“No pain, no gain!”
Alcune riflessioni su una recente esperienza
di meditazione vipassanā
Thailandia
26 novembre - 10 dicembre 2024
Thailandia
26 novembre - 10 dicembre 2024
Quando ormai quasi un anno fa fu proposta in comunità la possibilità di partecipare ad un ritiro di meditazione vipassanā in Thailandia all’interno delle iniziative del DIM (Dialogo interreligioso monastico), mi parve si stesse realizzando un desiderio che ha accompagnato e orientato la mia vita fin da prima di entrare undici anni fa nel monastero benedettino di Dumenza.
Avevo sentito parlare per la prima volta della pratica di meditazione vipassanā durante un viaggio in India nel 2000. La considero a tutt’oggi il lascito più significativo ricevuto in giovane età dall’esperienza indiana. Per prudenza, perché ero convinto e lo sono sempre più che la meditazione non sia una esperienza che si improvvisi ma una disciplina che vada praticata sotto la guida di un maestro e con verificate buone condizioni personali di salute fisica e mentale, mi sono deciso a praticare un corso di vipassanā solamente nel 2005, partecipando al mio primo ritiro di dieci giorni di meditazione vipassanā come insegnata da S. N. Goenka nella tradizione di Sayagyi U Ba Khin e proposta dal Centro di Meditazione Vipassana Dhamma Atala a Lutirano (FI). A quel ritiro ne sono seguiti altri quattro nel giro di tre anni.
Poi, per varie ragioni esistenziali, affettive, ma anche legate al mio riavvicinamento al cristianesimo, non ho più praticato con la stessa assiduità la meditazione vipassanā. Nonostante ciò, non ho mai smesso di avvertire dentro di me la gratitudine per quanto ho ricevuto da questa pratica, che considero innanzitutto spirituale. Per tale ragione, entrando in monastero, ho cercato di trovare quali esperienze nella tradizione monastica cristiana si avvicinassero a una pratica meditativa contemplativa, e finalmente ho conosciuto la proposta della meditazione cristiana di p. John Main e di p. Laurence Freeman, alla quale aderisco quotidianamente con gioia. Si tratta di due pratiche meditative diverse sia nelle modalità che nelle finalità, ma che sono convinto possano integrarsi bene nella mia esperienza monastica.
Sono quindi partito per la Thailandia con un sentimento di attesa del nuovo, che ho immaginato consistesse nel praticare insieme a monaci e a monache buddhisti theravāda nel loro contesto culturale, e con un desiderio di verifica rispetto al tragitto che dal 2000 ho percorso tenendomi legato al filo della pratica meditativa. Ovviamente la realtà è sempre più ricca di quanto ciascuno possa immaginare.
Per ragioni di sintesi espositiva, indico cosa mi abbia sorpreso di più delle due settimane trascorse in Thailandia (26 novembre – 10 dicembre), di cui una interamente dedicata al ritiro di meditazione (30 novembre – 7 dicembre). Per “sorpresa” intendo l’incontro con qualcosa che pensavo di conoscere e che ha manifestato una generatività che ancora risuona in me, come una provocazione che chiede tempo per essere compresa e per ricevere una risposta adeguata.
Ebbene, questa sorpresa sta in una delle parole che ho raccolto da Phra Medhivajarapundit, direttore dell’International Buddhist Study College (IBSC) dell’Università Mahachulalongkornrajavidyalaya di Bangkok, quando, al termine della seconda giornata trascorsa dal nostro gruppetto all’Annual Meditation Retreat presso il Religious Development Center di Camp Son, ci ha convocati presso di sé sulla pedana dove lui sedeva e da cui guidava la meditazione per salutarci e per introdurci al senso dei giorni che avremmo trascorsi. Questa parola sorprendente è pain, “sofferenza”, “dolore”.
Il maestro di meditazione, nel suo inglese chiaro, sintetico, assertivo, con un discorso di poco più di cinque minuti è riuscito a indirizzare – almeno questo è quello che io ho percepito sul momento e che poi ho vissuto nei giorni successivi – il valore dell’esperienza meditativa, vissuta lì in quei pochi giorni, facendo cadere l’accento sulla parola pain, senza alcun dolorismo o fatalismo, ma neanche ricorrendo a un ostentato titanismo. Tutt’altro! Proponeva pain e gain, “dolore” e “guadagno”, come un composto e pacifico binomio, forte e delicato al tempo stesso. Riporto le parole che mi hanno più segnato: “Si può sintetizzare tutto l’insegnamento del Buddha in due frasi: a) la vita è dolore; b) è possibile imparare ad affrontare il dolore (to deal with pain). Voi siete qui per questo”. E, infine, ha concluso in forma di slogan avvincente: No pain, no gain!
Cosa mi ha sorpreso del suo riferimento al dolore? La risposta che do qui di seguito è un barlume, come una luce da seguire per comprendere dove nel tempo mi condurrà. Il mio impegno sta nel custodire questa luce, il che significa mantenere nel quotidiano ordinario l’interrogativo sul valore del dolore per la vita spirituale.
Non mi ha sorpreso il ricorso alla parola “dolore” in sé, né l’eventualità (per me certa, ricordando quanto vissuto durante i precedenti ritiri vipassanā!) di provare dolore e fatica, ma l’attribuzione fondamentalmente liberatoria che il maestro le assegnava rispetto alla pratica che avremmo vissuto. Egli, mi pare, ci stesse dicendo: “Dovete accettare nei prossimi giorni di soffrire (mal di gambe, male alla schiena, mal di testa, disorientamento, emersione di ricordi dolorosi, eccetera) non come una situazione dalla quale liberarvi frettolosamente, ma come condizione necessaria per ricevere i frutti di liberazione per i quali siete venuti fin qui”. In altre parole, mi pare ci stesse aprendo gli occhi sul fine della meditazione e sul modo di prenderla bene: non si tratta di liberarci dal dolore, ma di vivere il processo della liberazione attraverso il dolore, nel dolore e con il dolore.
No pain, no gain!, “Non c’è guadagno senza dolore!”. Il dolore non è fine a sé stesso, ma è una condizione con la quale imparare a fare i conti per portare a casa la gioia e la liberazione promesse! La promessa potente che la meditazione vipassanā tramite il maestro ci stava rivolgendo consiste proprio in questa possibilità di imparare a fronteggiare il dolore, accettandolo come un fenomeno passeggero, dal quale poter prendere le distanze senza farci condizionare emotivamente da esso.
Tutto ciò, intuito e ricompreso nei giorni di ritiro a Camp Son, mi rimanda a un interrogativo che spesso io stesso, da cristiano e da monaco benedettino, ho lasciato in secondo piano e che, qualora smarrito, sono convinto porti a svilire l’adesione di fede a Gesù Cristo. Lo traduco così, in modo antico e pur sempre nuovo: “Qual è il rapporto tra croce e salvezza?”. Recuperare la portata di questa domanda è già un grande dono che l’incontro con questo monaco buddhista mi ha riservato. Avvertire che questa domanda vada incarnata nella verità della mia vita quotidiana è un elemento di forte rimotivazione spirituale ed esistenziale da custodire e coltivare. La pratica di meditazione può certamente aiutarmi a non dimenticarlo!
Davide Castronovo OSB
Dumenza