Se avete feedback su come possiamo rendere il nostro sito più consono per favore contattaci e ci piacerebbe sentire da voi. 

3. Il "tawhîd" sufi

 

 

3.1. La struttura del cammino sufi

 

Da quanto esposto, appare chiaro che il cammino di ogni credente musulmano, ed evidentemente in particolare di ogni sufi, è quello di entrare sempre più profondamente in quello che possiamo ormai chiamare il mistero dell'unità divina, unità che non si riduce a essere una semplice formula aritmetica, anche se molte volte è così intesa da credenti superficiali. Occorre quindi ora mettere in luce alcuni degli aspetti fondamentali del tawhîd sufi. In tal modo ci mettiamo in contatto con ciò che può essere considerato il cuore dell'esperienza sufi: l'esperienza del tawhîd. Tale esperienza va letta in primo luogo all'interno della struttura del cammino sufi. Il cammino mistico nell'islam si svolge attraverso tre stadi o tappe fondamentali, indicati dai sufi stessi con i termini seguenti.

a. La legge (sharî'a): tale termine designa la "strada" (questo è il senso primo del termine arabo) stabilita e rivelata da Dio agli uomini, e che nessuno quindi può cambiare. La legge (sharî'a) è riassunta nei cinque pilastri dell'islam che ogni buon musulmano deve osservare, e il sufi in modo particolare, scrupulosamente. Questo è il punto di partenza per ogni cammino sufi: nessuno può pretendere di essere sufi se non osserva la legge divina (sharî'a) rivelata da Dio.

b. La via (tarîqa): tale termine designa la "via" (questo è il senso primo del termine arabo), cioè un metodo di vita che il fedele segue per vivere la legge divina secondo le intenzioni più profonde intese da Dio. In questa tappa prevale lo sforzo ascetico attraverso cui l'aspirante sufi cerca di purificare il proprio cuore per renderlo disponibile all'azione di Dio. Questo è uno stadio intermedio, ma necessario per giungere al fine del cammino sufi. 
    c. La Verità/Realtà (haqîqa): tale termine designa la tappa finale del cammino; essa consiste nella "scoperta" o "rivelazione" (fath) di Dio, suprema realtà e termine ultimo di tutti i simboli religiosi. Il sufi quindi è chiamato a passare dall'esteriorità delle forme all'esperienza personale e viva, al "gusto" (dhawq)della Realtà divina, fonte della vera conoscenza sufi. L'incontro con la Realtà divina comporta necessariamente una profonda trasformazione della persona del sufi. La storia mostra che molte volte tale trasformazione comporta esperienze ed espressioni che sembrano essere in contraddizione con la prima tappa, quella della legge. Questo conflitto, in cui la bianca rosa dell'esperienza mistica dei sufi è stata sovente imporporata con il rosso del loro sangue, secondo una diffusa immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile nel mistero dell'incontro di due libertà: quella dell'uomo e quella di Dio, l'Assoluto, libertà che sempre sorprende e scandalizza coloro che sono legati solo all'esteriorità della legge o dei simboli religiosi.

Ci sono anche altre classificazioni del cammino sufi, ma la presente ha il vantaggio di metterene in risalto la dinamica interna, evidenziandone il movimento di interiorizzazione della legge religiosa, interiorizzazione che si trascende infine nell'incontro/unione con la Realtà/Verità assoluta (al-haqq), Dio stesso. Questa divisione del cammino sufi in tre stadi o tappe viene fatta molte volte corrispondere ai tre livelli fondamentali dell'essere umano, che, secondo una comune antropologia sufi, sono: l'anima (nafs) (sede dei sentimenti e qualità sensibili), cuore (qalb) (sede dei pensieri e delle qualità spirituali), ed infine lo spirito (rûh) o l'intimo segreto (sirr) (il luogo delle manifestazioni o rivelazioni divine, là dove la persona umana si apre all'Assoluto, Dio). 

