Dialogo e annuncio
1991
1991
Dialogo e annuncio (= DA) è un documento di ampio respiro [28], redatto a venticinque anni dalla Nostra aetate. Esso ha un intento sintetico di tutti i documenti precedenti che abbiamo esaminato, dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, anche se non ci sono riferimenti espliciti all’ultima enciclica Redemptoris missio pubblicata quasi contemporaneamente. Questo intento sintetico è anche visibile dal fatto che il documento è elaborato in collaborazione tra il Segretariato per i non cristiani (poi trasformato in Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso) e la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Lo schema del documento è alquanto lineare: dopo l’introduzione (nrr. 1-13) nella quale si dà la spiegazione dei termini che vengono impiegati, c’è una prima parte (nrr. 14-54) intitolata “Il dialogo interreligioso”, una seconda (nrr. 55-76) sull’annuncio di Gesù Cristo, e una terza (nrr. 77-86) su dialogo interreligioso e annuncio, seguita da una conclusione (nrr. 87-89). Per quanto lineare, lo schema presenta però diverse ripetizioni.
1. Il rapporto fra chiesa e Regno
Relativamente al problema della salvezza di chi non è cristiano c’è un chiarimento del rapporto fra chiesa e Regno.
Il nr. 34 si richiama a LG 5 che presenta la chiesa come germe e inizio del Regno (cf. anche nr. 59), cioè come “sacramento” nel quale il Regno è già misteriosamente presente. Il numero seguente, poi, (nr. 35) ne deduce le conseguenze relative all’assenza, alla incompiutezza di questa presenza sacramentale, ossia il dovere per la chiesa di riconoscere anche ciò che sta al di fuori di sé. Ma il testo merita di essere citato alla lettera per le sfumature che non vanno trascurate: «Una parte di questo ruolo [della missione di far crescere il Regno] consiste quindi nel riconoscere che la realtà incoativa di questo Regno si può trovare anche oltre i confini della chiesa, per esempio nel cuore dei seguaci di altre tradizioni religiose, nella misura in cui vivono i valori evangelici e rimangono aperti all’azione dello Spirito. Si deve tuttavia rammentare che questa realtà è in verità allo stato incoativo; essa troverà il suo completamento nell’essere ordinata al regno di Cristo già presente nella chiesa, ma che si realizzerà pienamente solo nel mondo che verrà» (DA 35).
È da notare che l’essere ordinati od orientati dei non cristiani alla chiesa affermato dal Vaticano II, qui viene esplicitato come essere ordinati al Regno il quale è anche – seppur in modo speciale – presente nella chiesa.
In questo modo il rapporto fra chiesa e Regno per quanto “misterioso e complesso” risulterebbe assai chiaro se non fosse introdotta una citazione del chiesa e Regno in questi termini: «Il Regno, quindi, è inseparabile dalla chiesa, perché ambedue sono inseparabili dalla persona e dall’opera di Gesù [...]. Non è possibile pertanto separare la chiesa dal Regno come se la prima appartenesse esclusivamente alla sfera imperfetta della storia, mentre il secondo sarebbe il compimento escatologico perfetto del piano divino di salvezza» (nr. 34).
Rimane, inoltre da chiedersi se questa realtà incoativa presente al di fuori della chiesa è presente nella realtà delle tradizioni religiose o nella coscienza dei singoli: il nr. 35 parla infatti di «chiamata di Dio percepita nella loro coscienza [...] nei cuori dei seguaci di altre tradizioni religiose».
2. Il valore delle tradizioni religiose
È da apprezzare anzitutto il fatto che nell’introduzione si cerchi darne una definizione: «I termini religioni e tradizioni religiose vengono qui utilizzati in senso generico e analogico. Comprendono quelle religioni che, insieme al cristianesimo, fanno riferimento alla fede di Abramo e le grandi tradizioni religiose dell’Asia, dell’Africa e del resto del mondo» (nr. 12).
La valutazione più positiva di queste tradizioni religiose sembra riscontrabile nel nr. 29, che si presenta come conclusione di un’analisi condotta sui testi del Vaticano II, dell’Antico Testamento, del Nuovo Testamento, dei padri e del magistero di Giovanni Paolo II (soprattutto Dominum et vivificantem 53 e il discorso alla curia dopo la giornata di Assisi). Ecco il testo: «Il mistero di salvezza li [i membri delle altre religioni] raggiunge per vie conosciute a Dio, grazie all’azione invisibile dello Spirito di Cristo. È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza che i membri della altre religioni rispondono positivamente all’invito di Dio e ricevono la salvezza di Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro salvatore» (nr. 29). In questo testo la via della coscienza e la via di ciò che è buono nelle tradizioni vengono associate come vie di salvezza. Un valore positivo viene anche riconosciuto a esse dal nr. 79, dove si afferma che la chiesa pone domande a queste religioni attraverso la testimonianza autentica del vangelo, ma che ugualmente la chiesa, «nella misura in cui porta il segno dei limiti umani, potrebbe essere messa in discussione» da queste religioni. Si riprende l’affermazione di DM sul significato di queste tradizioni nel disegno di Dio, per mostrare l’esigenza di un discernimento interiore e di una riflessione teologica sulle varie tradizioni religiose (nr. 78), anzi di ogni religione (nr. 88).
