"Le menti umane quanto più si inoltrano nel tawhîd
tanto più si inoltrano nella perplessità (hayra)"
(al-Junayd, III/IX secolo)
Premessa: il rapporto tra islam e sufismo
Prima di parlare direttamente del tema proposto "La contemplazione di Dio nel sufismo", credo opportuno proporre alcune riflessioni preliminari per meglio comprendere la mistica islamica o sufismo. Per un suo approfondimento ulteriore, rimando a quanto ho scritto altrove.
La mistica islamica, o il sufismo, è stata oggetto di discussioni antiche e moderne fra chi la riconosce parte della religione dell'islam e chi la rifiuta. Ma non c'è dubbio ora che la mistica islamica è riconosciuta da parte dei più grandi studiosi sia occidentali che musulmani come parte integrante dell'islam, come una sua dimensione essenziale (secondo il titolo di un noto libro di Annemarie Schimmel). Basterebbe ricordare che il più grande teologo dell'islam sunnita, come tale riconosciuto dalla maggior parte dei musulmani, Abû Hâmid al-Ghazâlî (m. 505/1111) è stato un grande esempio di pratica e di teoria del sufismo, tanto che nella sua summa ha messo il sufismo alla sommità della vita spirituale dell'islam. Del resto si può facilmente notare che il rifiuto del sufismo è avvenuto per lo più e avviene tuttora su basi estrinseche ad esso, cioè per motivi ideologico-politici.
Con questo non si nega che il sufismo, come del resto tutte le altre scienze islamiche, possa avere subito, e di fatto ha subito l'influsso di correnti spirituali extra-islamiche. Questo tuttavia non mette in forse la sua originale sintesi fra la fede islamica e i vari influssi extra-islamici. Come pure non si nega che fra il sufismo e l'islam giuridico, rappresentato dai dottori della legge islamica (ulema) ci siano stati e continuano a esserci conflitti, molte volte anche violenti, fino al vero martirio (vedi la vicenda di al-Hallâj, 309/922). Ciò nonostante, oltre al fatto che conflitti simili si trovano in tutte le religioni, nessuno può dire che la religione dei giuristi, o meglio la loro interpretazione di essa, sia la sola vera che deve essere accettata, e quella dei mistici no. Tanto più che nell'islam sunnita non esiste un chiara autorità in materia e il tutto viene deciso per un certo consenso comune non sempre facile a definire. I sufi comunque da parte loro hanno sempre avuto chiara coscienza di essere musulmani, anzi di essere quelli che hanno cercato di realizzare la vera realtà della religione, come vedremo.
1. Problematica dell'idea di contemplazione di Dio nell'islam
1.1. Il vocabolario sufi della contemplazione
Contemplare qualcosa significa vedere tale cosa, anzi vederla con intensità e costanza. Questo può avvenire sia a livello puramente fisico che interiore. Quest'ultimo senso ha preso indubbiamente il sopravvento nell'uso del termine. Anche la lingua prima dell'islam, cioè l'arabo, ha sviluppato un vocabolario simile per descrivere tale atto di visione interiore di cui parlano i sufi.
Il termine più vicino al nostro contemplare è mushâda (shuhûd e altri derivati), termine che indica uno sguardo prolungato su di un oggetto. Ma anche altri termini derivati da altre radici, come ru'ya, mu'âyana, connessi con il termine 'ayn (occhio), come pure i termini connessi con nazar (sguardo). Da notare che alcuni derivativi della radice di mushâda hanno anche il senso di testimoniare, testimone (shahâda, shahîd...), così come il greco martyr (martire).
Questi termini applicati a Dio indicherebbero che Dio è "oggetto di contemplazione", di visione da parte dell'essere umano. Ma può Dio essere oggetto di visione secondo il pensiero islamico il quale volentieri sottolinea piuttosto il suo aspetto trascendente, imperscrutabile? Questa è una questione di non facile soluzione. Intendo delinearne alcuni tratti fondamentali.
1.2. La questione della visione di Dio nell'islam
Occorre vedere prima di tutto se nell'islam è ammessa una "visione di Dio" e a che condizioni. Tale questione è stata molto controversa (questio vexata) nella tradizione del pensiero religioso islamico.
a. Nelle fonti islamiche: il Corano e la tradizione del Profeta dell'islam, Muhammad
Il testo coranico, com'è noto, sottolinea fortemente la trascendenza di Dio, che è sempre al di là di ogni presa umana. Contro ogni forma di antropomorfismo il Corano mette in primo piano il mistero assoluto di Dio. Dio è il Mistero (ghayb) assoluto: "Dio solo conosce il Mistero (ghayb), e a nessuno Egli manifesta il suo Mistero" (Corano 72,26). Dio è quindi al di là di ogni presa umana: "Gli suardi non lo percepiscono, ma Egli percepisce gli sguardi, Lui è il Sottile (Onnipervasivo) e l'Informato" (Corano 6,103). A Mosè che chiede di vederlo Dio risponde drasticamente: "Non mi vedrai" (lan tarânî) (Corano 7,143).
Tali affermazioni sembrano negare in modo assoluto la possibilità della visione di Dio nell'islam. D'altra parte in un unico versetto coranico si afferma una specie di visione di Dio nel giorno della resurrezione: "In quel giorno ci saranno volti lieti, guardanti verso il loro Signore" (Corano 75,23). Che significa? Tale versetto ha aperto la porta a infinite discussioni in materia.
