Pubblichiamo qui la traduzione italiana, realizzata da Luisa Andreis, del capitolo “Le dialogue interreligieux comme expérience spirituelle”, in Xavier Melloni, Ouverture à la diversité religieuse, inTouch, Bruxelles 2021, pp. 51-65.
“La verità è una pura relazione spirituale, serena, che esiste tra due partner attraverso la comprensione, ovvero quando lo Straniero diviene Ospite”
(Louis Massignon, “L’hospitalité est le chemin de la vérité”)
Abbiamo fatto abbastanza strada per renderci conto che il dialogo interreligioso non è una strategia per sopravvivere in tempi di pluralità forzata ma un atteggiamento esistenziale che coinvolge l’intera persona, abbraccia tutto e include gli ambiti più diversi. Il dialogo interreligioso è un’esperienza religiosa e un appello alla conversione. Ciò comporta l’obbligo per ciascuno di cambiare punto di vista, comportamento e persino convinzioni, il che significa cambiare sé stessi. Non si tratta di una dialettica in cui la battaglia verbale mira a vincere o convincere. Si tratta piuttosto di crescere insieme attraverso una parola condivisa, ascoltata e approfondita grazie allo scambio tra esseri umani in ricerca dell’Assoluto e di una maggiore umanità. Ogni livello di ascesa nel dialogo è conquistato e condiviso passo dopo passo, tappa dopo tappa. Si tratta di promuovere una nuova coscienza priva di “ego”, nella quale le identità non siano chiuse né corazzate, ma relazionali, attente a lasciare spazio all’altro.
Solo con questa disposizione d’animo potremo giungere a comprendere altri sentieri che conducono anch’essi al Mistero, o almeno intravedere da quale profondità essi ci parlano. Non possiamo accedervi dall’esterno: dobbiamo essere accolti. Seyyed Hossein Nasr, un sufi iraniano contemporaneo, dice:
"Tollerare un’altra religione implica, in fondo, ritenere che essa sia falsa ma accettarne comunque la presenza, un po’ come si tollera il dolore quando è inevitabile, pur preferendo che non esista. Al contrario, comprendere una religione in profondità non consiste semplicemente nell’analizzare le sue manifestazioni storiche o le sue formulazioni teologiche per poi tollerarle, bensì nel riuscire a cogliere, almeno per anticipazione intellettuale, le verità interiori da cui si generano tutte le sue manifestazioni esteriori. Ciò significa essere capaci di passare dai fenomeni di una tradizione ai suoi noumeni, di andare alla sua essenza, là dove risiede la verità di tutte le religioni e dove soltanto esse possono essere comprese e accolte"[1].
Questo sforzo dobbiamo compierlo tutti e in ogni momento, con il desiderio che anche l’altro lo compia. Il dialogo interreligioso promuove un’esperienza di spogliazione e di esodo. Così liberati, possiamo permettere che si manifestino a noi nuove prospettive di Dio o della Realtà ultima, nuovi orizzonti che, dal nostro punto di vista, non potremmo concepire. Così si esprimeva l’Associazione teologica indiana nel 1989:
"Le religioni del mondo sono espressioni dell’apertura dell’essere umano a Dio. Sono i segni della presenza di Dio nel mondo. Ogni religione è unica e, proprio in virtù di tale unicità, le religioni si arricchiscono a vicenda. Nella loro specificità esse manifestano diversi volti di quel Mistero supremo che è inesauribile. Nella loro diversità ci permettono di sperimentare in modo più profondo la ricchezza dell’Unico. Quando le religioni si incontrano nel dialogo, formano una comunità in cui le differenze si convertono in complementarietà e le divergenze si trasformano in segni di comunione"[2].
In una maniera forse più sottile e penetrante, Abdelwahab Bouhdiba, musulmano allora presidente della Commissione araba permanente per i diritti dell’uomo, parlava della fecondità dell’incontro interreligioso:
"Il dialogo tra le religioni fonda una vera dialettica della rivelazione: il credente si esprime a partire dalla propria fede oppure – e qui si tratta della stessa cosa – la fede si esprime a partire dalla situazione di ciascun credente, e l’urto dell’incontro con l’altro mi rivela, per differenza, ciò che sono. Io mi rivelo nello sguardo dell’altro e, allo stesso tempo, il mio sguardo lo rivela a lui. In altri termini, le nostre fedi rispettive si rivelano a vicenda e, soprattutto, ci rivelano a noi stessi con una forza più grande. Le nostre religioni sono come specchi: basta collocarle sapientemente l’una di fronte all’altra perché moltiplichino le loro sfaccettature e le loro immagini. Le religioni, come le culture, nascondono rivelando e rivelano nascondendo"[3].