Tuttavia anche qui, accanto a queste valutazioni positive, se ne possono riscontrare altre più limitative, quali la seguente: «Si possono discernere più facilmente i frutti dello Spirito santo nella vita personale degli individui, cristiani e non cristiani. È molto più difficile identificare nelle tradizioni religiose elementi di grazia, capaci di sostenere la risposta positiva dei loro membri alla chiamata di Dio (nr. 30).
Così il documento non manca di ricordare che in queste religioni non si trovano solo elementi divergenti, ma delle vere e proprie «contraddizioni» e delle «incompatibilità» con certi elementi essenziali della religione cristiana (nr. 31).
3. Il valore del dialogo
È certamente questo il problema che è al centro del documento e al quale è dedicato il maggior spazio. Non va dimenticato che il documento, per quanto sintetico, più che affrontare la complessità del problema dell’evangelizzazione, ha l’intenzione (come già si rivela dal titolo: Dialogo e annuncio) di rispondere a coloro che tendono a ritenere superfluo l’annuncio a vantaggio del dialogo. Ciononostante vi possiamo ritrovare anche indicazioni generali sulla missione della chiesa
Nell’introduzione (nr. 8) viene anzitutto chiarito l’uso dei termini: evangelizzazione o missione evangelizzatrice in senso ampio e annuncio in senso specifico, sia pubblico che privato (cf. nr. 10). Quindi si accetta ormai come acquisit0 [29] che la nozione di evangelizzazione è complessa in quanto comporta diversi elementi: 1) presenza e testimonianza; 2) impegno per lo sviluppo integrale dell’uomo; 3) dialogo; 4) annuncio (nr. 76).
La posizione riconosciuta all’annuncio rispetto agli altri elementi è quella di centro. Afferma infatti il nr. 76: «La sua mancanza [dell’annuncio] renderebbe l’evangelizzazione incompleta, perché senza questo elemento centrale, gli altri, pur essendo forme autentiche della missione della chiesa, perderebbero la loro coesione e vitalità» (nr. 76). Tuttavia non viene precisato ulteriormente l’ordine o il rapporto fra tutti questi elementi e il centro o il vertice, ma semplicemente si prende in esame l’elemento del dialogo interreligioso per affermare che: «Il dialogo interreligioso e l’annuncio, sebbene non allo stesso livello, sono entrambi elementi autentici della missione evangelizzatrice della chiesa. Sono ambedue legittimi e necessari. Sono intimamente legati ma non interscambiabili» (nr. 77).
C’è da notare che il testo – pur non mettendoli sullo stesso piano – parla di elementi autentici e legittimi – a seconda delle circostanze – dell’unica missione evangelizzatrice e attribuisce al dialogo una valenza teologica in quanto modo concreto di manifestazione della “chiesa-sacramento”. Approfondendo quanto già affermato da DM, il documento DA riconosce che la ragione e il valore principale del dialogo interreligioso non è di natura antropologica ma teologica poiché «Dio, in un dialogo che dura attraverso i tempi, ha offerto e continua a offrire la salvezza all’umanità» (nr. 38), e pertanto l’impegno della chiesa in questo campo non deve essere misurato dal successo, ma dalla consapevolezza di partecipare all’iniziativa di Dio (nr. 53). Così pure il fine del dialogo non è solo la mutua comprensione, ma un aiuto per rispondere sempre meglio all’appello personale di Dio (nr. 40), cioè la conversione più profonda di tutti verso Dio (nr. 41).
Anzi la chiesa non deve mai dimenticare che «la testimonianza più potente è spesso data precisamente nel momento in cui il discepolo è più indifeso, incapace di parlare o di agire, ma tuttavia rimane fedele» (nr. 65). In modo più concreto: non solo nel promuovere il dialogo fra sé e le tradizioni religiose, ma anche nel promuovere il dialogo delle tradizioni religiose fra di loro, la chiesa adempie al «suo ruolo di “sacramento” cioè di “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1)» (nr. 80) [30].