La tradizione del Profeta dell'islam, Muhammad, sembra offrire più spunti per una possibilità della visione di Dio. Nei racconti del suo viaggio notturno (isrâ') e della sua ascensione (mi'râj) al cielo si ammette, secondo la maggior parte delle versioni, che egli è giunto alla visione diretta di Dio; ma altre versioni la negano. Un famoso hadith afferma che noi vedremo Dio come in una notte chiara vediamo la "luna piena". Quindi sulla base di questi testi una certa visione di Dio sarebbe possibile.
b. Nella tradizione teologica sunnita
Di fronte a dati così labili e contraddittori, i teologi musulmani hanno discusso a lungo sulla possibilità e le modalità della visione, giungendo a posizioni divergenti. La teologia islamica classica (kalâm) ha strutturato il trattato su Dio secondo tre livelli o piani di considerazioni.
Muhammad Âbduh (m. 1905), uno dei più importanti teologi riformatori moderni, nel suo Trattato sul tawhîd (Risâla fî l-tawhîd), nel capitolo intitolato appunto "L'Unità" (al-wahda) riassume la dottrina classica di Dio nell'islam. L'unità di Dio può essere considerata secondo tre livelli fondamentali, e cioè:
l'Essenza Divina (al-dhât): a questo livello Dio è essenzialmente Uno, con l'esclusione di ogni forma di composizione (tarkîb);
gli attributi o le qualità divine (al-sifât): a questo livello ogni somiglianza (tashbîh) fra Dio e le creature deve essere esclusa. Dio è assolutamente trascendente e nessuna somiglianza può esistere fra Lui e gli altri esseri, come dice il testo coranico: "Nulla è simile a Lui" (laysa ka-mithli-hi shay': Corano 42,11);
il livello dell'esistenza e delle operazioni Divine (al-wujûd wa-l-af'âl); a questo livello Dio non ha eguale (kuf'), né associato (sharîk), né oppositore (didd). Dio (Allâh) è unico (farîd) nella sua esistenza e nelle sue operazioni, perciò Egli è qualificato con la qualità di unicità incomparabile (tafarrud or fardâniyya).
Attorno a tali concetti si è sviluppata in islam una profonda e accesa controversia, che non sembra abbia trovato una soluzione finale. I mo'taziliti del II-III/VIII-IX per salvare la trascendenza di Dio negarono ogni distinzione fra Essenza e attributi in Dio, nel senso che tali atttributi sono nomi umani per indicare l'unica realtà trascendente di Dio, la sua essenza. Al contrario, per preservare il testo coranico da ogni interpretazione troppo razionalista, i sunniti sostengono che i testi coranici riguardanti le qualità divine vanno accettati così come suonano senza chiedere troppi "perché" (bi-lâ kayfa). Quindi le qualità divine sono reali, esistono in lui in un modo che non conosciamo. Gli ash'ariti, la corrente mediana, ammette che Dio può essere contemplato a partire dalle sue azioni-effetti, per giungere ad una certa visione-contemplazione della sua Unità assoluta (wahda), la sua qualità fondamentale. Però Dio non può essere visto nella sua essenza, questa rimane per sempre avvolta nel mistero assoluto ed inviolabile della sua Divinità.
In conclusione, appare chiaro che la questione dell'Unità divina (wahda) è fondamentale nella fede e nel pensiero islamico, e quindi anche nel sufismo, che si è sviluppato all'interno di tali problematiche teologiche. Il tawhîd, che indica appunto la professione e la coscienza della Unità divina (wahda), è pure il centro dell'esperienza e della riflessione, e quindi anche della contemplazione (mushâhada) dei sufi. Questi però, basandosi sulla loro esperienza interiore, articoleranno in modo molto più dinamico le rigide posizioni dei teologi.
1.3. La centralità di Dio nella vita e fede dei musulmani
Oltre l'aspetto delle discussioni teologiche, occorre considerare pure l'aspetto pratico e vissuto del tawhîd, cioè della professione e coscienza della Unità divina (wahda). Infatti, Dio per l'islam, come dovrebbe essere per tutte le religioni, non è prima di tutto un oggetto di discussioni teoriche fra teologi, ma è prima di tutto una realtà vissuta nel concreto della vita del credente. Il nome di Dio infatti ha una centralità assoluta nella vita e nel parlare di ogni musulmano: Dio è la realtà attorno cui ruota tutta la vita del credente musulmano. Tale fatto è ricordato in mille espressioni che scandiscono ogni evento della sua vita. Dai saluti quotidiani ai momenti più drammatici di essa come la nascita e la morte, sulla bocca del musulmano ricorrono spontanee espressioni come al-hamdu li-llâh (lode a Dio!), in shâ' Allâh (se Dio vuole!), ecc. Dall'arabo tali espressioni sono state riprese nelle lingue degli altri popoli musulmani, come i persiani, turchi, ecc.
Questa esperienza quotidiana trova conferma e amplificazione nella storia dell'islam, storia ricca e complessa. Lungo tutta la sua storia l'islam mostra che il suo estendersi attraverso lo spazio e il tempo ha sempre trovato il suo centro e la sua forza portante nel messaggio di cui si sente il latore privilegiato: il monoteismo assoluto (tawhîd). Questo è il fattore che unifica in certo senso tutta la storia dell'islam, al di sopra e al di là di altri fattori che hanno pure contribuito alla sua crescita ed espansione. Il grande orientalista G. E. von Grünebaum, afferma che a differenza di altri popoli (vedi le invasioni germaniche nell'impero romano), gli arabi musulmani quando uscirono dalla penisola arabica alla conquista del mondo avevano già una chiara visione della loro missione nel mondo:
"L'islam aveva fatto degli arabi convertiti il centro di una visione universale del mondo, e di conseguenza, quando il tempo venne, il centro di uno stato universale... L'arabo musulmano aveva il suo centro di gravità in se stesso. Il suo era un popolo eletto, e il dominio appartiene agli eletti".