La teologia inizia oggi a considerare il dialogo interreligioso come un nuovo “luogo teologico”, secondo l’espressione di Melchor Cano (1509-1560). Con “luoghi teologici” questo domenicano intendeva degli ambiti particolarmente fecondi per la riflessione e l’argomentazione teologica[4]. Possiamo dunque considerare che il dialogo interreligioso costituisca un nuovo luogo teologico, nella misura in cui rappresenta uno spazio capace di farci riflettere su Dio secondo alcune premesse specifiche, in base alle quali – data la novità – i mezzi, tanto nel vocabolario quanto nei metodi, risultano ancora carenti e tutto è ancora in fase di maturazione.
Ma possiamo ancora fare un passo avanti e considerare che il dialogo interreligioso possa trasformarsi in uno spazio teofanico, nel quale non solo siamo noi a riflettere su Dio, ma anche uno spazio in cui Dio si manifesta a noi. In altri termini, il dialogo interreligioso può convertirsi in un luogo teopatico, in un luogo che consente di fare esperienza di Dio. Martin Velasco scrive:
"'Teopatico' trova la sua origine nella passività che caratterizza l’esperienza mistica in tutte le sue fasi; una passività che si collega alle numerose connotazioni suggerite dal testo di Pseudo-Dionigi l’Areopagita, che lo ha espresso nel modo migliore: Non tantum discens sed patiens divina (I nomi divini 2,9). Non solo imparando ma patiens, cioè sperimentando, Dio. Ma anche subendo, cioè ricevendo da Dio la luce e l’impulso indispensabili per entrare in contatto con lui; e persino soffrendo il suo peso, cioè il suo splendore e la purificazione indispensabili affinché la sua Presenza – origine di ogni conoscenza possibile e di ogni contatto con lui – risplenda in ogni persona che fa, o meglio, subisce tale esperienza"[5].
Nella misura in cui, nell’incontro interreligioso, vi sia un’esperienza spirituale, il dialogo sarà intra-religioso, cioè si svolgerà all’interno dell’esperienza della fede e produrrà un’esperienza più profonda di Dio[6]. Ma ciò non è garantito in anticipo. È evidente a tutti che vivere il dialogo interreligioso come luogo teopatico non è affatto cosa facile.
Potremmo individuare cinque caratteristiche della parola condivisa in questo dialogo affinché esso si trasformi in un’esperienza di conversione: parleremo di una parola disarmata, spoglia, decentrata, silenziosa e creatrice.
1. Una parola disarmata
Nell’editto dell’imperatore Ashoka, monarca indiano del III secolo a.C., che si convertì al buddhismo pacificando così il proprio cuore tormentato dall’enorme violenza che egli stesso aveva scatenato, si trovano le basi per un incontro non violento tra le religioni:
"Il progresso reale [che può compiersi in tutte le religioni] ha forme diverse, ma sua radice è la moderazione nell’esaltare la propria religione come nel criticare l’altrui religione; e il parlarne sia ben meditato, e vi sia rispetto. Si deve sempre rispetto alle religioni altrui. Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre; agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione e alle altre. […] È bene che vi sia dominio di sé, che gli uni diano ascolto e rispettino la fede religiosa degli altri"[7].
Troviamo inoltre dei riferimenti a questa modalità di parola nei cantici del Servo di Yahwé, figura dell’Antico Testamento che rappresenta l’essere umano divenuto portatore del messaggio-presenza di Dio al suo popolo dopo aver rinunciato a ogni autoaffermazione: “Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire” (Is 11,3); “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is 42,2-3). La parola da scambiare non richiede autodifesa. Essa sgorga dalla propria convinzione come un’offerta, non come un’imposizione.
