Redemptoris missio
1990
1990
Redemptoris missio (= RM) [31] è l’enciclica di Giovanni Paolo II emanata nel 25° anniversario del decreto conciliare Ad gentes. Anche se in ordine di tempo essa precede di poco DM, riteniamo che sia da presentare a questo punto perché RM sembra elaborata quasi per puntualizzare o chiarire ciò che DM lasciava indeterminato.
Da questo punto di vista è indicativo il fatto che nel sottotitolo dell’enciclica si dica: “circa la validità del mandato missionario”. Questo aspetto “apologetico” (in senso positivo) emerge chiaramente in diversi punti di RM. Anche se il discorso dell’enciclica è più ampio e non impostato a partire da esso, è utile per la nostra esposizione richiamare questi problemi sin dall’inizio.
Si tratta anzitutto delle concezioni errate della salvezza e della missione, sia antropocentrica che regno-centrica:
- antropocentrica (in senso riduttivo). È una visione incentrata sui bisogni terreni dell’uomo, che interpreta la fame dell’uomo come “fame di pane”, anziché “fame di Dio” (cf. nr. 83) [32];
- regno-centrica. È una visione che sottolinea l'immagine della chiesa tutta a servizio del Regno e che quindi non pensa a se stessa: «Si descrive il compito della chiesa come se debba procedere in un duplice direzione: da un lato, promuovere i cosiddetti “valori del Regno”, quali la pace, la giustizia, la libertà, la fraternità; dall’altro, favorire il dialogo fra i popoli, le culture, le religioni, affinché, in un vicendevole arricchimento, aiutino il mondo a rinnovarsi e a camminare sempre più verso il Regno» (nr. 17).
In secondo luogo si sottolineano i problemi derivanti da una mentalità indifferentista (nr. 4), in quanto mentalità che porta a un relativismo religioso e a una diminuzione dell’impegno missionario e dell’attività missionaria vera e propria: «Una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l’impegno missionario è la mentalità indifferentista diffusa, purtroppo, anche tra i cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”. Possiamo aggiungere – come diceva lo stesso pontefice [Paolo VI] – che ci sono anche “alibi che possono sviare dall’evangelizzazione. I più insidiosi sono certamente quelli, per i quali si pretende di trovare appoggio nel tale o tal altro insegnamento del concilio”» (nr. 36).
Tutte queste posizioni sono contrarie alla dottrina esposta chiaramente soprattutto nelle prime cinque parti del document0 [33] e che noi cercheremo di riassumere tenendo conto di tre problemi principali.
1. La salvezza dei non cristiani
Il punto di partenza per parlare dell’universalità della salvezza è il cristocentrismo, cioè Gesù Cristo unico e universale mediatore: non vi possono essere altre mediazioni “parallele e complementari”, ma solo “partecipate” [34]. Questo cristocentrismo si fonda sull’affermazione della “singolarità unica di Cristo”, che riconosce alla persona di Cristo nella storia un “significato assoluto e universale”, cioè di centro e fine della storia stessa, e ciò deve essere fatto in modo tale da non introdurre nessuna separazione tra il Verbo e Gesù Cristo, o tra “Gesù della storia” e “Cristo della fede” (cf. nr. 6). Su questa base si costruiscono le due (cf. nr. 9) affermazioni fondamentali:
1. la reale possibilità di salvezza in Cristo per tutti gli uomini;
2. la necessità della chiesa in ordine a tale salvezza.
Esse vengono illustrate in modo sintetico e chiaro. Per la prima, il passo più chiaro si trova al nr. 10, dove si ripete che la grazia è data anche a chi non è formalmente nella chiesa, ma si aggiunge – e questa è la novità – che essa ha una relazione misteriosa con la chiesa: «[La salvezza è accessibile a tutti] in virtù di una grazia, che pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione» (nr. 10).
Quanto alla seconda, riteniamo che la spiegazione più chiara sia data al nr. 18: «Non si può distinguere il Regno dalla chiesa. Certo, questa non è fine a se stessa, essendo ordinata al regno di Dio, di cui è germe, segno e strumento. Ma mentre si distingue da Cristo e dal Regno, la chiesa è indissolubilmente unita a entrambi. Cristo ha dotato la chiesa, suo corpo, della pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza; lo Spirito santo dimora in essa, la vivifica con i suoi doni e carismi, la santifica, guida e rinnova continuamente. Ne deriva una relazione singolare e unica, che, pur non escludendo l’opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della chiesa, conferisce a essa un ruolo specifico e necessario. Di qui anche lo speciale legame della chiesa con il regno di Dio e di Cristo, che essa ha la missione di annunziare e di instaurare in tutte le genti». Con questo si connette la riaffermazione chiara – anche se fatta più oltre nel contesto del dialogo interreligioso – che «la chiesa è la via ordinaria di salvezza e solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza» (nr. 55). Ne deriva anche la connessione (intrinseca) fra conversione e battesimo: «Tutto questo va ricordato – dice l’enciclica al nr. 47 – perché non pochi [...] tendono a scindere la conversione a Cristo dal battesimo, giudicandolo come non necessario».