E specificando meglio, egli afferma che questa visione universale del mondo era centrata proprio nel messaggio religioso del "più assoluto monoteismo" (tawhîd) di cui i musulmani si sentono i latori privilegiati per il mondo intero. È a questo livello credo che si debba cerca la forza storica dell'islam, forza che non si è smussata nemmeno nel nostro tempo.
Questa è la dinamica che ha mosso pure tutta la storia della mistica islamica, il sufismo: cioè la tensione verso Dio, tensione che va dall'esterno verso l'interno, e di lì si trascende in Dio. E uno studio attento della mistica islamica rivela che il suo fondamento primo o il suo punto di partenza deve essere ricercato prima di tutto proprio nella stessa professione di base della fede islamica, cioè la testimonianza e la coscienza dell'assoluta Unità e Unicità di Dio (tawhîd): "Non c'è dio se non il Dio (Allâh)". È questa formula continuamente ripetuta che plasma la vita, la coscienza e il pensiero del musulmano. È questa anche la sorgente dell'esperienza dei mistici dell'islam, i sufi. Questi infatti non furono prima di tutto uomini di pensiero ma di azione pratica.
Un detto, attribuito a Sahl al-Tustarî (m. 283/896), ben esprime tale centralità della realtà di Dio nella vita dei musulmani, centralità che i sufi cercheranno di realizzare al suo massimo grado:
"Dio è la direzione (qibla) dell'intenzione (niyya),
l'intenzione è la direzione del cuore (qalb),
il cuore è la direzione del corpo (jism),
il corpo è la direzione delle membra,
le membra sono la direzione dell'universo creato (kawn)".
Anche l'islam, nel corso della sua storia, ha subito certamente molte influenze da parte delle varie culture con cui è venuto in contatto: prima di tutto il cristianesimo e l'ebraismo, ma poi anche le altre culture in cui esso è penetrato sia in modo bellicoso che pacifico. Ma occorre ugualmente sottolineare che, nonostante la varietà delle sue vicende epocali, l'islam, e il sufismo in esso, ha conservato senza dubbio la sua dinamica fondamentale, cioè la sua tensione verso l'unità di Dio, accostata mediante la sua formulazione coranica. A mio parere è proprio tale dinamica che alla fine si rivela essere il centro unificante di tutto il movimento religioso dell'islam.
Il sufismo quindi si colloca storicamente all'interno di tale dinamica propria della fede islamica, ed è solo in tale luce che può essere adeguatamente compreso. Anzi esso è stato in moltissimi casi la forza interiore che ha animato e fortificato mediante la sua esperienza concreta la comunità islamica nei periodi più critici della sua storia.
2. Le problematiche del "tawhîd" nell'islam
2.1. Il Dio-Uno, o il puro monoteismo ("tawhîd")
Per entrare meglio nella problematica della contemplazione sufi occorre articolare un po' di più la professione di fede dell'islam, che come abbiamo visto è il punto di partenza, sia storico che esperienziale, del sufismo. Ci possiamo quindi chiedere: "Qual è il Dio in cui l'islam crede e di cui si sente il testimone e il messaggero per tutti i popoli?".
La risposta a tale domanda, come abbiamo accennato, è data dalla professione di fede (shahâda) che ogni musulmano è tenuto a proclamare continuamente, infinite volte, nel corso della sua esistenza: "Non c'è dio se non Allâh" (Lâ ilâha illâ Allâh). Questa è la prima parte della professione di fede (shahâda), che costituisce uno dei cinque pilastri dell'islam. Ad essa segue la seconda parte che riguarda la missione profetica di Muhammad (Maometto): "...e Muhammad è il suo inviato".
Il nome arabo di Dio, Allâh, come si sa, è la forma contratta di al-ilâh (il Dio), nome derivato da una comune radice semitica: El, Il, Ilh (cf. l'ebraico El, Elohîm). Il nome Allâh era conosciuto ed usato dagli arabi prima di Muhammad per designare il dio supremo del loro pantheon, ma in associazione ad altri dei e deesse contro cui si scagliano le polemiche del Corano.
Nella Bibbia Dio è invocato anche con il nome Yahweh, nome che sottolinea la presenza e la vicinanza di Dio al suo popolo. Questo nome può essere fatto corrispondere in certo modo al termine coranico Rabb ("Signore", cf. l'ebraico Adonai), nome che è sempre usato nel testo coranico in stato costrutto come Rabb-î, Rabbu-ka, Rabbu-kom, ecc. ("il mio, il tuo, il vostro Signore", ecc.).
Nella professione del puro monoteismo islamico ci sono due riferimenti importanti da sottolineare che ne rivelano le dimensioni storiche e meta-storiche.
a. Il puro monoteismo (tawhîd) nella storia: Abramo, il padre dei monoteisti
Muhammad nel proclamare l'assoluto monoteismo aveva chiara coscienza di ritornare alla purezza originale di fede del primo vero monoteista, Abramo. Abramo infatti, afferma il Corano, "non era né giudeo né cristiano ma era 'un puro monoteista (hanîf)' e un sottomesso (a Dio, muslim), e non era fra gli associatori" (Corano 3,67). La figura di Abramo è fondamentale per la coscienza profetica di Muhammad, ed essa è centrale nel testo coranico ricordato in circa 245 versetti. Abramo è presentato come il modello di tutti i veri credenti monoteisti; ad esempio, tutto il pellegrinaggio alla Mecca, altro pilastro dell'islam, è centrato sul ricordo di Abramo che, secondo la tradizione coranica, avrebbe ricostruito la Ka'ba, il primo tempio del puro monoteismo (tawhîd). Muhammad ha mostrato chiaramente l'intento di ritornare al puro, originale monoteismo di Abramo a monte delle sue varie corruzioni, non solo quelle del paganesimo idolatrico, ma anche quelle dei "figli deviati" di Abramo, cioè degli ebrei e dei cristiani. Questi infatti, secondo il testo coranico, avrebbero corrotto in vari modi la pura fede monoteista di Abramo. L'islam quindi intende essere un ritorno alla prima radice della fede monoteista che è abramitica.
