Mundaka Upanisad I,2,11).

 

Ora possiamo finalmente parlare del samnyâsin, la figura che domina il monachesimo indiano. Un teologo del dialogo interreligioso, forse il più geniale, Raimon Panikkar, ha scritto che l'India conosce due ideali legati al monaco: quello del monaco come uomo perfetto, pieno di compassione, che dice sempre la verità e controlla pienamente le sue passioni, e un secondo ideale in cui il monaco è l'uomo della trascendenza totale, del superamento assoluto. Il primo ideale Panikkar lo chiama "umanesimo", il secondo "angelismo", affermando che nelle Upanisad queste due correnti si fondano (lui dice anche che il monachesimo cristiano cerca piuttosto una via media fra le due).

Ecco il samnyâsin, che è il cuore del monachesimo indiano, esprime in maniera radicale proprio l'angelismo. Quello che dobbiamo sottolineare è che questa forma di rinuncia e di rinunciante è molte diversa da quella cristiana, anzi san Benedetto la critica. Se noi prendiamo già la Regola del maestro e poi la Regola di san Benedetto, vediamo che nel primo capitolo elenca quattro specie di monaci. Al primo posto mette i cenobiti, al secondo gli eremiti, al terzo i sarabiti, definendoli "tristissima specie di monaci", e poi al quarto i monaci girovaghi che definisce peggiori dei sarabiti. L'India, invece, non solo permette la coesistenza di questi diversi stili monastici, ma esalta piuttosto quella quarta categoria criticata da Benedetto.

E questo forse perché l'India ha una idea di rinuncia più radicale di quella cristiana. Il monaco deve essere libero da ogni attaccamento, anche da quello al luogo. La stabilitas del monaco deve essere nel cuore, non in un posto specifico.

Le regole del samnyâsin puntano veramente a quell'angelismo di cui diceva Pannikar; il monaco, infatti, è in primo luogo colui che non ha più nulla a che fare con la terra. Il samnyâsin è colui che non è più di questo mondo, che vive già dall'altra parte, sull'altra riva. L'etimologia di samnyâsin deriva dal prefisso sam, "perfettamente", unito a nyâsa, che vuol dire "abbandono", "lasciar cadere", "depositare sul suolo"; quindi il samnyâsin è colui che ha abbandonato tutto che è oramai è fuori da tutto. Quando muore un monaco, per esempio, cosa eccezionale per l'India, il suo corpo non viene bruciato, come per tutti gli altri mortali, viene sepolto o abbandonato alla corrente del fiume. Perché il monaco pur essendo ancora in questo mondo fa già parte della realtà assoluta.

 

Molto bello è il rito con cui si diventa samnyâsin. Inizia con un rito funebre, per simboleggiare la sua morte al mondo. Poi vengono fatte varie offerte sacrificali al fuoco sacro, per assicurare una protezione divina e per la purificazione. Poi, con l'intenzione, colloca questo fuoco sacrificale dentro di sé, proprio per ricordargli che da allora in poi non è più obbligato a nessun sacrificio esterno perché tutti i sacrifici devono essere interiori. Da quel momento dà l'addio per sempre a tutti i suoi parenti e amici e rinuncia a tutti i suoi beni materiali. Alla presenza di tutti fa un giuramento solenne di rinuncia perpetua, e per tre volte ripete: "Ho lasciato tutto". Immediatamente gli vengono tolti i segni di casta (la corda sacra e la ciocca di capelli), perché da quel momento non fa più parte di alcuna casta. Gli viene tolto l'abito secolare e viene vestito con la veste ocra, gli vengono poi dati un bastone e il vaso dell'elemosina, simboli del suo pellegrinare. Successivamente fa un atto di completa sottomissione e obbedienza al guru, che gli comunica un mantra specifico per lui. Nessuno, infatti, può definire se stesso samnyâsin se non è iniziato da un altro samnyâsin. Riceve quindi un nome nuovo, e il rito si conclude quando gli viene conferito il potere di iniziare al samnyâ altri aspiranti.

 

Dopo la consacrazione, la vita che aspetta il samnyâsin, al di là del legalismo di cui certamente è maggiormente impregnata la cultura cristiana occidentale, è non diversamente legata a dei voti: povertà assoluta, rinuncia, solitudine, silenzio, segretezza, preghiera, contemplazione, amore universale.