Il dialogo interreligioso sottolinea che, se il linguaggio impiegato per parlare di Dio non è disposto ad aprirsi e ad affidarsi alla Realtà ultima di cui si parla, tale linguaggio è antireligioso, poiché non crea legami né tra coloro che vi partecipano né con colui di cui si parla, ma li usurpa. La pacificazione necessaria della parola pronunciata non riguarda soltanto la modalità del dialogo, ma anche il suo contenuto. Come disse Gandhi: “Senza l’ahimsa [nonviolenza] è impossibile cercare e trovare la Verità”[8]. La violenza è un velo che nasconde la manifestazione della verità. La vera conoscenza di Dio porta al rispetto totale dell’altro, perché tutti sono portatori di una porzione di verità. Come possiamo leggere nello stesso profeta Isaia: “Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare” (Is 11,9).
La violenza della parola proviene dalla paura di essere spossessato dalla sicurezza che dà. Affinché nessuno faccia danni con essa, dobbiamo sbarazzarci volontariamente della potenza che il suo linguaggio contiene. “La nonviolenza è una forza attiva del più alto ordine. È la forza dell’anima o la potenza del Divino dentro di noi. L’essere umano imperfetto non può cogliere la totalità di quell’Essenza in quanto non sarebbe in grado di sopportare il suo splendore”[9], disse ancora Gandhi.
2. Una parola spoglia
Il paradosso più radicale del dialogo interreligioso è forse quello di doversi disfare totalmente di ogni pretesa dell’Assoluto che si proclama. Se non è così, ogni gruppo perviene all’idolatria, avendo confuso la Realtà ultima con l’immagine che ci facciamo di essa, alla quale non vogliamo, non possiamo o non sappiamo rinunciare. Il dialogo interreligioso mette in risalto l’assurdità di volersi disfare del Fondo che è il fondamento di tutto. Se non si arriva spogliati al dialogo, si è soltanto portatori di sé stessi: delle proprie sicurezze e ideologie o semplicemente delle proprie abitudini, costumi o ossessioni.
“Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”, dice Gesù (Lc 14,33). Di nuovo il paradosso: ognuno si consegna all’Assoluto attraverso un cammino, ma né il cammino né l’Assoluto gli appartengono. Consegnarsi così non può essere una maniera camuffata per giustificare un nuovo possesso. Non parliamo qui dell’obbligo di rinunciare all’adesione incondizionata al cammino che si sta costituendo ma di disfarsi della chiusura che questo atto può generare. Senza questa spogliazione non camminiamo come discepoli ma come maestri di noi stessi e come schiavi delle nostre paure e della nostra volontà di conquistare. Quindi ciò che difendiamo non è che un idolo, una maschera camuffata sotto forma di concetti e argomenti che abbiamo noi stessi costruito. Giovanni della Croce scrive:
"Quando ti fermi su qualche cosa,
tralasci di slanciarti al tutto.
Per andare del tutto al tutto,
devi rinnegarti del tutto in tutto.
E quando giungi a tenerlo del tutto,
lo devi tenere senza volerlo per niente.
Poiché, se vuoi tenerti qualcosa in tutto,
non hai solo in Dio il tuo tesoro"[10].
Finché non ci spoglieremo dei nostri concetti dell’Ultimo, continueremo a proiettare su di lui ciò che già sappiamo, privandoci così della possibilità che possa manifestarsi oltre quanto già conosciamo, attraverso altri approcci, i quali dovrebbero anche essere fatti in stato di spogliazione. Il divieto dell’ebraismo e dell’islam di esprimere immagini di Dio rimanda a questa precauzione. Ciò comporta non solo la rappresentazione pittorica ma anche le immagini mentali e i concetti che ci fabbrichiamo di Dio. In tutte le religioni si trova questa tentazione di appropriazione. Le tradizioni che vietano le rappresentazioni di Dio si attaccano ad altri aspetti della loro religione: la consapevolezza di essere il popolo eletto nel caso di Israele o l’intoccabilità della parola rivelata del Libro sacro nel caso dell’islam; invece le religioni che permettono le immagini più varie e strane di Dio, come l’induismo, possono cadere in altri assoluti come forse la divisione in caste con le esclusioni che ne conseguono provocate dall’ossessione dell’impurità; nel buddhismo, le diverse correnti possono cadere nell’assolutizzazione dei metodi di meditazione. Quanto al cristianesimo, Anthony de Mello fa un racconto che esprime quale può essere la sua tentazione:
"Un cristiano una volta fece visita a un maestro zen e disse: 'Permettimi di leggerti alcune frasi del Discorso della montagna'. 'Le ascolterò con piacere', disse il maestro. Il cristiano lesse alcune frasi e alzò gli occhi. Il maestro sorrise e disse: 'Chi ha pronunciato queste parole era davvero un uomo illuminato'. Ciò fece piacere al cristiano. Continuò a leggere. Il maestro lo interruppe e disse: 'L’uomo che ha proferito queste parole può essere davvero definito Salvatore dell’umanità'. Il cristiano era elettrizzato. Continuò la lettura fino alla fine. Il maestro allora disse: 'Questo discorso è stato pronunciato da un uomo splendente di divinità'. La gioia del cristiano non conosceva limiti. Se ne andò deciso a tornare e a convincere il maestro zen che egli doveva farsi cristiano. Rincasando incontrò Cristo sul ciglio della strada. 'Signore', disse entusiasticamente, 'sono riuscito a far ammettere a quell’uomo che sei divino!'. Gesù sorrise e disse: 'E a che ti è servito, se non a gonfiare il tuo ‘ego’ cristiano?'"[11].