b. Il puro monoteismo (tawhîd) nella sua origine trascendente: il patto eterno (mîthâq) con Dio
Ma nel testo coranico c'è un altro riferimento importante per il puro monoteismo islamico (tawhîd). In un unico passo viene affermato che Dio prima della creazione del mondo fece comparire davanti a sè tutte le anime umane, le fece testimoni della sua unicità come il loro unico Signore nel famoso colloquio riportato dal testo coranico: "Non sono forse Io il vostro Signore?"; e quelli risposero "Sì, certamente!" (Corano 7,172). Al giorno della resurrezione infatti sarà chiesto conto agli uomini di tale fede originale che costituirebbe, nella visione islamica, il deposito originario (amâna) affidato da Dio all'uomo ricordato in Corano 33,72.
Questo passo sul patto originario, in sè alquanto misterioso, ha avuto poco spazio nella riflessione della teologia speculativa dell'islam, mentre ne ha avuto molto nella speculazione mistica dei sufi. Per i sufi tale passo testimonia che l'essere umano in quanto tale porta nelle profondità della sua coscienza la testimonianza del puro monoteismo (tawhîd) ricevuta in tale visione (mushâhada) originaria nella pre-eternità. In altre parole, la natura umana originale (la fitra, altro importante concetto nella teologia islamica) è configurata da sempre e per sempre "monoteisticamente". Solo per circostanze storiche varie l'essere umano ha deviato da tale puro monoteismo di origine divina perdendosi dietro ideologie di fattura umana. In tale luce si può capire il senso profondo di un famoso hadith che afferma: "Ogni uomo nasce secondo la sua natura originale (fitra, che è quella di essere musulmano); sono poi i suoi genitori che lo fanno un ebreo o un cristiano".
L'islam quindi, con la sua testimonianza e la sua proclamazione del puro monoteismo (tawhîd), intende non solo restaurare la pura fede di Abramo, il primo dei monoteisti, ma anche rivivificare e portare a piena coscienza il patto primordiale che Dio stesso siglò con tutti gli esseri umani in tale visione pre-eterna, e cioè la testimonianza del monoteismo che Dio stesso ha impresso nel profondo di ogni essere umano fin dall'eternità.
L'affermazione monoteista islamica si articola poi in due momenti fondamentali: il momento delle negazione purificatrice o apofatico (nafî - tanzîh) e il momento dell'affermazione o catafatico (ithbât - tashbîh).
2.2. Il Dio-Uno, o il momento apofatico della negazione purificatrice ("nafî – tanzîh")
Per comprendere meglio il senso del monoteismo islamico occorre leggerlo nella dinamica della sua formulazione linguistica che va dalla negazione all'affermazione: dalla negazione "non c'è dio..." (lâ ilâha...) all'affermazione "... se non Allâh" (... illâ Allâh).
Queste formulazioni negative, con altre equivalenti come "se non Lui..., se non Tu..., se non Io...", scandiscono frequentemente il testo coranico conferendogli una suo tipico carattere monoteista, che lo differenzia pure rispetto alla Bibbia. Importante per le discussioni teologiche dei secoli seguenti è la formula: "Nulla è simile a Lui... (laysa ka-mithli-hi shay')" (Corano 42,11), e molte altre coniate secondo la forma "Dio non è... (laysa...)".
Da tali formulazioni appare chiaro che il puro monoteismo o tawhîd nel pensiero islamico può essere avvicinato solo mediante una radicale negazione purificatrice (tanzîh). Il nostro parlare di Dio deve prima di tutto essere purificato mediante la negazione di ogni somiglianza (tashbîh) pensabile fra Lui e le sue creature: Dio è il completamente Altro, diverso da tutto ciò che è creato. Perciò per prima cosa occorre togliere dal nostro linguaggio e dai nostri concetti ogni pretesa di comprendere e di descrivere in qualche modo Dio. Occorre una radicale purificazione linguistica che deve diventare anche una radicale purificazione esistenziale. L'uomo infatti corre sempre il pericolo di forgiarsi un Dio a sua immagine e somiglianza, divinizzando una creatura o un'immagine di Dio forgiata da lui stesso e cadendo così nell'idolatria. L'islam brandisce, contro ogni simile tentativo, la spada fiammeggiante della negazione più radicale di ogni somiglianza fra Dio e le creature: "Dio non è... (laysa...)", così incomincia il suo primo parlare di Dio. In tale approccio negativo alla trascendenza di Dio si possono facilmente riconoscere molti paralleli nel testo biblico e nella tradizione teologica cristiana.
I sufi leggeranno volentieri, nell'ordine che Dio dà a Mosè di togliersi le scarpe prima di avvicinarsi al roveto ardente da cui Egli lo chiama, il simbolo di tale negazione assoluta e purificatrice. L'uomo infatti deve purificarsi da tutto ciò che non è Dio per avvicinarsi esistenzialmente (e non solo verbalmente come, secondo i sufi, fanno la maggior parte dei musulmani) a Dio. Egli fa questo mediante uno stato di annientamento assoluto (fanâ'), che significa annientare le proprie qualità creaturali nel fuoco dell'unità divina: solo allora il sufi potrà avvicinarsi alla fiamma eterna dell'unità divina e il sole dell'unità divina potrà rispecchiarsi nel suo cuore illuminandolo di luci nuove... Ma in tale stato avvengono cose che non è lecito ai profani manifestarle. Questo è il segreto dei sufi (sirr) che ha attirato molte volte la condanna, fino all'eliminazione fisica, da parte dei giuristi-teologi musulmani (ulema – 'ulamâ'). In ogni caso molti gesti di purificazione rituale, comuni nelle pratiche di devozione islamiche, vengono interpretati e vissuti dai sufi secondo un profondo senso simbolico, per indicare tale radicale purificazione esistenziale, condizione unica per avvicinarsi alla soglia della trascendente unità divina.