Ricevuta l'investitura il samnyâsin, con la sua specifica veste ocra, il kâvi, diventa immediatamente riconoscibile, nel pur variegato e colorito mosaico religioso indù. Questa veste diventa il suo unico possesso, tuttavia si è reso talmente libero dalle convenzioni che può andare in giro anche nudo. Il samnyâsin, quindi, dopo la consacrazione, non può avere casa, dimora o protettore; non gli è consentito di dormire in un luogo per più di tre notti. Degli obblighi rituali indispensabili nelle altre fasce di vita deve conservare solo la triplice abluzione quotidiana, mentre il culto del fuoco sacro è sostituito da pratiche interiori come la meditazione.

Il rinunciante itinerante può avere un fagottino che può anche contenere dei libri, la ciotola per le elemosine (kamandalu) e un bastone (danda) che usa anche per il prânâyâma, e un rasoio con il quale deve estirpare ogni pelo del corpo. Di norma è tenuto a osservare il silenzio; può però, tenendo i denti stretti e la bocca chiusa, conversare con maestri e asceti su argomenti spirituali. Non può rivolgersi a delle donne a meno che non glielo sia ordinato dal maestro. Deve vivere di quello che trova nella terra oppure di questua, che però ha delle norme rigide. Per esempio può mendicare fino a un massimo di sette case, e solo dopo che i capifamiglia abbiano preso il loro pasto e fatto le loro offerte e comunque, il tempo che deve spendere nella questua non deve essere superiore a quello necessario a mungere una vacca. Durante la questua può interrompere il silenzio per dire la parola bhavat, che è un epiteto rispettoso verso la persona a cui si chiede il cibo. Si può ricevere solo riso già cotto, dolci all'olio, pappa d'orzo, latte e cagliata. Se non si riceve nulla ci si deve accontentare di acqua e radici. Una volta uscito dal villaggio prima di mangiare, deve deporre il cibo in un luogo puro, lavarsi mani e piedi e annunciare al sole quanto gli è stato dato. Prima di mangiare, che può fare solo all'ora quarta, sesta o ottava del giorno, è tenuto a offrire un po' di cibo agli animali e a spruzzarlo con acqua, poi può consumarlo, ma solo otto boccate. Naturalmente non può danneggiare nessun essere vivente, anzi non può cogliere nemmeno un fiore e non può toccare metalli. In ultimo, ovviamente, la castità perfetta, perché il suo unico pensiero e desiderio deve essere il realizzare il brahman.

Naturalmente questa è l'indicazione ideale, poi si può interpretare in base alla situazione.

 

Questa forma di ascetismo, a partire dall'Ottocento, probabilmente per reazione al successo che stava avendo il monachesimo buddhista, è stata organizzata in ordini e cenobi. Anche l'India, da questo punto di vista, ha il suo san Benedetto, o forse sarebbe meglio dire il suo san Tommaso: si chiama Úankara. Úankara è appunto il più grande pensatore della filosofia indiana, ma anche il primo riformatore degli ordini ascetici. Infatti lo trovate indicato anche con il termine Úankarâcârya, che vuol dire in genere maestro, ma in questo caso fondatore.

Cosa ha fatto Úankara? Quale novità ha apportato? Fondamentalmente due: la prima è che lui ha sostenuto che non bisognasse aspettare la vecchiaia per diventare samnyâsin, ma subito, fin da giovani, si poteva e si doveva rinunciare a tutto. Però, attenzione, Úankara non si riferiva a tutti gli uomini indistintamente, ma sono agli appartenenti delle classi nobili. La seconda novità è che ha creato dei cenobi che sono ancora oggi il fulcro della religione indiana, anche se l'ideale peripatetico non è mai stato abbandonato. Perché l'affiliazione a un monastero è solo nominale, e persino gli abati si spostano molto, solo nella stagione delle piogge i monaci sono stanziali.

Úankara ha fondato un insieme di ordini che si chiamavano daúanâmin, perché ogni monaco aggiungeva al nome che assumeva una parola tra dieci sostantivi possibili, e in senso stretto il titolo di samnyâsin si attribuisce solo ai monaci di questi dieci ordini o agli asceti úaiva.

Úankara ha fondato anche quattro monasteri (in India si chiamano matha), nei quattro punti cardinali, che presenti ancora oggi. Vi è anche un quinto monastero úankariano a Kancî, che sarebbe stato formato per ultimo come sintesi ideale dei quattro già esistenti. Il capo di un monastero si chiama in genere mathapati o swâmî (uno che ha il dominio di sé), ma quelli di questi cinque monasteri si chiamano Úankarâcârya (cioè maestri nella linea di Úankarâ). Per non fare confusione il primo fondatore viene però chiamato Adi-Úankara, comunemente viene anche definito Jagad-guru, cioè guru dell'universo.