2. Il valore delle tradizioni religiose
Il documento ripete quanto, a partire dal Vaticano II, è diventato patrimonio comune, e cioè che Dio è presente non solo nei singoli ma anche nelle tradizioni religiose. Ma è importante notare anzitutto un ampliamento dei luoghi della presenza. Nei nrr. 28-29 si possono ritrovare due elencazioni nelle quali i singoli luoghi di presenza dello Spirito appaiono secondo questo preciso ordine:
1. individui, società, storia, popoli, culture, religioni, riti, in ogni tempo, in ogni luogo;
2. uomo, cuore di ogni uomo, cuore degli uomini, storia dei popoli, culture, religioni.
Questo ampliamento è però centrato tutto sull’individuo, per cui – relativamente alle religioni – esse sembrano avere un valore non tanto in sé – in quanto religioni – bensì in quanto esprimono la somma delle ricchezze individuali. In questa direzione sembra esprimersi più chiaramente il nr. 55, quando afferma che Dio «non manca di rendersi presente non solo ai singoli, ma anche ai popoli, mediante le loro ricchezze spirituali di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione pur contenendo lacune, insufficienze ed errori».
Così pure non solamente si nota – come ormai di consueto – che le religioni hanno dei limiti, ma che anche ciò che di buono contengono non va disgiunto né da Gesù Cristo (e non solo dal Verbo) [35], né dalla chiesa; e ciò in due sensi.
Anzitutto nel senso che spetta alla chiesa discernere la presenza dell’azione dello Spirito (cioè dei semi del Verbo) [36]. In secondo luogo e soprattutto, nel senso che «tale dimensione temporale del Regno è incompleta se non è coordinata con il regno di Cristo, presente nella chiesa e proteso alla pienezza escatologica» (nr. 20). Cioè la chiesa è “sacramento di salvezza per tutta l’umanità” e ciò in quanto la chiesa serve il Regno «diffondendo nel mondo i “valori evangelici”», che del Regno sono espressione, attraverso «la sua testimonianza e con le sue attività, quali il dialogo, la promozione umana, l’impegno per la giustizia e la pace, l’educazione e la cura degli infermi, l’assistenza ai poveri e ai piccoli, tenendo sempre ferma la priorità delle realtà trascendenti e spirituali, premesse della salvezza escatologica» (nr. 20). L’enciclica introduce un aspetto nuovo a questo riguardo, cioè “l’intercessione” della preghiera, come modo per cooperare affinché il Regno sia accolto e cresca tra gli uomini (nr. 20).
3. Missione “ad gentes” e dialogo
Anche qui l’enciclica sembra voler invertire una tendenza, cioè quella di «ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes» (nr. 32), come conseguenza negativa della nuova e positiva visione teologica che ha rimpatriato le missioni nella missione della chiesa, la missiologia nell’ecclesiologia e ha inserito entrambe nel disegno trinitario di salvezza. Tutta la parte V si dedica a chiarire cosa si intenda per missione della chiesa.
Anche qui – come in DA – viene detto che essa è «una realtà unitaria ma complessa» (nr. 41), oppure che la missione è unica con attività diverse (cf. nr. 317) e interdipendenti (cf. nr. 34).
Tuttavia la base, l’analogatum princeps potremmo dire, per comprendere quest’unica missione è costituita non dal concetto ampio di missione, bensì dal concetto specifico: cioè dalla missione come missione ad gentes, «senza della quale la stessa dimensione missionaria della chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare» (nr. 34), e ciò anche perché la crescita demografica in paesi non cristiani (del sud e dell’est) «fa aumentare di continuo il numero delle persone che ignorano la redenzione di Cristo» (nr. 40). Per questo l’enciclica distingue accuratamente la (1) missione ad gentes, caratterizzata dalla prima evangelizzazione e che ha come scopo la plantatio ecclesiae, dalla (2) cura pastorale di un comunità già formata incentrata sulla catechesi e sui sacramenti, dall’ (3) impegno di “nuova evangelizzazione o di rievangelizzare” tipico delle comunità scristianizzate (cf. nr. 32).