L’"ego" non consiste solo nell’essere vanitoso ma anche nel sentire il bisogno di convincere gli altri a credere a quanto si crede per sentirsi più sicuri. Il teologo tedesco Gerd Neuhaus analizza con acutezza la contraddizione che esiste tra la proclamazione cristiana della rivelazione di Gesù Cristo come liberazione di Dio e il fatto che questa confessione si trasforma in autoaffermazione identitaria che impedisce questa liberazione[12].
3. Una parola decentrata
In un dialogo interreligioso non si tratta di scambiarsi informazioni. A questo scopo esistono già manuali, dizionari e monografie. La particolarità del dialogo è l’incontro con l’altro. La sua presenza è portatrice di una profondità che non posso prevedere. Questo fa sì che il dialogo abbia un carattere sacramentale, in cui l’altro manifesta un aspetto di Dio che non conosco ma di cui egli ha esperienza. Louis Massignon, l’islamologo francese amico di Charles de Foucauld, diceva che “non si trova la verità che praticando l’ospitalità”[13]. Dialogare comporta accogliere l’altro e lasciarsi accogliere per permettere che si manifesti qualcosa del mistero che lo abita. Si tratta di ridurre al silenzio ogni apriorismo e ogni pregiudizio, e di essere tutto ascolto, tutto presenza per l’altro con tutto il mio essere, in quanto la parola non è che una delle sue manifestazioni possibili. Dialogare significa immergersi in lui ed entrare in comunione con ciò che gli dà vita. Più saremo capaci di ascolto, più profondo e luminoso sarà il mistero presente nell’altro che potrà rivelarsi a noi. Questo ascolto suppone un’uscita dal mio “io” verso il cuore di colui che è diverso da me. Si tratta di un’uscita, un’“estasi” in lui, nel quale devo entrare scalzo perché mi trovo in terra sacra (cf. Es 3,5).
Così si esprime Henri Le Saux (1910-1973), monaco benedettino, che partì per l’India nel 1948 dove fece un’esperienza interreligiosa e intrareligiosa, estatica e ardua al tempo stesso, fino alla sua morte:
"Per un dialogo fruttuoso è necessario che io giunga, per così dire, nel più profondo di me stesso, all’esperienza del mio fratello, liberando la mia esperienza da ogni accumulo, affinché il mio fratello possa riconoscere in me la sua esperienza della propria profondità"[14].
Non si tratta di dissolversi nell’altro né di venire assorbito da lui, ma in un certo modo bisogna osare perdersi, frutto della fiducia che gli ho accordato, e permettere che egli mi conduca verso profondità e paesaggi che ignoravo. Al tempo stesso l’altro dà a me la stessa fiducia ed è introdotto in una zona di trascendenza che non conosceva. Dopo questi reciproci abbandoni, nessuno dei due può essere di nuovo lo stesso, senza tuttavia smettere di essere in profondità quello che era.
Quali sono i limiti di questo abbandono? Non possiamo saperlo prima di averne fatto l’esperienza. Conosciamo il punto di partenza ma non il punto di arrivo di un’estasi e di un esodo che abbiamo appena iniziato a fare. “Esperienza” deriva da experior, composto dal prefisso ex, “che viene da”, e dalla radice indoeuropea por, “attraversare”, “passare attraverso”. Da qui proviene anche la parola “porta”. In tedesco il senso è conservato più chiaramente: Erfahrung (“esperienza”), contiene la parola “viaggio” (Fahrung). È qui che si trova il cuore della riflessione: come e in quale senso il dialogo interreligioso può esistere e può essere un esodo e un pellegrinaggio, in definitiva una pasqua in quanto passaggio a una riva sconosciuta?