2.3. Il Dio-Molteplice, o il momento catafatico dell'affermazione ("ithbât – tashbîh")
Il monoteismo islamico non si ferma alla negazione. Non è come il buddhismo che punta alla negazione assoluta come al momento di liberazione che introduce nell'Altro assoluto (nirvâna) (comunque questo concetto possa essere inteso, naturalmente).
L'islam, simile in questo alle due altre religioni abramitiche, l'ebraismo e il cristianesimo, ha un ricco linguaggio positivo su Dio. In esso quindi il momento apofatico o della negazione: "Dio non è...", è seguito dal momento catafatico o dell'affermazione: "Dio è...". E lungo è l'elenco delle qualità positive che vengono attribuite a Dio dal testo coranico e dalla tradizione islamica. L'affermazione positiva su Dio comprende due aspetti: l'affermazione della sua unità assoluta insieme e l'affermazione della molteplicità dei suoi attributi.
a. L'unità assoluta di Dio, oggetto della contemplazione/meditazione dei sufi
La prima e fondamentale qualità che viene attribuita a Dio è l'unità (wahda): "Dio è uno, il vostro Signore è uno (wâhid)", ripete continuamente il Corano. In arabo ci sono due termini per dire uno: wâhid e ahad.
Il primo termine wâhid indicherebbe, secondo una comune spiegazione teologica, l'unità in rapporto ad una molteplicità esteriore. Applicato a Dio questo termine significa che non ci sono molti dei: Dio è uno, Egli non ha né associati (sharîk), né pari (nidd), né oppositori (didd). Coloro infatti che attribuiscono a Dio degli associati sono i "politeisti" (in arabo mushrikûn, lett. gli "associatori"), e il più grande peccato che l'uomo può commettere è appunto quello di politeismo (shirk, lett. "associazionismo", cioè l'atto di associare altri dei a Dio); questo è l'unico peccato che, secondo l'islam, Dio non può perdonare.
L'altro termine ahad, di per sé in arabo è un sinonimo di wâhid, ma nel linguaggio teologico è stato comunemente usato per indicare l'unità interna di Dio: Dio non è composto di parti. Questo termine è infatti ricorre nel Corano nel capitolo (sûra) 112, detto appunto "La sûra della fede sincera (ikhlâs)", in concomitanza con il termine samad: "Di': Egli è il Dio, l'Uno (ahad); il Dio permanente-immutabile (samad); Egli non generò né fu generato; nessuno è pari a Lui" (Corano 112). L'aggettivo samad denota la permanenza, l'immutabilità, la saldezza di una cosa che, di conseguenza, diviene il saldo sostegno per altri. Con tale termine viene esclusa da Dio ogni forma di molteplicità e cambiamento interni. Attorno a questo concetto si accenderanno, come vedremo, le dispute dei teologi sul modo di spiegare l'unità di Dio in rapporto alla molteplicità delle qualità e delle azioni che gli sono attribuite.
L'affermazione dell'unità di Dio (tawhîd) costituisce quindi il centro della fede islamica, in qualche modo "la sua passione". In tale contesto occorre sottolineare l'aspetto "rivoluzionario" che ha il tawhîd coranico, in continuità con quello biblico. Esso significa infatti spodestare qualsiasi creatura, cose o esseri umani, dalla pretesa di mettersi al posto di Dio: esso costituisce quindi una radicale contestazione di ogni paganesimo antico e moderno, in cui degli esseri creati, umani e no, venivano e vengono tuttora messi al posto di Dio. È facile constatare che quando la coscienza di tale puro tawhîd diminuisce, il paganesimo, in tutte le sue forme anche le più criptiche, ritorna in vigore.
Da questo punto di vista uno può e deve riconoscere che la professione del tawhîd fatta dall'islam è una continuazione del messaggio biblico, radicato nella fede abramitica che proclama l'assoluta centralità di Dio nell'essere e nell'agire. Viva espressione di tale fede abramitica è quanto proclama Paolo ai pagani ateniesi: "In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28). Per tale motivo il sufi cercherà in tutte le creature, le opere di Dio, i segni che ne proclamano l'unità e la signoria assolute. In tutte le creature ci sono chiari segni dell'unità divina, per chi a occhi per vedere.
b. I 99 "bei nomi" (al-asmâ' al-husnâ) nella contemplazione/meditazione sufi
Accanto alla proclamazione dell'unità assoluta di Dio, la fede islamica non cessa di proclamare gli infiniti attributi positivi di Dio. Molti sono i nomi e le immagini di carattere antropomorfico con cui il Dio-Uno è qualificato e descritto nel testo coranico: si parla del "volto di Dio", del "trono di Dio", della "mano di Dio", ecc. Tutte queste qualità sono state riassunte dalla tradizione islamica nei famosi "99 bei nomi" (al-asmâ' al-husnâ). La recitazione di questi "99 bei nomi" è diventata una pratica di devozione molto popolare fra i musulmani, soprattutto fra i sufi. Essi si aiutano nel conto dei nomi di Dio con una corona di grani detta subha (nella lingua corrente sibha) che significa "l'atto di lodare Dio", e non "rosario" come è tradotto talvolta impropriamente.
I 99 "bei nomi" costituiscono per il credente musulmano una specie di "somma teologica popolare" della sua fede, e la loro meditazione aiuta i credenti ad approfondire la loro vita spirituale. Per i sufi inoltre ogni nome divino è carico di molti significati interiori che possono essere trasmessi solo mediante una speciale iniziazione durante il noviziato sufi.