Anche per il sufismo rimane assodato che la Realtà/Verità assoluta (al-haqq), Dio, non può essere espressa in formule definite e chiare: essa sorpassa di gran lunga "quanto l'essere umano può pensare, immaginare, sperare". L'incontro con Dio comporta necessariamente un cambiamento radicale della persona umana al punto che i suoi limiti creati sono in qualche modo infranti, dato che il sufi avanza in una realtà illimitata, in un mare di cui non vede le sponde. Quante volte l'immagine del "naufragare in questo mare" ritorna nelle espressioni sufi! C'è chi si limita a parlare di una vicinanza trasformante (qurb) di Dio (al-Ghazâlî), o di un annientarsi (fanâ') in Lui (al-Junayd), ma c'è anche chi giunge a parlare di una inabitazione (hulûl) di Dio nel cuore del suo servo (al-Hallâj) o di una unione reale (wahda-ittihâd) con Lui (Ibn 'Arabî). Simili espressioni hanno molte volte scandalizzato i rigidi assertori della pura lettera della legge, i dottori della legge (ulema), ma per i sufi tali espressioni sono solo dei balbettii per esprimere una realtà che sorpassa ogni espressione umana. La distanza fra esperienza interiore ed espressione esteriore è stata vissuta profondamente ed anche drammaticamente dai sufi come estasi (ex-stasis), cioè come un uscire dai propri limiti, ma anche come diastasi (dia-stasis) mistica, cioè come esperienza della distanza infinita tra il relativo e l'Assoluto. Al-Niffarî (m. 366/976), uno dei più profondi pensatori sufi del IV/X secolo, ha bene espresso tale asintotica tensione fra esperienza o visione interiore e la sua espressione o lettera esteriore, in un famoso detto: "Quanto più si allarga la visione (ru'ya), tanto più si restringe l'espressione (ibâra)".



3.2. Il "tawhîd" come centro dell'esperienza sufi

 

È stato indubbiamente uno dei più grandi contributi di Louis Massignon (1883-1962) l'aver difeso l'origine coranica del sufismo contro molte tendenze che lo volevano un movimento puramente importato in islam da fonti esterne, cristiane, ebraiche, gnostiche, ecc. Le ricerche successive hanno sempre più confermato tale assunto. Inoltre esse hanno sempre più sottolineato che proprio la professione della fede monoteista coranica (tawhîd) è alla base dell'esperienza sufi. 

Lo studioso francese Marijan Molé afferma nel suo studio sul sufismo: "Una delle costanti dell'esperienza sufi sembra essere il sentimento che nulla ha esistenza reale al di fuori di Dio". 

Un altro studioso francese, p. Robert Caspar, afferma pure che: "È tale radicale teocentrismo il punto di partenza di ogni misticismo".

L'orientalista tedesco Hans H. Schaeder mette in chiaro che: "La mistica islamica è il tentativo di raggiungere la salvezza individuale attraverso il raggiungimento del vero tawhîd". 

Il tawhîd, base della fede islamica, deve essere considerato la sorgente prima della vita e dell'esperienza dei sufi. In particolare, l'uso dei pronomi "Egli - Tu – Io" (huwa - anta - anâ) nelle formule del tawhîd hanno un enorme potere catalizzante. Attraverso la loro incessante ripetizione l'"io" individuale del singolo sufi è progressivamente assorbito nell'"Io" divino, al punto che il sufi perde totalmente la propria auto-coscienza personale, entrando in uno stato di ebbrezza (sukr), estasi o trance. Tale processo di assorbimento appare visibile nella pratica individuale e comune dello dhikr (ricordo, ripetizione) del nome di Dio da parte dei sufi. Questa pratica, sostenuta normalmente da un forte ritmo musicale, raggiunge il suo culmine nella ripetizione del nome di Allâh, poi del pronome personale Lui (huwa) che finisce per divenire la ripetizione del soffio hâ... hâ.... A questo punto il sufi è sempre più assorbito dal ritmo e dal soffio che escono dal suo profondo, la sua auto-coscienza viene sempre più annullata... fino a sparire nella maestà della Presenza divina (hadra). 

Il tawhîd coranico, sorgente prima e ispiratore principale dell'esperienza sufi, rappresenta pure l'asse fondamentale di sviluppo del vocabolario sufi in generale. Ad esempio, lo sviluppo del linguaggio dell'amore (hubb) nel sufismo non può essere considerato una pura derivazione esegetica del linguaggio dell'amore nel Corano. Esso si è sviluppato piuttosto attraverso un'esperienza pratica e in connessione con il linguaggio dell'unità (tawhîd). In tal modo si può rendere conto della caratteristica dell'amore sufi, che lo distingue da quello cristiano. Infatti, mentre quest'ultimo, seguendo il comandamento evangelico, unisce sempre l'amore per Dio con quello per il prossimo, l'amore sufi ha in primo luogo Dio come solo e unico fine, mentre l'amore per il prossimo appare piuttosto come un corollario secondario.

Per tal motivo nell'interprtazione dei testi sufi occorre tener presenti due importanti fattori che hanno influito sulla foramzione del loro linguaggio. 

Il primo fattore è l'esperienza che porta a un gusto personale (dhawq) della realtà. I sufi (come del resto i mistici di altre tradizioni religiose) non sono né puri ripetitori di testi sacri, come lo sono spesso i canonisti, né degli astratti speculatori della realtà mediante la pura ragione, come lo possono essere i filosofi. Il mistico invece scopre la realtà attraverso la propria esperienza personale, ed è in tale scoperta che egli crea il proprio linguaggio, reinterpretando il linguaggio della sua tradizione religiosa. Paul Nwyia nel suo studio sul linguaggio dei sufi afferma infatti che fu attraverso il sufismo che in islam fu creato "un vero linguaggio di esperienza". 