Si dice spesso che non può esserci dialogo se ogni interlocutore non parla a partire dalla sua identità e se i punti di partenza non sono chiari: è vero. Abbiamo anche detto che l’incontro con le altre tradizioni serve ad approfondire certi aspetti della nostra: è vero anche questo. Ma bisogna aggiungere che dobbiamo essere pronti a lasciarci portare verso “ciò che non sappiamo, non possediamo e non siamo”: se vogliamo seguire le tracce di Giovanni della Croce fino alla cima del monte Carmelo.
Dialogare comporta il rischio di non tornare mai più quello di prima. Qualche cosa dell’altro si è introdotto in me in modo irreversibile e mi spinge sempre più in avanti. L’esperienza spirituale che comporta il dialogo interreligioso ha il carattere di un viaggio abramitico: bisognerà partire dalla terra conosciuta dei nostri genitori per entrare in terra straniera verso un paese che Dio ci mostrerà (cf. Gen 12,1). Come nel caso di Abramo, sorgeranno dubbi e perplessità ma come risultato di questo viaggio, di questa esperienza, il cielo dispiegherà un immenso paesaggio di stelle (cf. Gen 15,5). La terra promessa ad Abramo è il paese “riempito della conoscenza del Signore” annunciato da Isaia (cf. 11,9).
4. Una parola silenziosa
Perché la parola condivisa sia una parola teofanica, deve nascere dal silenzio ed essere condivisa nel silenzio. La parola umana partecipa della parola divina ed è in essa che veniamo rigenerati e purificati: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio e tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Gv 1,1-3). Il prologo di san Giovanni si riferisce al Logos primordiale, all’Ur-wort, come dicono i mistici tedeschi. Questa parola non è la nostra parola ordinaria – su Dio o su qualsiasi altra dimensione della realtà – ma è la sua fonte. Una Upanishad l’esprime in questo modo: “Ciò che non è espresso dalla parola ma ciò attraverso cui la parola viene pronunciata, sappi che è il Brahman” (Kena Upanishad 1,5). Senza questa immersione nella parola primordiale che è silenziosa perché è anteriore e precede ogni parola umana, il parlare religioso e interreligioso si trasforma in un parlare vano.
Un dialogo senza silenzio è destinato al fallimento. Del resto questo silenzio trasforma il dialogo interreligioso in dialogo intrareligioso, in quanto non si tratta di condividere una parola su Dio ma una parola che viene da Dio. Ecco come questo spazio diventerà teopatico e teofanico.
È soltanto conservando la consapevolezza della sproporzione esistente tra la parola umana su Dio e la Parola che Dio pronuncia al di là di ogni parola umana che consentiremo che si apra uno spazio silenzioso e sacro liberato dalle nostre saturazioni verbali. È solo da questa adorazione, da questa venerazione per ciò che non può essere detto, che un dialogo fecondo può avvenire. Infatti siamo tutti sufficientemente sensibili per captare quando una parola proviene dal frastuono delle ideologie e delle propagande o quando nasce da quel silenzio primordiale che trae la sua origine dalla preghiera. La parola che circola nel dialogo interreligioso e intrareligioso deve essere una parola pregata e orante, che trae origine nel silenzio e porta al silenzio. È solo in questo modo che la parola sarà feconda, partecipe dell’impulso creatore di Dio.
5. Una parola creatrice
Il miglior esempio della fecondità dell’incontro con l’alterità è l’unione coniugale: nella misura in cui c’è piena comunione, c’è fecondazione. Nell’unione tra l’uomo e la donna, ognuno resta il/la stesso/a ma appare un terzo essere che è al di là dei primi due. Ogni parola condivisa è chiamata a generare qualcosa di nuovo che non esisteva prima del dialogo. Quel qualcosa di nuovo non è un prodotto o una costruzione ma un dono. Un dono che è bene desiderare ma mai esigere.