La speculazione teologica islamica ha cercato di trovare un ordine ai nomi divini riportati in tali liste che ne giustifichi l'uso. Alcune delle divisioni più comuni sono le seguenti:
Una tradizione teologica, in particolare la sunnita ash'arita, fissa dopo il nome Uno (wâhid) sette nomi detti "capitali", di cui tutti gli altri sarebbero solo dei derivati. Dio è essenzialmente Colui che sa ('âlim), che può (qâdir), che è vivo (hayy), che vuole (murîd), che parla (mutakallim), che ode (samî'), che vede (basîr). Questi sette nomi "capitali" riguarderebbero Dio in se stesso, in qualche modo la sua vita intima, ed essi sarebbero quindi dei nomi "assoluti". Mentre gli altri nomi come il Creatore, il Provvidente, il Soccorritore, ecc., riguarderebbero Dio in rapporto alle creature, e quindi sarebbero nomi "relativi".
Un'altra tradizione, comune soprattutto tra i sufi, intende distinguere fra i nomi divini: (1) nomi che mettono in risalto la potenza e maestà (jalâl) di Dio (Dio è il Possente, il Dominatore, l'Invincibile, Colui che fa vivere e morire, Colui che abbassa ed eleva, ecc.), questi nomi metterebbero in risalto l'aspetto maschile di Dio; (2) nomi che mettono in risalto il suo aspetto di misericordia e di bellezza (jamâl) (Dio è il Misericodioso, il Perdonatore, il Gentile, il Paziente, ecc.), questi nomi metterebbero in risalto l'aspetto femminile di Dio.
La perfezione dell'essere umano consisterebbe nell'assimilazione dei due aspetti della divinità: quello maschile e quello femminile. Anche a tal riguardo alla speculazione sufi ha sviluppato una sua mistica che non può essere sviluppata qui.
In conclusione, l'immagine coranica di Dio attraverso i suoi attributi può essere chiaramente percepita nel seguente testo in cui vengono ricordati alcuni dei principali attribuiti di Dio, cioè i suoi "nomi più belli" (Corano 59,1.22-24):
"Tutto ciò che vi è nei cieli e sulla terra celebra le lodi di Dio,
Egli è il potente e il sapiente.
Egli è Dio — non c'è divinità se non Lui —
Egli conosce l'invisibile e il visibile:
Egli è il clemente e il misericordioso.
Egli è Dio — non c'è divinità che Lui — il Re, il Santo,
la Pace, il Fedele, il Vigilante, il Possente, il Forte, il Grande.
Dio sia esaltato sopra tutto ciò che gli associano.
Egli è Dio, il Creatore, il Plasmatore, il Formatore:
a Lui spettano i nomi più belli.
Lo glorifica quanto è nei cieli e sulla terra:
Egli è il Possente, il Sapiente".
Questo come pure moltissimi altri testi coranici esortano il credente alla riflessione, meditazione e contemplazione delle qualità divine, a immergersi in esse fino a venire trasformato da esse, o come dice un famoso hadith, divenuto un dei principi fondamentali della vita mistica islamica: "Rivestitevi delle qualità di Dio".
3. Il "tawhîd" sufi
3.1. La struttura del cammino sufi
Da quanto esposto, appare chiaro che il cammino di ogni credente musulmano, ed evidentemente in particolare di ogni sufi, è quello di entrare sempre più profondamente in quello che possiamo ormai chiamare il mistero dell'unità divina, unità che non si riduce a essere una semplice formula aritmetica, anche se molte volte è così intesa da credenti superficiali. Occorre quindi ora mettere in luce alcuni degli aspetti fondamentali del tawhîd sufi. In tal modo ci mettiamo in contatto con ciò che può essere considerato il cuore dell'esperienza sufi: l'esperienza del tawhîd. Tale esperienza va letta in primo luogo all'interno della struttura del cammino sufi. Il cammino mistico nell'islam si svolge attraverso tre stadi o tappe fondamentali, indicati dai sufi stessi con i termini seguenti.
a. La legge (sharî'a): tale termine designa la "strada" (questo è il senso primo del termine arabo) stabilita e rivelata da Dio agli uomini, e che nessuno quindi può cambiare. La legge (sharî'a) è riassunta nei cinque pilastri dell'islam che ogni buon musulmano deve osservare, e il sufi in modo particolare, scrupulosamente. Questo è il punto di partenza per ogni cammino sufi: nessuno può pretendere di essere sufi se non osserva la legge divina (sharî'a) rivelata da Dio.
b. La via (tarîqa): tale termine designa la "via" (questo è il senso primo del termine arabo), cioè un metodo di vita che il fedele segue per vivere la legge divina secondo le intenzioni più profonde intese da Dio. In questa tappa prevale lo sforzo ascetico attraverso cui l'aspirante sufi cerca di purificare il proprio cuore per renderlo disponibile all'azione di Dio. Questo è uno stadio intermedio, ma necessario per giungere al fine del cammino sufi.
c. La Verità/Realtà (haqîqa): tale termine designa la tappa finale del cammino; essa consiste nella "scoperta" o "rivelazione" (fath) di Dio, suprema realtà e termine ultimo di tutti i simboli religiosi. Il sufi quindi è chiamato a passare dall'esteriorità delle forme all'esperienza personale e viva, al "gusto" (dhawq)della Realtà divina, fonte della vera conoscenza sufi. L'incontro con la Realtà divina comporta necessariamente una profonda trasformazione della persona del sufi. La storia mostra che molte volte tale trasformazione comporta esperienze ed espressioni che sembrano essere in contraddizione con la prima tappa, quella della legge. Questo conflitto, in cui la bianca rosa dell'esperienza mistica dei sufi è stata sovente imporporata con il rosso del loro sangue, secondo una diffusa immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile nel mistero dell'incontro di due libertà: quella dell'uomo e quella di Dio, l'Assoluto, libertà che sempre sorprende e scandalizza coloro che sono legati solo all'esteriorità della legge o dei simboli religiosi.