Questi "abati" sono considerati oggetti di culto dai novizi che si ritirano in questo monastero per studiare il sanscrito, i Veda e i classici della scuola Vedânta. Ci si rivolge a loro in sanscrito usando un termine equivalente a "sua santità". Essi sono considerati la massima autorità spirituale dell'India, almeno dagli indù smârta (cioè ortodossi, che si rifanno alla tradizione ufficiale).

I cinque monasteri gestiti da questi Úankarâcârya hanno delle caratteristiche peculiari: ognuno ha una divinità tutelare diversa, ognuno è connesso con uno dei quattro Veda, e poi ognuno dà particolare rilievo a uno dei quattro mahâvâkya (cioè grandi detti) delle Upanisad. Solo molto di recente, nel 1979, hanno iniziato a incontrarsi fra di loro, ma in realtà nei vari monasteri c'è molta indipendenza e non interferiscono fra di loro a meno che non sia espressamente richiesto.

 

Quindi anche in India i monaci vivono in cenobi. Però in India si dovrebbe distinguere il monastero vero e proprio, che si indica con il termine matha e l'eremitaggio, che invece si indica con âúram. Anticamente, infatti, l'âúram era proprio la capanna dell'eremita. L'uso del termine âúram è ambiguo perché il termine indica fatica, sforzo, da cui il duplice senso che indica sia l'abitazione di religiosi sia gli stadi di vita dei brahmani.

Ma se l'âúram ha una caratteristica è quella di costituirsi attorno ad un guru. Nella cultura religiosa indiana, il guru è una figura indispensabile, si considera estremamente rara la possibilità di fare progressi spirituali senza un maestro. Perché il guru è visto non solo come colui che conduce a Dio, ma anche colui attraverso il quale Dio si rivela.

Se il monachesimo di Benedetto valorizza la comunità e l'abate, l'India invece mette su un piedistallo il guru, che viene adorato come un Dio, come Dio. Non è un caso che Le Saux parlerà di Cristo come Sad-Guru, il guru perfetto.

La parola guru corrisponde al latino gravis, e significa pesante (di prestigio, di dignità); a partire dalla Chândogya-Upanisad venne usata nel senso di maestro, però la sua etimologia può indicare anche "colui che indica al discepolo la parola giusta" o "colui che distrugge l'ignoranza del discepolo". Si distingue il úiksâ e il dikúâ guru. Cioè il guru che istruisce e quello che dà l'iniziazione. Quest'ultimo è importante, perché si ritiene che abbia il potere di risvegliare i poteri interni del discepolo e di accelerare il suo progresso spirituale. L'iniziazione, infatti, la dîksâ, è soprattutto il trasferimento dell'energia vitale del maestro al discepolo, al quale fa dono anche di un mantra, cioè di una formula di preghiera particolare. È ha tutti gli effetti una "consacrazione" che apre a un contatto più stretto con Dio, ed è intesa come una rinascita a una vita nuova.

 

Due parole, ora, sulla dimensione monastica della donna in India.

Forse si può dire che gli indiani conoscono una specie di involuzione per quanto riguarda la figura e il ruolo della donna. Perché sembra che durante il periodo vedico le donne avessero gli stessi diritti e privilegi degli uomini, mentre successivamente, come gli úûdra, potevano farsi una formazione religiosa solo attraverso i Purâna o testi simili.

Le donne non possono prendere il sacramento dell'iniziazione (upanayana), il loro ruolo è esclusivamente all'interno della famiglia, nella quale dovevano stare sottomesse ai mariti, anche se certamente sono importanti.

Con queste premesse si capisce perché l'induismo non abbia sviluppato una istituzione monastica femminile; tuttavia, però, soprattutto in epoca moderna e per influenza della cultura occidentale, è stato possibile anche creare dei cenobi misti, né, del resto, sono mai mancati esempi di donne rinuncianti. Ci sono figure di donne sante, come Ântâl, unica donna fra gli âlvâr, cioè i mistici vaisnava dell'India meridionale, o la poetessa Lallâ e, in tempi più recenti, Ânandamayî Mâ, considerata una jîvan-muktî, una liberata in vita. Sono tuttavia solo esperienze singolari. La cultura religiosa indiana tradizionale, infatti, ritiene che le donne non possano raggiungere direttamente moksa, la liberazione, ma debbano prima rinascere uomini.

 

Paolo Trianni

 

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