Certamente c’è anche da sottolineare un’interdipendenza: «La missionarietà ad intra è segno credibile e stimolo per quella ad extra e viceversa» (nr. 34), per cui anche le chiese – come quelle dell’America Latina – che ancora hanno bisogno di missionari devono dare della loro povertà per la missione ad gentes (cf. nr. 64, con riferimento alla dichiarazione di Puebla).
L’enciclica sembra distinguere l’impegno per l’inculturazione (nr. 52), per il dialogo interreligioso (nr. 55), per la promozione dello sviluppo (nr. 58) come frutti della plantatio ecclesiae, dalla testimonianza che l’evangelizzatore deve dare prima di compiere l’annuncio (nr. 42). Il valore di questa testimonianza e di tutto ciò che precede e deve precedere il primo annuncio non viene negato, ma non sembra avere grande importanza – come nel documento precedente –. L’attenzione prevalente è data all’annuncio, il quale «ha la priorità permanente» (nr. 44), e a tutto ciò che ne consegue, non a ciò che lo precede. L’impegno precedente di testimonianza viene riconosciuto come «la prima e insostituibile forma della missione» e in molti casi come «l’unico modo possibile di essere missionari», tuttavia sembra si tratti comunque di qualcosa di precedente rispetto alla vera e propria “missione ad gentes”, la quale peraltro non ha come scopo l’evangelizzazione del singolo (come in DA) ma la formazione di una comunità cristiana.
Per questo, nell’insieme della parte V, i nrr. 42-43 non risultano del tutto coerenti: incoerenza che sembra rivelarsi anche nel titolo preposto a questi due numeri che parla di “evangelizzazione” (“La prima forma di evangelizzazione è la testimonianza”), mentre nel testo si parla sempre di missione e mai di evangelizzazione. Una controprova di ciò può essere il modo con cui viene descritta l’attesa del vangelo insita nell’uomo. Essa è un’attesa “inconscia”, per cui il missionario non si scoraggia di annunciare il vangelo anche in un ambiente ostile o indifferente, anzi lo fa con entusiasmo: «L’entusiasmo dell’annunziare Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa» (nr. 45).
La fenomenologia della missione ad gentes è descritta in modo assai dettagliato e comprende queste tappe:
- primo annunzio di Cristo salvatore (nrr. 44-45);
- appello alla conversione (nr. 46);
- battesimo (nr. 47);
- formazione di chiese locali (nr. 48).
Finché non si riesce a «edificare una nuova chiesa particolare, normalmente funzionante nell’ambiente locale», non si può dire di aver compiuto un’attività missionaria (nel vero senso della parola). Il documento riconosce che non è facile indicare le tappe precise e il momento in cui «cessa l’azione propriamente missionaria e si passa all’attività pastorale» (nr. 48). Però se l’azione missionaria vera e propria (quella ad gentes) è un’azione mai conclusa, non è in quanto la fondazione di una chiesa particolare non è mai conclusa, ma in quanto è crescente il numero di coloro che non hanno ascoltato il primo annuncio del vangelo.
Le risposte alla domanda “perchè amministrare il battesimo” (nr. 55) e “perché la missione” (nr. 11) si richiamano reciprocamente:
- per comando formale di Cristo;
- per la prassi della chiesa, che si è dimostrata liberatrice e capace di promuovere la salvezza integrale dell'uomo;
- perchè è un dovere dei cristiani comunicare il dono gratuitamente ricevut0 [37];
- perchè è un diritto da parte di chi ha già la conversione del cuore ricevere la pienezza della vita attraverso il battesimo, che è nuova nascita e non semplice suggello della conversione.
Sembra che tutto questo formi il contesto per meglio comprendere la risposta del nr. 11: «La missione è un problema di fede».
Ci chiediamo ora quale sia propriamente il significato del dialogo interreligioso (nrr. 55-57) nel quadro della missione così delineato. RM riconosce apertamente che esso «fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa» (nr. 55), ma abbiamo già visto che l’enciclica non focalizza la missione in quanto evangelizzatrice, quanto piuttosto la missione ad gentes. Come già abbiamo ricordato – rifacendoci al contesto in cui se ne parla – esso sembra rientrare nell’ambito di ciò che piuttosto consegue alla plantatio ecclesiae e che in termini generali può essere detto “inculturazione”, cioè lo sforzo della chiesa di trasmettere alle varie culture i suoi valori «assumendo ciò che di buono c’è in esse e rinnovandole dall’interno» (nr. 52).