Ci sono anche altre classificazioni del cammino sufi, ma la presente ha il vantaggio di metterene in risalto la dinamica interna, evidenziandone il movimento di interiorizzazione della legge religiosa, interiorizzazione che si trascende infine nell'incontro/unione con la Realtà/Verità assoluta (al-haqq), Dio stesso. Questa divisione del cammino sufi in tre stadi o tappe viene fatta molte volte corrispondere ai tre livelli fondamentali dell'essere umano, che, secondo una comune antropologia sufi, sono: l'anima (nafs) (sede dei sentimenti e qualità sensibili), cuore (qalb) (sede dei pensieri e delle qualità spirituali), ed infine lo spirito (rûh) o l'intimo segreto (sirr) (il luogo delle manifestazioni o rivelazioni divine, là dove la persona umana si apre all'Assoluto, Dio).
Anche per il sufismo rimane assodato che la Realtà/Verità assoluta (al-haqq), Dio, non può essere espressa in formule definite e chiare: essa sorpassa di gran lunga "quanto l'essere umano può pensare, immaginare, sperare". L'incontro con Dio comporta necessariamente un cambiamento radicale della persona umana al punto che i suoi limiti creati sono in qualche modo infranti, dato che il sufi avanza in una realtà illimitata, in un mare di cui non vede le sponde. Quante volte l'immagine del "naufragare in questo mare" ritorna nelle espressioni sufi! C'è chi si limita a parlare di una vicinanza trasformante (qurb) di Dio (al-Ghazâlî), o di un annientarsi (fanâ') in Lui (al-Junayd), ma c'è anche chi giunge a parlare di una inabitazione (hulûl) di Dio nel cuore del suo servo (al-Hallâj) o di una unione reale (wahda-ittihâd) con Lui (Ibn 'Arabî). Simili espressioni hanno molte volte scandalizzato i rigidi assertori della pura lettera della legge, i dottori della legge (ulema), ma per i sufi tali espressioni sono solo dei balbettii per esprimere una realtà che sorpassa ogni espressione umana. La distanza fra esperienza interiore ed espressione esteriore è stata vissuta profondamente ed anche drammaticamente dai sufi come estasi (ex-stasis), cioè come un uscire dai propri limiti, ma anche come diastasi (dia-stasis) mistica, cioè come esperienza della distanza infinita tra il relativo e l'Assoluto. Al-Niffarî (m. 366/976), uno dei più profondi pensatori sufi del IV/X secolo, ha bene espresso tale asintotica tensione fra esperienza o visione interiore e la sua espressione o lettera esteriore, in un famoso detto: "Quanto più si allarga la visione (ru'ya), tanto più si restringe l'espressione (ibâra)".
3.2. Il "tawhîd" come centro dell'esperienza sufi
È stato indubbiamente uno dei più grandi contributi di Louis Massignon (1883-1962) l'aver difeso l'origine coranica del sufismo contro molte tendenze che lo volevano un movimento puramente importato in islam da fonti esterne, cristiane, ebraiche, gnostiche, ecc. Le ricerche successive hanno sempre più confermato tale assunto. Inoltre esse hanno sempre più sottolineato che proprio la professione della fede monoteista coranica (tawhîd) è alla base dell'esperienza sufi.
Lo studioso francese Marijan Molé afferma nel suo studio sul sufismo: "Una delle costanti dell'esperienza sufi sembra essere il sentimento che nulla ha esistenza reale al di fuori di Dio".
Un altro studioso francese, p. Robert Caspar, afferma pure che: "È tale radicale teocentrismo il punto di partenza di ogni misticismo".
L'orientalista tedesco Hans H. Schaeder mette in chiaro che: "La mistica islamica è il tentativo di raggiungere la salvezza individuale attraverso il raggiungimento del vero tawhîd".
Il tawhîd, base della fede islamica, deve essere considerato la sorgente prima della vita e dell'esperienza dei sufi. In particolare, l'uso dei pronomi "Egli - Tu – Io" (huwa - anta - anâ) nelle formule del tawhîd hanno un enorme potere catalizzante. Attraverso la loro incessante ripetizione l'"io" individuale del singolo sufi è progressivamente assorbito nell'"Io" divino, al punto che il sufi perde totalmente la propria auto-coscienza personale, entrando in uno stato di ebbrezza (sukr), estasi o trance. Tale processo di assorbimento appare visibile nella pratica individuale e comune dello dhikr (ricordo, ripetizione) del nome di Dio da parte dei sufi. Questa pratica, sostenuta normalmente da un forte ritmo musicale, raggiunge il suo culmine nella ripetizione del nome di Allâh, poi del pronome personale Lui (huwa) che finisce per divenire la ripetizione del soffio hâ... hâ.... A questo punto il sufi è sempre più assorbito dal ritmo e dal soffio che escono dal suo profondo, la sua auto-coscienza viene sempre più annullata... fino a sparire nella maestà della Presenza divina (hadra).