Nella misura in cui i partecipanti al dialogo restano aperti alla manifestazione del Mistero sbarazzandosi di ogni corazza, spogliandosi, decentrandosi e mantenendo il silenzio, questo spazio può essere fecondato e può convertirsi in una matrice in grado di generare qualcosa di nuovo: “Lo Spirito santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo” (Lc 1,35). L’ambito interreligioso può essere questa nuova matrice teologica capace di feconde teofanie.
Per parte nostra, non possiamo fare altro che prepararci a questo momento e lasciarci condurre verso questa Verità tutta intera (cf. Gv 16,13) di cui nessuno possiede l’esclusività ma di cui ogni tradizione contiene una manifestazione. La novità che possiamo offrire (cf. Gv 16,12) dipenderà dall’entità del nostro spossessamento, cioè dallo spazio che avremo liberato per poter ricevere quel qualcosa di nuovo che vuole essere comunicato a noi.
"O Dio, noi siamo una cosa sola con te. Tu ci hai fatti una cosa sola con te. Tu ci hai insegnato che, se noi ci apriremo l’un all’altro, tu dimorerai in noi. Aiutaci a conservare questa apertura e a combattere per essa con tutto il cuore. Aiutaci a comprendere che non può esserci comprensione dove c’è un rifiuto reciproco. O Dio, accettandoci l’un l’altro con tutto il cuore, pienamente, completamente, accettiamo te, ti ringraziamo, ti adoriamo e ti amiamo con tutto il nostro essere, perché il nostro essere è nel tuo essere, il nostro spirito è radicato nel tuo spirito"[15].
Liberare lo spazio dell’identità personale e collettiva affinché avvenga la fecondità dell’incontro interreligioso rappresenta una delle più grandi sfide spirituali che le religioni hanno oggi di fronte.
Xavier Melloni SJ
NOTE
[1] S. H. Nasr, Sufismo vivo. Ensayos sobre la dimensión esotérica del Islam, Herder, Barcelona 20152, p. 44.
[2] Cf. Religious Pluralism. An Indian Christian Perspective, a cura di K. Pathil, ISPCK, Delhi 1991, p. 347, nr. 32.
[3] In Fe adelante. Los problemas del diálogo islamo-cristiano. Primer Congreso Internacional a distancia organizado por Crislam, Darek-Nyumba, Madrid 1988, p. 112.
[4] I luoghi teologici identificati da Melchor Cano sono essenzialmente sette: la Scrittura; la tradizione apostolica; l’autorità della chiesa; i concili ecumenici; il magistero romano (il sommo pontefice); i padri della chiesa; i teologi e i canonisti. Fin qui si tratta di luoghi evidenti, anche prevedibili. La novità della sua proposta è stata quella di suggerirne altri tre, che sono di grande attualità: la ragione naturale, il pensiero dei filosofi e dei giuristi, e la storia. Cf. M. Cano, De loci theologici, BAC, Madrid 2006.
[5] J. M. Velasco, El fenómeno místico, Trotta, Madrid 1999, pp. 408-409.
[6] Su questa questione Raimon Panikkar si è espresso abbondantemente nella sua opera Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988.
[7] Gli editti di Aśoka, a cura di G. Pugliese Carratelli, Adelphi, Milano 2003, p. 64, editto nr. 12.
[8] M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, a cura di G. Pontara, Einaudi, Torino 1996, p. 36.
[9] Harijan, 12 novembre 1938, in M. K. Gandhi, Il potere della non-violenza, Newton Compton, Roma 2012.
[10] Giovanni della Croce, Salita del monte Carmelo I,13,12, in Id., Tutte le opere, a cura di P. L. Boracco, Bompiani, Milano 2010, p. 1225.
[11] A. de Mello, Il canto degli uccelli. Frammenti di saggezza nelle grandi religioni, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 140.
[12] Cf. G. Neuhaus, “Christlicher Absolutheitsanspruch und interreligiöse Dialogfähigkeit”, in Theologie der Gegenwart 43/2 (2000), pp. 92-109.
[13] L. Massignon, “L’hospitalité est le chemin de la vérité”, in Id., Opera minora III, PUF, Paris 1969, p. 608.
[14] H. Le Saux, “The Depth-Dimension of Religious Dialogue”, in Vidyajyoti. Journal of Theological. Reflection 45/5 (1981), p. 214.
[15] Th. Merton, Diario asiatico, Garzanti, Milano 1975, p. 285.