Sebbene non vi si insista molto, questa attività oltre che complessa sembra essere compresa come un processo dinamico, quando a proposito del dialogo si afferma che esso non può sostituire l’annuncio ma che «resta orientato verso l’annuncio in quanto in esso il processo dinamico della missione evangelizzatrice della chiesa raggiunge il suo culmine e la sua pienezza» (nr. 82). A tal proposito è molto interessante il modo con cui viene presentato l’annuncio. Vi è, infatti, una forte sottolineatura del rapporto fra annuncio e attesa di salvezza: «L’annuncio è una risposta all’attesa umana di salvezza» (nr. 67), «questo annuncio non si compie nel vuoto. Perché lo Spirito santo, lo Spirito di Cristo, è presente e agisce tra coloro che ascoltano la buona notizia ancor prima che l’azione missionaria della chiesa inizi (cf. RH 12; DV 53). In molti casi essi possono aver già risposto implicitamente all’offerta di Dio di salvezza in Gesù Cristo» (nr. 68). Ancor più che a proposito della evangelizzazione qui si parla di un processo: «Vi è un processo dai “germi del Verbo”, già presenti in chi ascolta, al pieno mistero della salvezza. La chiesa deve riconoscere un processo di purificazione e di illuminazione nel quale lo Spirito santo apre la mente e il cuore di chi ascolta all’obbedienza della fede» (nr. 70/e).
Il nr. 81 presenta anche una fenomenologia di questo processo progressivo dell’annuncio:
1. discernimento per vedere “in che modo Dio sia presente nella storia personale di ciascuno”;
2. rimettersi in questione da parte di chi annuncia per confessare la piena identità di Gesù;
3. quando i tempi sono maturi porre la domanda decisiva: “Chi dite che io sia?”;
4. confessione di fede da parte del candidato, come fase finale dell’annuncio.
Ciò che balza agli occhi in questa presentazione è l’ottica personale in cui questa opera di discernimento viene effettuata. Tutto quanto si è detto a riguardo degli elementi della evangelizzazione e in particolare del dialogo non viene messo in relazione diretta con l’attesa personale della salvezza. Tuttavia quella del dialogo interreligioso sembra essere una preparazione importante (anche se non necessaria) per giungere poi alla fase del discernimento dei semi del Verbo presenti nell’individuo, e per la proposizione di un annuncio “inculturato” nel senso che non sia «solo intelligibile per essi, ma sia anche percepito come rispondente alle loro più profonde aspirazioni» (nr. 70/f).
L’indicazione del documento sembra però andare nel senso di intrecciare il dialogo con l’annuncio e di attendere con pazienza il compimento dell’annuncio, cioè la professione di fede dell’interlocutore (cf. nr. 82), rispettando la libertà e le lentezze nel credere degli ascoltatori (nr. 69), anzi entrando nel «mistero della pazienza di Dio» (nr. 84) e imparando da Gesù stesso la pedagogia divina: ciò significa che la chiesa impara «da Gesù stesso e osserva i tempi e le stagioni come lo Spirito suggerisce. Gesù infatti solo gradualmente e con estrema cura ha rivelato [...] la sua identità di Figlio di Dio e lo scandalo della croce» (nr. 69).
La trasformazione della cultura, i cui soggetti possono essere le religioni, e l’adesione alla fede, che è sempre una conversione che ha come soggetto il singolo, rimangono su due piani distinti. Però, pur trattandosi di due attività distinte, non si tratta di praticare prima il dialogo e poi l’annuncio: uno stesso soggetto, persona o comunità locale, può praticarli insieme (nr. 77): «In pratica la maniera di compiere la missione della chiesa dipende dalle circostanze particolari di ogni chiesa locale, di ogni cristiano» (nr. 78).
[28] Il testo è pubblicato in La Civiltà Cattolica 142/3 (1991), pp. 51-80, e consta di ben 89 numeri.
[29] Il nr. 75 richiama i documenti del magistero nei quali si è operato questo sviluppo.
[30] Quanto alle forme del dialogo viene ripreso quanto detto in DM 28-35 aggiungendo a proposito della collaborazione per la giustizia che ciò deve essere fatto non solo quando ne sono vittima i propri membri (nr. 44). Il documento richiama quindi le disposizioni interiori necessarie per questo dialogo (equilibrio, convinzione religiosa, disposizione a imparare, nrr. 47-49), gli ostacoli (ben undici, nr. 52) e i risultati positivi sia per la chiesa che per le altre religioni (maggior apertura e condivisione di valori evangelici, nr. 54). La novità maggiore si ha a riguardo del dialogo religioso nell’ambito culturale: dopo aver notato che il concetto di cultura è più ampio di quello di religione si afferma che la questione è complessa poiché si può dare un’unica cultura e diverse religioni, oppure una religione e diverse culture, o ancora diverse religioni e diverse culture (nr. 45). Concretamente (nr. 46) l’impegno comune deve essere quello di:
a) «purificare le culture da tutti gli elementi disumanizzanti»
b) «promuovere i valori culturali tradizionali minacciati dalla modernità e dal livellamento che un’internazionalizzazione indiscriminata può comportare».