Il tawhîd coranico, sorgente prima e ispiratore principale dell'esperienza sufi, rappresenta pure l'asse fondamentale di sviluppo del vocabolario sufi in generale. Ad esempio, lo sviluppo del linguaggio dell'amore (hubb) nel sufismo non può essere considerato una pura derivazione esegetica del linguaggio dell'amore nel Corano. Esso si è sviluppato piuttosto attraverso un'esperienza pratica e in connessione con il linguaggio dell'unità (tawhîd). In tal modo si può rendere conto della caratteristica dell'amore sufi, che lo distingue da quello cristiano. Infatti, mentre quest'ultimo, seguendo il comandamento evangelico, unisce sempre l'amore per Dio con quello per il prossimo, l'amore sufi ha in primo luogo Dio come solo e unico fine, mentre l'amore per il prossimo appare piuttosto come un corollario secondario.
Per tal motivo nell'interprtazione dei testi sufi occorre tener presenti due importanti fattori che hanno influito sulla foramzione del loro linguaggio.
Il primo fattore è l'esperienza che porta a un gusto personale (dhawq) della realtà. I sufi (come del resto i mistici di altre tradizioni religiose) non sono né puri ripetitori di testi sacri, come lo sono spesso i canonisti, né degli astratti speculatori della realtà mediante la pura ragione, come lo possono essere i filosofi. Il mistico invece scopre la realtà attraverso la propria esperienza personale, ed è in tale scoperta che egli crea il proprio linguaggio, reinterpretando il linguaggio della sua tradizione religiosa. Paul Nwyia nel suo studio sul linguaggio dei sufi afferma infatti che fu attraverso il sufismo che in islam fu creato "un vero linguaggio di esperienza".
E l'altro fattore, sopra accennato, è quello delle influenze extra-islamiche che indubbiamente ci sono state. L'islam ha sempre interagito su tutti i campi, teologico, filosofico, scientifico, artistico, con le varie culture con cui venne in contatto. E anche il campo del sufismo non ne fu esente. Influenze da parte del monachesimo cristiano orientale, della cabbala ebraica, delle varie correnti gnostiche, delle religioni iraniane, ecc. sono evidenti nel sufismo. In seguito, esso inter-reagirà con le varie culture dell'Asia e dell'Africa. All'interno del sufismo si può percepire una costante tensione tra la sua originalità islamica e le influenze "estranee" che ne coloriranno l'esperienza.
In conclusione possiamo dire che il tawhîd, la professione e coscienza piena dell'Unità di Dio, è la fonte prima dell'esperienza della mistica islamica, e quindi il primo oggetto di ciò che noi chiamiamo "contemplazione mistica". Però sarà solo attraverso la lettura dei testi sufi che ci si può rendere conto delle modalità di tale esperienza, dei suoi gradi, ma anche delle sure problematiche e aporie.
3.3. Il "tawhîd" sufi e le sue tappe
Prima di entrare direttamente nella lettura dei testi sufi, presento una griglia interpretativa che evidenzia quattro dimensioni o tappe che si possono ricavare da un percorso attraverso gli scritti dei sufi e che ci possono aiutare a capire tali testi. Altri sono liberi di seguire altri schemi. Le tappe che qui presento appaiono chiaramente in ordine storico, cioè nello sviluppo storico dell'esperienza sufi. Per cui, ad esempio, nei primi due secoli dell'islam non si trovano testi che si riferiscono alla terza o quarta tappa del tawhîd sufi. Mentre, evidentemente, in testi posteriori le quattro tappe possono essere mescolate insieme in un'unica esperienza complessa.
Il tawhîd sufi, basato sulla professione fondamentale della fede islamica (non c'è dio se non Allâh), viene approfondito e articolato assoluto nei termini seguenti.
a. Dio, come l'unico adorato. Questa è la prima tappa, quella dell'ascesi sufi (zuhd), tipica dei primi due secoli dell'islam. Ogni credente sincero, è chiamato ad orientare tutti i suoi atti di culto e di morale Allâh, l'unico vero Dio. Ma il sufi deve unire alla pratica esteriore la purezza interiore del cuore che mediante l'ascesi (zuhd) si stacca da ogni cosa che non sia Dio. Dio quindi è adorato esteriormente e interiormente in modo assoluto.
b. Dio, come l'unico amato. Questa è la tappa dell'amore sufi (hubb) che appare nel secondo secolo dell'islam e continuerà ad approfondirsi nei secoli seguenti. Il sufi deve liberare il suo cuore da ogni amore che non sia Dio. Anzi tale amore implica che il sufi si stacchi anche da se stesso: l'amore esige l'annientamento (fanâ') dell'amante nell'amato, tanto più se l'amato è l'Assoluto, Dio stesso.
c. Dio, come l'unico agente. In questa tappa il sufi prende sempre più coscienza che Dio, come Assoluto, è l'unico agente in ogni cosa. Il sufi deve annullare ogni suo agire autonomo per lasciarsi dominare dall'agire di Dio, l'unico vero agente che opera tutto in tutti. In questa tappa l'annientamento sufi (fanâ') giunge al suo sommo, e il sufi sperimenta lo stato di permanenza (baqâ') in Dio, ed infine di unione o forse immersione totale in Dio. Avendo rinunciato totalmente alle sue qualità il sufi viene ora rivestito delle qualità di Dio.
d. Dio, come l'unico esistente, l'unica Realtà. Questa è l'ultima tappa del cammino, e anche la più drammatica e discussa. Il sufi prende coscienza che il tutto non è che manifestazione di un'unica Realtà: quella di Dio. Dio solo può essere qualificato di esistente e sussistente (qayyûm). Ormai il sufi ha perso di vista la propria esistenza individuale, non esiste più in sé ma in Dio solo. Ma in tale stato il sufi scopre di essere uno con tutta la realtà esistente, trovando Dio in tutto e tutto in Dio.
Giuseppe Scattolin MCCJ
[Conferenza tenuta al convegno La contemplazione di Dio nell'induismo, nel monachesimo benedettino e nel sufismo, organizzato dal DIM e tenuto ad Assisi dal 13 al 17 luglio 2005]