E l'altro fattore, sopra accennato, è quello delle influenze extra-islamiche che indubbiamente ci sono state. L'islam ha sempre interagito su tutti i campi, teologico, filosofico, scientifico, artistico, con le varie culture con cui venne in contatto. E anche il campo del sufismo non ne fu esente. Influenze da parte del monachesimo cristiano orientale, della cabbala ebraica, delle varie correnti gnostiche, delle religioni iraniane, ecc. sono evidenti nel sufismo. In seguito, esso inter-reagirà con le varie culture dell'Asia e dell'Africa. All'interno del sufismo si può percepire una costante tensione tra la sua originalità islamica e le influenze "estranee" che ne coloriranno l'esperienza. 

In conclusione possiamo dire che il tawhîd, la professione e coscienza piena dell'Unità di Dio, è la fonte prima dell'esperienza della mistica islamica, e quindi il primo oggetto di ciò che noi chiamiamo "contemplazione mistica". Però sarà solo attraverso la lettura dei testi sufi che ci si può rendere conto delle modalità di tale esperienza, dei suoi gradi, ma anche delle sure problematiche e aporie.

 

 

3.3. Il "tawhîd" sufi e le sue tappe

 

Prima di entrare direttamente nella lettura dei testi sufi, presento una griglia interpretativa che evidenzia quattro dimensioni o tappe che si possono ricavare da un percorso attraverso gli scritti dei sufi e che ci possono aiutare a capire tali testi. Altri sono liberi di seguire altri schemi. Le tappe che qui presento appaiono chiaramente in ordine storico, cioè nello sviluppo storico dell'esperienza sufi. Per cui, ad esempio, nei primi due secoli dell'islam non si trovano testi che si riferiscono alla terza o quarta tappa del tawhîd sufi. Mentre, evidentemente, in testi posteriori le quattro tappe possono essere mescolate insieme in un'unica esperienza complessa. 

     Il tawhîd sufi, basato sulla professione fondamentale della fede islamica (non c'è dio se non Allâh), viene approfondito e articolato assoluto nei termini seguenti.

a. Dio, come l'unico adorato. Questa è la prima tappa, quella dell'ascesi sufi (zuhd), tipica dei primi due secoli dell'islam. Ogni credente sincero, è chiamato ad orientare tutti i suoi atti di culto e di morale Allâh, l'unico vero Dio. Ma il sufi deve unire alla pratica esteriore la purezza interiore del cuore che mediante l'ascesi (zuhd) si stacca da ogni cosa che non sia Dio. Dio quindi è adorato esteriormente e interiormente in modo assoluto.

b. Dio, come l'unico amato. Questa è la tappa dell'amore sufi (hubb) che appare nel secondo secolo dell'islam e continuerà ad approfondirsi nei secoli seguenti. Il sufi deve liberare il suo cuore da ogni amore che non sia Dio. Anzi tale amore implica che il sufi si stacchi anche da se stesso: l'amore esige l'annientamento (fanâ') dell'amante nell'amato, tanto più se l'amato è l'Assoluto, Dio stesso.

c. Dio, come l'unico agente. In questa tappa il sufi prende sempre più coscienza che Dio, come Assoluto, è l'unico agente in ogni cosa. Il sufi deve annullare ogni suo agire autonomo per lasciarsi dominare dall'agire di Dio, l'unico vero agente che opera tutto in tutti. In questa tappa l'annientamento sufi (fanâ') giunge al suo sommo, e il sufi sperimenta lo stato di permanenza (baqâ') in Dio, ed infine di unione o forse immersione totale in Dio. Avendo rinunciato totalmente alle sue qualità il sufi viene ora rivestito delle qualità di Dio.

d. Dio, come l'unico esistente, l'unica Realtà. Questa è l'ultima tappa del cammino, e anche la più drammatica e discussa. Il sufi prende coscienza che il tutto non è che manifestazione di un'unica Realtà: quella di Dio. Dio solo può essere qualificato di esistente e sussistente (qayyûm). Ormai il sufi ha perso di vista la propria esistenza individuale, non esiste più in sé ma in Dio solo. Ma in tale stato il sufi scopre di essere uno con tutta la realtà esistente, trovando Dio in tutto e tutto in Dio.


Giuseppe Scattolin, mccj
 
pagina 1 < pagina 2 < pagina 3
 

  Contatti: info@dimitalia.com

  Site Map