Con questa impostazione sembra coerente la descrizione del dialogo come “sfida” che stimola la chiesa a scoprire i segni della presenza di Cristo e dello Spirito e ad approfondire la propria Identità [38]. RM riconosce che «tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e nella stessa forma» (nr. 57) [39]. Si riconosce che per alcuni missionari e comunità cristiane il dialogo può essere «l’unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo» (nr. 57) e quindi l’unico modo possibile di compiere la missione (cf. nr. 42), e che ciò è una via verso il Regno, ma non gli si attribuisce uno speciale valore rispetto alle altre testimonianze.
Conformemente all’impostazione del discorso sulla missione, il vero dialogo sembra quello che contiene l’appello alla conversione. Per questo – sebbene in altro contesto – i discorsi di Paolo a Listra e ad Atene (cf. At 14,15-17; 17,22-31) «sono riconosciuti come modelli per l’evangelizzazione dei pagani: in essi Paolo “entra in dialogo” con i valori culturali e religiosi dei diversi popoli. L’enciclica rifiuta l’obiezione di chi considera il dialogo così inteso come frutto di «tattica o di interesse» (nr. 56) o come «proselitismo» (nr. 46), poiché
1. questo appello viene fatto con rispetto della libertà dell'uomo: «La chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e le culture, e si ferma davanti al sacrario della coscienza» (nr. 39);
2. la chiesa non rinuncia al dialogo quando si trova di fronte a una mancata accoglienza o risposta (cf. nr. 57).
[31] Enchiridion vaticanum XII, EDB, Bologna 1992, nrr. 547-732, pp. 448-623.
[32] «In questa visione il Regno tende a diventare una realtà del tutto umana e secolarizzata, in cui ciò che conta sono i programmi e le lotte per la liberazione socio-economica, politica e anche culturale, ma in un orizzonte chiuso al trascendente. Senza negare che anche a questo livello ci siano valori da promuovere, tuttavia tale concezione rimane nei confini di un regno dell’uomo decurtato delle sue autentiche e profonde dimensioni, e si traduce facilmente in una delle ideologie di progresso puramente terreno. Il regno di Dio, invece, “non è di questo mondo [...] non è di quaggiù” (cf. Gv 18,36)» (nr. 17).
[33] Riportiamo i titoli delle prime cinque parti: “Gesù Cristo unico salvatore”, “Il regno di Dio”, “Lo Spirito santo protagonista della missione”, “Gli immensi orizzonti della missione ad gentes”, “Le vie della missione”. Le parti rimanenti hanno un carattere più direttamente pastorale e riguardano: “I responsabili e gli operatori della pastorale missionaria”, “La cooperazione all’attività missionaria, “La spiritualità missionaria”.
[34] «Gli uomini, quindi non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, sotto l’azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (nr. 5).
[35] «Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non aver riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito, “per operare lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale”» (nr. 29). «Mentre andiamo scoprendo e valorizzando i doni di ogni genere, soprattutto le ricchezze spirituali, che Dio ha elargito ad ogni popolo, non possiamo disgiungerli da Gesù Cristo, il quale sta al centro del piano divino di salvezza» (nr. 6).
[36] «L’azione universale dello Spirito non va poi separata dall’azione peculiare, che egli svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa. Infatti è sempre lo stesso Spirito che agisce sia quando vivifica la chiesa e la spinge ad annunziare il Cristo, sia quando semina e sviluppa i suoi doni in tutti gli uomini e i popoli, guidando la chiesa a scoprirli, promuoverli e recepirli mediante il dialogo. Qualsiasi presenza dello Spirito va accolta con stima e gratitudine, ma il discernerla spetta alla chiesa, alla quale Cristo ha dato il suo Spirito per guidarla alla verità tutta intera (Gv 16,13)» (nr. 29).
[37] Il “dovere” sembra qui si debba intendere come necessità sul tipo del bonum diffusivum sui.
[38] In questa luce va interpretato l’accenno alla finalità del dialogo ossia la “purificazione e conversione interiore” nel contesto del superamento dei pregiudizi, delle intolleranze e dei malintesi reciproci.
(39) Le varie forma di dialogo vengono enumerate come in DM 30-35, anche se con ordine variato, cioè mettendo al primo posto il dialogo fra esperti, e precisamente come segue: tra esperti (a livello di discussione teologica), tra rappresentanti ufficiali (per la promozione umana e difesa dei valori religiosi), tra credenti impegnati in esperienze di preghiera (per scambiarsi le esperienze spirituali), tra tutti i credenti, soprattutto i laici con il “dialogo di vita”.